Fandom: Originali
Genere: Romantico, Erotico, Drammatico.
Rating: NC-17.
AVVISI: Angst, Incest, Het, Slash (accennato).
- Il matrimonio di Manila si avvicina, ormai mancano poche ore alle nozze, e durante la notte lei e suo fratello Lacros si incontrano in privato per fare il punto su un sentimento che pesa sulle spalle di entrambi da fin troppo tempo.
Note: Yeee, è arrivata l'ultima settimana del COW-T #5 e, come da tradizione, eccomi qui a scrivere sulla Veggente e sull'ambientazione dell'anno appena trascorso, che quest'anno mi era particolarmente cara in quanto vede protagonista la mia bb Manila stessa più degli altri personaggi che man mano sono andati aggiungendosi al canone nel corso degli anni XD Le aggiunte, però, naturalmente ci sono state, la più importante delle quali è Lacros, il meraviglioso fratello maggiore di Manila, col quale Manila ha intrecciato negli anni una relazione stupenda di cui mi sono tanto divertita a parlare, condendola di un po' tutto quello che mi veniva in mente per quanto riguarda invece la società del popolo a cui Manila appartiene e via così ♥ Special guest Lænton, ovvero il legittimo consorte di Lacros, e Abilene, la splendida generalessa della nostra armata, che ai tempi in cui appare in questa storia era ancora un maschietto, peraltro XD
E insomma, classica storia che non leggerà nessuno come ormai la quasi totalità delle mie storie, ma non importa perché mi permette di portare 8k e un non ancora identificato quantitativo di Punti Cuore alla causa della nostra generalessa, per cui \o\
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SPARKS FROM YOUR STARE CASCADE INTO MINE

Manila attraversa silenziosamente i corridoi del palazzo. I suoi passi riecheggiano nella notte, il tacco appena rialzato delle scarpette di seta produce un ticchettio secco che riverbera nell’aria leggera e fresca intorno a lei, rimbalzando da una parete all’altra, giocando a nascondino fra i pendenti di cristallo che dondolano lievemente dagli enormi lampadari ancorati ai soffitti altissimi e adesso spenti. Le lunghe pietre sfaccettate a goccia riflettono i raggi bianchissimi della luna, producendo bagliori che si allargano, si deformano, si proiettano sul pavimento in marmo striato nero. Manila cammina in silenzio su una superficie liscia e perfetta che sembra la volta celeste puntellata di stelle. È notte sopra e sotto di lei, è notte tutt’attorno al suo corpo fasciato in una vestaglia di tessuto impalpabile che la avvolge in una nuvola rosata trasparente attraverso la quale i contorni sottili e delicati delle sue forme sono visibili senza aver bisogno di guardare con attenzione. Le cosce affusolate sbocciano come fiori dall’orlo cortissimo della vestaglia. Le punte delle dita fanno capolino dalle maniche, le candide mezzelune delle unghie regolari ed accentuate appena dallo smalto trasparente.
Il suo corpo è acceso come i suoi occhi sono spenti. I suoi passi risuonano in un vuoto che assomiglia in tutto e per tutto a quello che sente all’altezza dello stomaco. Un dolore sordo le attanaglia il petto. No, no, pensa. Non sa neanche più di preciso cosa sia che sta rifiutando di fare. Sposarsi? Mettere fine al suo vagabondare da una realtà all’altra, al suo saltare di luogo in luogo, di tempo in tempo, di letto in letto, dalle braccia di qualcuno a quelle di qualcun altro? Sta dicendo no alla sua natura, al suo popolo, alla sua discendenza, alle quattro persone che chiedono la sua mano o soltanto a suo fratello?
Gli appartamenti di Lacros la accolgono silenziosi e bui, familiari e al contempo estranei. È cresciuta correndo e saltando in queste stanze, su questi tappeti, fra questi mobili. Si è nascosta dietro queste tende, accoccolata su questi divani, appoggiata a queste pareti. Questo posto è stato il suo mondo, finché questo mondo non è diventato troppo piccolo per lei, finché la sua natura non ha cominciato a pretendere altri mondi, che fossero più grandi, più originali, più vari. “Mai più queste quattro mura attorno a me, mai più mura attorno a me,” si è ripromessa quando è partita, cinque anni fa.
È di nuovo qui, oggi. Non sa nemmeno come dovrebbe sentirsi a riguardo. Ha la sensazione di aver viaggiato in circolo per anni, di aver camminato convinta di avanzare e di essersi ritrovata alla fine allo stesso punto dal quale era partita. Queste stanze, questi tappeti, questi mobili. Queste tende, questi divani, queste pareti.
Scivola silenziosamente lungo il corridoio, l’eterno corridoio sulle lunghezze del quale da bambini lei e Lacros si rincorrevano. Era sempre lei a rincorrerlo, a cercare di afferrarlo. Ha mai smesso?
La camera da letto è vuota. Il letto sembra non essere nemmeno stato toccato. Non c’è traccia di Lacros, ma nemmeno di Lænton. Il dettaglio la preoccupa più di quanto dovrebbe.
Ripercorre il corridoio al contrario. “Forse mi è sfuggito qualcosa,” pensa. Ma non le è sfuggito niente.
Trova suo fratello solo quando è lui a volersi fare trovare. Appare all’improvviso alle sue spalle, Manila sente prima il suo odore, poi il calore penetrante delle sue mani quando si appoggiano sulle sue braccia e le stringono appena. Mani grandi, forti. Si appoggia all’indietro, sul suo petto, chiudendo gli occhi. Il suo calore, il suo profumo. Inspira a fondo, lentamente. Ha paura di dire qualsiasi cosa, qualcosa di sbagliato (niente di quello che potrebbe dire, a questo punto, sarebbe mai giusto), perciò non dice niente. Suo fratello la stringe fra le braccia, le respira fra i capelli. È un attimo perfetto. In quell’istante, non sembra passato neanche un giorno dall’ultimo bacio che si sono scambiati.
- Dov’è la megera? – chiede Manila in un soffio. Le sue labbra si piegano in un sorriso quando sente suo fratello sbuffare.
- Non parlare così di mio marito, te ne prego. – sospira lui, - Quante volte dovrò chiedertelo?
- Per tutta la vita. – risponde lei con naturalezza.
Lui si ferma per qualche istante. Le accarezza le spalle con una devozione senza pari.
- E tu prima o poi mi risponderai di sì? – le chiede piano.
Manila si lascia sfuggire una risata che trilla come campanelli per tutte le stanze della casa.
- Non contarci. – gli risponde.
Lacros sospira ancora, e la lascia andare. Lei ne approfitta per voltarsi e guardarlo. I suoi capelli biondi, contrariamente al solito, sono sciolti, e ricadono lisci e morbidi lungo le sue guance, sottolineando la linea netta dei suoi zigomi e quella squadrata della mascella. I suoi occhi chiari brillano alla luce della luna. Si animano degli stessi bagliori che animavano le gocce di cristallo dei lampadari in corridoio. La volta celeste è la stanza, e gli occhi di Lacros sono stelle che Manila non riesce a guardare per più di pochi istanti, prima di restare accecata dalla loro luce.
- È andato a stare da sua madre. – dice finalmente Lacros, e poi aggiunge, anticipando la battuta cattiva di Manila, - Solo per una notte. Per darci qualche ora. Ti rispetta più di quanto tu non creda. Certamente più di quanto meriti.
- Non è la maledizione di tutte le veggenti? – minimizza Manila, stringendosi nelle spalle, - Il rispetto che ci è dovuto, e che non ci guadagniamo?
Lacros aggrotta le sopracciglia, perplesso.
- Non vedo dove sia la maledizione. – dice.
Manila piega le labbra in un sorriso mesto.
- Il rispetto che ti è dovuto non è il rispetto che hai voluto. – spiega, - Il rispetto che vuoi ti libera quando lo ottieni. Il rispetto che non vuoi ti incatena quando lo ricevi.
Lacros sospira profondamente, passandosi una mano sul viso.
- Non cominciare con la filosofia, Manila, - le chiede, quasi la implora, - Tutto, ma non la filosofia.
Manila ride appena. Solleva una mano e la stringe attorno a quella che Lacros tiene ancora premuta contro gli occhi. La guida verso il basso, lontano dal suo viso.
- Parliamo. – dice.
Lacros schiude le labbra. La guarda, e nei suoi occhi non ci sono più solo stelle, ma galassie intere. Tutti i mondi sconosciuti che Manila vorrebbe ancora visitare. Tutto ciò che non può avere. Come lui.
- Parliamo. – annuisce suo fratello.
L’orologio in fondo al corridoio rintocca la mezzanotte. Mancano esattamente sei ore al mattino.
*
Lacros si stringe nel cappottino in velluto nero, quello imbottito, il regalo più caro della nonna. “Questo tessuto,” gli ha detto, “È filato col materiale di cui è composto il cielo.”
“Nonna,” ha borbottato lui, mentre si concedeva di ruotare gli occhi e piegare le labbra in una smorfia annoiata, certo che gli occhi grigi e ciechi di sua nonna non avrebbero potuto vederlo, “Il cielo non è in tessuto. Non è in cotone né in lana né in seta né in lino, il cielo non può essere filato.”
Sua nonna si è voltata a guardarlo come potesse davvero vederlo. “Non roteare gli occhi, mio splendido, e non sbuffare, e non trattare la tua venerabile nonna come una comune vecchia pazza. Il cielo è un tessuto, così com’è un tessuto il tempo. Così com’è un tessuto lo spazio, come sei un tessuto tu, com’è un tessuto qualsiasi oggetto su cui puoi posare lo sguardo. Siamo tutti un intreccio di fibre, un intreccio di vite. E come tali, possiamo essere filati.”
La nonna è morta poco meno di un anno fa. Si è spenta nel sonno, pacificamente, come tutte le veggenti, quando sua figlia, la madre di Lacros, si è riscoperta incinta di una bambina.
C’è un orologio a tempo dentro ogni donna della loro stirpe. Comincia a ticchettare quando nascono. Si fa più svelto, quasi concitato, quando mettono al mondo un’erede. E si ferma soltanto quando ricevono in dono una nipote, quando sanno che la linea potrà continuare per almeno altre due generazioni.
Sua nonna è morta sorridendo, lasciandogli in dono soltanto il cappotto filato con lo stesso tessuto del cielo. Lacros non ha capito cosa volesse dire finché, il giorno del funerale, mentre lui piangeva e le sue lacrime scivolavano lungo le sue guance e poi cadevano sul bavero del cappotto, presto assorbite dal tessuto robusto e pesante, ha cominciato a piovere. Le gocce sembravano lacrime, proprio come le sue, e il cappotto le assorbiva nello stesso identico modo, come le riconoscesse. E Lacros ha capito. Il cappotto non è fatto dello stesso materiale del cielo perché sua nonna sia in qualche modo riuscita a strapparne via dei lembi e comporli insieme, cucirli in un modello che stesse bene a lui. Il cappotto è fatto dello stesso materiale del cielo perché ogni cosa è fatta dello stesso materiale di qualsiasi altra cosa. Il cappotto è il cielo ed è le lacrime ed è la nonna che non c’è più.
Ed è anche sua sorella, la piccolissima, che riposa nella sua culla oltre il vetro che Lacros non può attraversare.
- Guardala, - dice suo padre, appoggiandogli una mano su una spalla e puntando l’indice contro il vetro, verso la figurina rotonda appena al di là, - Non è bellissima?
Lacros ne studia silenziosamente le fattezze, i colori. È tutta bianca e rosa, e perfettamente sferica. È tutta piccola, proporzionata. Una testolina minuscola che ciondola appena, due manine minuscole strette in due pugni ostinati che ogni tanto si agitano a mezz’aria, due gambette minuscole, piegate come virgole, dall’aspetto morbido, invitanti come panini al latte.
Senza dire una parola, Lacros annuisce.
Suo padre sorride, soddisfatto.
- Non sei contento? – gli chiede, - Adesso non sarai più solo.
Qualcosa gli si accende dentro, un’improvvisa, devastante smania di possesso. Il suo corpo riesce a contenerla appena, e lui si stringe con più decisione nel cappotto, chiedendo al tessuto del cielo e alla nonna di aiutarlo ad arginare l’incendio.
- È mia? – chiede, voltandosi verso suo padre.
Lui ride intenerito, accarezzandogli i capelli biondi.
- No, mio splendido, - dice, - Tua sorella è un dono che può solo essere ceduto. Appartiene a noi tutti, come popolo, e allo stesso tempo nessuno di noi potrà mai davvero possederla. La mamma l’ha chiamata Manila. Sai cosa vuol dire nella lingua antica?
Lacros torna a guardare la bambina, che si agita nel sonno. Ascolta le parole di suo padre, ma distrattamente. L’unico pensiero su cui la sua mente riesce a concentrarsi è una domanda frustrata e infastidita: perché non può essere mia? Perché devo donarla agli altri? Perché non posso semplicemente tenerla per me?
Scuote il capo.
- Non siamo ancora arrivati alle parole composte… - confessa, vagamente imbarazzato.
Suo padre sorride e gli accarezza i capelli.
- Vuol dire libera viaggiatrice. La piccolissima crescerà forte e indomabile come il vento. Sconfiggerà qualsiasi forza provi a trattenerla in un luogo in cui non vuole stare. Fuggirà da tutto e tutti e visiterà tutti i mondi che splendono sotto la volta azzurra del cielo, e quando sarà pronta tornerà a casa per regnare sul suo popolo, e tu, mio splendido, tu che sarai più grande di lei, tu dovrai lasciarle fare tutto ciò, e poi aiutarla quando sarà lei a chiedertelo.
Lacros aggrotta lievemente le sopracciglia bionde e sottili. Una sorella che vola via, una sorella che si allontana, una sorella che scappa. A cos’è servito attenderla così a lungo, nove interminabili mesi, solo per sapere che presto se ne andrà? Che non potrà mai essere sua per davvero?
- Papà, - dice a bassa voce, in un borbottio deluso, - Secondo me non è giusto.
Suo padre si china ad abbracciarlo, e poi lo solleva in alto, sorridendogli conciliante.
- Imparerai a capire. – dice enigmatico. – Ora vieni. Andiamo a trovare la mamma.
*
Manila sorseggia lentamente una cioccolata calda. Ha sempre adorato le bevande bollenti. Prima ancora del sapore, è la sensazione sulla lingua ad attirarla. Quell’istante straordinario in cui le papille gustative impazziscono, e i sapori si perdono, e perfino la temperatura stessa diventa irrilevante. Che sia fredda o caldissima, la lingua la accoglie con la stessa codificata sensazione, un bruciore improvviso, spiazzante, che si spinge oltre il dolore stesso, che il sistema non riesce a registrare.
Come sempre, nulla le piace perché le piace e basta, ma per la tentazione irrefrenabile di oltrepassare il limite.
Si chiede se, in fin dei conti, non sia così anche con suo fratello.
- Chi è il padre? – domanda Lacros.
Manila si stringe nelle spalle. La domanda in sé non la stupisce, la stupisce che sia arrivata solo adesso, a poche ore dal suo matrimonio. Si aspettava che fosse la prima cosa che Lacros le avrebbe chiesto rivedendola – e d’altronde doveva sapere per forza della sua gravidanza, dopo aver visto morire la mamma.
La mamma…
L’idea che Lacros abbia saputo della sua gravidanza prima di lei la diverte in un modo sottile e doloroso. Le arriccia gli angoli delle labbra in un sorriso amaro ogni volta che ci pensa. La mamma è morta lontano da lei, non appena una minuscola vita (la minuscola vita che, fra chissà quanti anni, creerà un’altra minuscola vita, che ucciderà lei) ha cominciato a formarsi nel suo grembo.
Lacros era lì, e l’ha visto accadere. E mentre Manila ancora solcava i cieli e i mari, ignara di tutto, già sapeva. Sapeva di doverla rincorrere, di doverla venire a prendere.
Per la prima volta in assoluto.
- Saprei dirti solo di chi non è. – risponde finalmente, sollevandogli addosso uno sguardo quasi supplichevole.
Lui distoglie il proprio quasi subito.
- Non parlarmi così, - le dice, - Non mettermi in questa posizione.
- Non ne ho intenzione. – ribatte lei, aggrottando le sopracciglia, - Stavo semplicemente—
- Rinfacciandomi di non averti mai presa. – la interrompe lui, un brivido quasi violento nella voce, aggressivo per lo meno, voltandosi a guardarla con occhi di brace, - Rinfacciandomi di avere aspettato che accadesse. Rinfacciandomi di non essere stato io— rinfacciandomi che non è mio. Rinfacciandomi che non sono tuo.
Manila serra le labbra, guardandolo fisso negli occhi. Le tremano le mani attorno alla tazza, e si ritrova a stringerla in uno spasmo per non lasciarla scivolare a terra. La appoggia sulla superficie del tavolo, cercando di respirare piano, profondamente, per calmarsi un po’.
- Chiedi a me di non metterti in una posizione scomoda, e poi sei tu a… - deglutisce, - A dirmi queste cose.
- Sono forse false? – domanda Lacros. I suoi occhi sono gelidi, ma si riscaldano appena si posano sull’espressione spenta di Manila, sulle sue labbra arricciate in un broncio ferito. Sospira profondamente, passandosi una mano fra i capelli sciolti. – Perdonami, - dice. Poi le sue labbra si aprono in un sorriso triste, dietro la maschera del quale si nasconde una gelosia che Manila ha sempre dovuto filtrare attraverso un velo di indifferenza. – Non vuoi proprio dirmi di chi si tratta, vero?
È l’una del mattino. Fuori dalla finestra, non si sente altro che un concerto di grilli. La notte avanza, inesorabile, in marcia verso l’alba.
*
Lacros ha vent’anni, e ha passato gli ultimi due a scappare da sua sorella, dalle sue mani tese, dal modo in cui i suoi occhi chiari lo cercano quando pensa che nessuno la stia guardando. È furba, Manila, e allo stesso tempo è la ragazzina più ingenua che Lacros conosca. Lænton dice che è fatta della stessa materia incostante del vento. Puoi sentirne il rombo a chilometri di distanza, anche se le sue mani nemmeno ti sfiorano. Per la maggior parte del tempo, è esattamente così che Lacros si sente.
Sua madre è il primo ricordo tattile di Manila.
Suo padre il primo ricordo olfattivo.
Lui, invece, è la prima cosa che ha visto. Da quell’istante in poi, da quando ha aperto i grandi occhioni azzurri e li ha fissati su di lui, scrutandolo seria come se lo stesse studiando e giudicando e poi scoppiando a ridere dopo averlo evidentemente trovato soddisfacente a un primo esame, Manila l’ha sempre cercato. E Lacros non saprebbe identificarne con certezza i motivi, ma quello che può immaginare è che siano gli stessi che, in fondo, si agitano anche nel suo petto.
Quando la guarda, Lacros vede qualcosa che non riesce a smettere di considerare proprio per diritto, e sul quale comunque non può avanzare nessuna pretesa di possesso. È una contraddizione che gli spegne il cervello. Razionalmente, sa che dovrebbe gettarsela alle spalle, smetterla di pensarci in questi termini. Se anche Manila potesse mai essere solo sua, appartenere solo a lui, non è un oggetto ma una persona, qualcosa di vivo che si avvicina e si allontana, qualcosa che non può pretendere di legarsi al fianco come una spada o una borsa.
Ma la vuole. La vuole nel modo assoluto e totale in cui si vogliono gli oggetti che si possono acquistare. La vuole nel modo assoluto e totale in cui si vogliono le cose che trascendono il concetto stesso di proprietà per acquisto, le cose che consideri tue per diritto di nascita, come la corona, il tuo cognome, lo stemma di famiglia. Non potere avere Manila è questo, per lui, un diritto violato. Qualcosa di inaccettabile.
È lo stesso per lei. Lacros lo percepisce senza saperlo, è una realtà sottintesa alla quale non pensa, che non pronuncia mai ad alta voce. Non ne ha nessun bisogno, d’altronde, gli occhi di Manila, sempre grandi, sempre azzurri, sempre animati da quella fame a stento tenuta a freno ogni volta che lo guarda, non fanno nulla per nasconderlo.
Fuggire da quello sguardo è diventata una questione di vita o di morte, di conservazione della propria sanità mentale. Un centinaio di volte i suoi occhi hanno incrociato quelli di sua sorella, e un centinaio di volte in quegli specchi azzurri ha letto il desiderio di essere presa, prendimi, prendimi, allunga una mano e prendimi, e tutte le volte, ogni singola volta, la voce di suo padre è tornata a farsi sentire in un’eco che non gli dava tregua, mio splendido, non puoi prenderla, non è tua, è del mondo, è un dono che non si può ricevere, che può solo essere ceduto, non è tua, mio splendido, sei tu ad essere suo, condannato ad appartenerle senza mai poterla avere.
Ogni singola volta. Ogni volta. Lacros ha distolto lo sguardo. Ha sentito la rabbia di Manila montare, la sua insoddisfazione crescere, la sua frustrazione scorrere venefica nelle sue vene, trasportata dal rombo del suo sangue.
Manila non ha mai smesso di rincorrerlo, ma da un certo punto in poi ha cominciato ad odiarlo per quella fuga senza fine. E odiarlo vuol dire vendicarsi di lui, in tutti i modi in cui può. Ha tinto i capelli per fuggire dal biondo dorato della loro famiglia, del loro popolo, indossa solo vestiti impalpabili, gonna cortissime, camicette che lasciano le braccia nude, maglie dalla scollatura profonda sotto le quali la curva accennata del seno si accentua, dagli scolli delle quali l’onda piena della sua gola si solleva bianchissima, formando una curva che i suoi occhi non riescono a smettere di percorrere in una carezza lenta e impalpabile ma intensa e bollente come il vento del deserto.
E poi i ragazzi e le ragazze. Le decine, dozzine di ragazzi e ragazze. Sempre. Continuamente.
Manila li sfoggia come vestiti nuovi, li esibisce senza ritegno. Loro lo sanno, forse non sanno perché ma lo sanno, e la lasciano fare perché lei è la veggente, la piccolissima, la bellissima, già regina prima ancora di diventarlo, e non c’è uomo o donna che si tirerebbe indietro di fronte a quel sorriso di pesca, a quelle guance dalla morbidezza infinita, a quelle cosce bianche come il latte e lunghe come catene montuose, al profumo di fiori e aria fresca che si leva dalla sua pelle, dal suo capelli quando li scuote nel vento, quando una risata la costringe a gettare indietro il capo e loro le piovono sulle spalle, lunghissimi e sottili come fili di seta.
Nessuno a parte lui.
Ma lui d’altronde sembra essere l’unica persona consapevole della verità dietro le lunghe ciglia di Manila, dietro i suoi sorrisi sensuali ed evanescenti. Alle volte vorrebbe abbracciare tutti questi ragazzini, tutti questi poco più che bambini che finiscono calamitati dalla forza di gravità che Manila produce intorno a sé vorticando senza sosta. Vorrebbe stringerli e dire loro, le state intorno come satelliti inconsapevoli. Sperate che un giorno potrete dirla vostra, ma non lo sarà mai. Qualcuno di voi forse potrà darle un figlio, uno di voi prima o poi la sposerà. Ma sarete sempre voi ad appartenerle, miei piccolissimi. Sarete voi a ricevere un dono che non potrete fare a meno di continuare a donare.
I suoi occhi si soffermano sulla figurina bionda appollaiata sul letto di Manila. Riconosce il ragazzo, Abilene dell’Angelo. Il suo biondo è diverso da quello che lui condivide con Manila, è una sfumatura più pallida, quasi bianca. Non è la prima volta che vede qui lui e quei suoi capelli lunghissimi raccolti in una coda che gli scivola lungo una spalla, lasciata nuda dalla maglia dall’ampio scollo che, senza dubbio, è andato sempre più allargandosi mentre le mani di Manila lo strattonavano.
Segni rossi sotto l’orecchio, sul collo, sulla curva perfettamente rotonda della spalla. Le labbra di Manila sono gonfie e umide. Lo sfida con lo sguardo, mentre ancora resta chinata su di lui, gli resta seduta in grembo.
- S—Sommo Priore, - balbetta Abilene. La sua voce è acuta, agitata. Ha chiaramente paura di lui, del suo sguardo severo, di quello che potrebbe fargli se decidesse di applicare la legge, di punirlo per aver sfiorato l’intoccabile piccolissima prima che fosse matura. Eppure le sue dita si stringono in uno spasmo incontrollato attorno ai fianchi di Manila. I suoi occhi implorano, Sommo Priore, non portatemela via.
A chi può mai portare via sua sorella, Lacros? Ad ognuno si può sottrarre solo ciò che possiede. E nessuno possiede Manila.
Si volta senza perdere altro tempo, abbandonando in fretta la stanza. Dimentica di chiudersi la porta alle spalle, o forse non lo fa perché non servirebbe a niente. Dovrebbe imparare a non lasciarsi influenzare da quello che vede. Sua sorella è indomabile, indomabile come il mare, nemmeno una montagna potrebbe fermarla, si limiterebbe a rosicchiarla fino ad averla erosa via del tutto, e poi passerebbe implacabile sui chilometri di sabbia che sarebbero i suoi resti, affondandoli nelle proprie profondità, e nel giro di qualche anno nessuno ricorderebbe più la montagna che pure c’era stata, per tutti resterebbe vivo il ricordo solo dell’immensità dell’oceano.
Non c’è modo di fermare Manila, si può solo fuggire da lei.
*
La verità è che non lo sa, chi sia il padre, non saprebbe dirlo. Antonio dai grandi occhi scuri, Miguel dalla pelle color caramello, Dimitri dal gelido, vago sorriso, Fermat dalle possenti spalle, il Barone Cesare Icore, sempre così nervoso, dalla passione rabbiosa e incontrollata. Sono solo nomi, li ricorda perché sono parti del suo passato. Li ricorda perché sono stati suoi. Li ricorda perché, a loro modo, ognuno le ha dato qualcosa. Uno di loro, apparentemente, anche una figlia.
Ma è tutto qui. Non ha avvicinato nessuno di loro allo scopo di darle qualcosa di simile, nessuno dei loro corpi, o di quelli delle centinaia di altri uomini e ragazzi con cui si è intrattenuta nel corso dei suoi viaggi, è stato sfiorato per ottenere questo. Erano diversivi. Alcuni più piacevoli di altri. Alcuni più cari al suo cuore di altri. Di certi ricorda ancora il profumo, il profilo del viso. Con alcuni – l’immagine del sorriso di Fermat invade i suoi ricordi per più di qualche secondo, e il suo cuore manca un battito – con alcuni avrebbe perfino potuto, forse, se non fosse stata se stessa, se il pensiero di Lacros a casa, se, se, se, forse. Ma no. Mai nessuno di loro è davvero stato importante. Mai nessuno di loro è davvero stato il porto da cui fuggire desiderando di potere invece gettare l’ancora per sempre.
- Perché ti interessa saperlo? – chiede senza guardarlo. È curiosa, lo è per davvero. Non riesce a capire che vantaggio suo fratello potrebbe trarre dall’informazione. Se è gelosia, Manila non ne comprende il senso. Se è il desiderio di rintracciare l’altra parte dell’eredità genetica della prossima veggente, Manila lo ritiene inutile – non è certo la prima veggente a restare incinta in viaggio, e la sua non sarà la prima meticcia ad ascendere al trono quando la sua ora sarà giunta.
Lacros sospira, appoggiandosi alla spalliera della sedia. Si rifiuta di guardarla, tenendo gli occhi fissi sulla tazza di cioccolata ancora quasi piena che Manila ha smesso di bere già da un po’, e che va raffreddandosi man mano che la notte si fa più fredda attorno a loro.
- Non la finisci? – domanda, - L’ho fatta perché so che ti piace.
- Non ne ho voglia, adesso. – risponde lei, stringendosi nelle spalle, - Rispondi alla mia domanda.
- Lo farei, se avessi una risposta da darti. – ribatte lui, - Ma non lo so. Non lo so davvero. Da una parte voglio il nome per cercarlo. Per sapere… non lo so. Per guardarlo in faccia, forse. – si piega in avanti, appoggiando i gomiti al tavolo. Si copre il viso con le mani. – Continuo a pensare, lui l’ha avuta. Pensavo che nessuno potesse averla, ma lui l’ha avuta.
- Mi hanno avuta in tanti, ma io non sono mai stata di nessuno. – risponde lei a muso duro, infastidita dalle sue parole.
- È vero, - annuisce Lacros, - Eppure, sarai sua. Per sempre.
- No. – dice lei. Resiste a stento all’impulso di alzarsi in piedi. – Io non appartengo a nessuno, Lacros. Domani mi sposerò, e comunque non apparterrò a nessuno.
- Ma è diverso, - insiste lui con un sorriso triste, - Come puoi non vederlo? Non ricordi nostra madre e nostro padre? Anche lei era uno spirito libero, ma avere dei figli è diverso, i figli ti—
- Io non sono come la mamma. – la voce di Manila trema appena. Tiene i pugni stretti, in vista, sul tavolo, le nocche bianchissime nella tensione dello sforzo. – Hai capito? Io non sono come la mamma. Uno spirito libero? Ricordi una mamma diversa. Uno spirito dolce, uno spirito gentile. Non uno spirito libero. Io, - dice, premendosi una mano contro il petto, di scatto, - Io sono uno spirito libero, Lacros, non puoi arginarmi. Non puoi fermarmi. Mi costringi in corsetti e veli ma non puoi rendermi una sposa. Puoi darmi a qualcuno ma non puoi rendermi una proprietà di quella persona. Io non sono come la mamma. Questa bambina non mi sta cambiando. Questa responsabilità non mi sta cambiando. Questo matrimonio non mi cambierà— tu non mi hai mai cambiato, Lacros. E gli dei sanno che ci hai provato, ma—
- Io ti ho sempre amato esattamente com’eri. – la ferma lui. La sua voce è calma, perfettamente salda. Forma un contrasto privo di senso con quella concitata e affannosa di Manila. – Come sei. – il suo sorriso si addolcisce appena, triste. – Ma tu non l’hai mai visto. Mia piccolissima. Amore mio.
La luna alta delle due del mattino illumina il viso di Manila, e l’unica lacrima che lo solca, e che brilla come una perla sullo sfondo buio della stanza.
*
A volte, di notte, non riesce a controllarsi. Così come quando, da bambino, scivolava fuori dalla propria camera ed attraversava il lungo corridoio in marmo nero per raggiungere la stanza in cui la piccolissima dormiva, a pochi passi da quella dei loro genitori, anche adesso certe notti è come se un demone lo possedesse, gli animasse le membra, gli impedisse di trovare riposo finché non l’ha vista.
Come allora, quando sente l’impulso, si alza dal letto, anche se ogni tanto gli capita già di dividerlo con Lænton. Lui se ne accorge sempre, apre gli occhi chiari nel buio della stanza e anche se non c’è mai rabbia, dentro, Lacros sa che Lænton non riesce a capire. Che accetta questo desiderio come parte di lui, ma non riesce a spiegarselo.
- Vai? – gli chiede.
Lacros guarda in basso, vergognandosi profondamente di se stesso.
- Vado. – risponde.
- Vorrei capire, - dice Lænton, sollevandosi a sedere, - È preoccupazione? O vuoi semplicemente vederla? Essere sicuro che sia ancora lì, che il vento non l’abbia già presa?
Il momento si avvicina, Lacros lo sa. Manila ha quindici anni e questa è l’età in cui le future veggenti cominciano a viaggiare. Un giorno si sveglierà, aspettandosi di vederla apparire sulla soglia della porta della sala, i capelli scarmigliati e uno sbadiglio sulle labbra, ed invece lei non ci sarà. E quel giorno, non importa quanto lui avrà cercato di prepararsi al momento nel frattempo, correrà in camera sua, si chinerà accanto al suo letto, inspirerà forte il suo odore strappandolo geloso alla federa del cuscino e poi piangerà. Piangerà perché sarà l’inizio della fine, piangerà perché saprà che, la volta successiva in cui la vedrà, sarà per darla in dono a qualcun altro, stavolta per sempre.
- Non lo so. – risponde in un sospiro, passandosi una mano sugli occhi, - Non ho una risposta e non voglio mentirti inventandone una rassicurante.
Lænton annuisce comprensivo.
- Sarò qui, quando tornerai. – lo rassicura, tornando a distendersi e chiudere gli occhi.
Lacros abbandona la stanza chiedendosi perché il suo cuore debba essere così irrequieto. Perché non possa farsi bastare Lænton, Lænton e i suoi splendidi occhi chiari, il fisico snello ma forte, le labbra sottili che solo ogni tanto, del tutto all’improvviso, si aprono nello splendido fiore del suo sorriso.
Lænton coi suoi modi affabili e la sua imperturbabile calma, Lænton che con un bacio e una carezza riesce sempre a sopire le fiamme che si agitano nei suoi lombi. È Lænton la scelta giusta, ed è la scelta che Lacros farà, ma eccolo, a notte fonda, che attraversa i corridoi oscuri del palazzo, diretto in camera di Manila. Se Lænton è la scelta giusta, perché continua ostinatamente a rivolgere lo sguardo verso quella sbagliata?
Manila sembra dormire profondamente. Non si muove quando Lacros apre la porta di camera sua e poi la richiude dopo essere entrato. Non si muove quando si avvicina al suo letto, quando si siede accanto a lei. Lacros studia i suoi lineamenti nella luce della luna che, attraverso le tende bianchissime e sottili, filtra nella stanza, illuminandole il viso. La sua pelle, così bianca, nel chiaroscuro della stanza sembra quasi azzurra. Che voglia di toccarla. Di sfiorare i suoi zigomi alti, di sentire le sue ciglia sfiorare i suoi polpastrelli come il battito d’ali di una farfalla. Che voglia di passare il pollice sopra le sue labbra dischiuse, di ridisegnare il contorno della sua bocca e poi affondare, che voglia di sentire il calore bagnato della sua lingua, di…
Trattiene il respiro, ritraendo la mano. Manila ha aperto gli occhi e lo scruta calma, studiandolo. Lænton lo guarda allo stesso modo, quando non lo capisce. Mentre la guarda, e il cuore gli martella nel petto, in un secondo realizza che lo ama perché è quanto di più simile a lei esista, pur essendo quanto di più diverso.
- Ti ho svegliata? – le chiede stupidamente. Sa che dovrebbe andar via, ma non riesce a costringersi a farlo.
- Sì. – risponde lei onestamente, ma non c’è risentimento nella sua voce. – Scapperai, se mi metto seduta?
Lacros scuote il capo.
- E se mi avvicino?
Lui nega un’altra volta.
Manila annuisce brevemente, e poi si solleva a sedere, scivolando sul materasso fino a farglisi più vicina. Il tepore del suo corpo lo raggiunge attraversando senza difficoltà i pochi centimetri che li separano, e Lacros vorrebbe abbracciarla, annullare la distanza del tutto, sentirla così vicina da non riuscire più a riconoscere le differenze fra i loro corpi.
Non è più solo voglia, è smania. È isteria. È una malattia.
- Lacros, - dice lei. Poi la sua voce si addolcisce, - Fratello. Lo sento arrivare.
E lui trema, stringendo i pugni sulle ginocchia.
- Quando pensi di partire? – le chiede, guardando in basso.
- Non lo so, - ammette lei con un sospiro, - Non ho nessun controllo sui miei desideri. Lo sento scoppiettare sottopelle. Un giorno non tornerò a casa. Uscirò e non tornerò più. Volevo dirtelo— volevo che tu lo sapessi da me, così non dovrai preoccuparti quando mi vedrai sparire.
Lacros si morde l’interno di una guancia, rifuggendo il suo sguardo.
- Sarò sempre preoccupato. – le dice.
Manila non risponde, ma si solleva sulle ginocchia. La coperta le scivola di dosso, lasciandola quasi nuda. Indossa solo una corta tunica smanicata, dalla scollatura troppo ampia e profonda per nascondere la curva del seno, ed il tessuto è troppo sottile per celare alla vista le minuscole punte dei suoi capezzoli, così come l’orlo è troppo corto per coprire la collina dolcissima dei suoi fianchi.
- Lacros. – dice. Il suo nome sembra musica, quando è lei a pronunciarlo, e Lacros chiude gli occhi, rapito, cercando di sfuggire all’incantesimo che sua sorella non è nemmeno consapevole di lanciargli contro. Volta il capo, ma lei gli appoggia una mano sulla spalla ed un’altra sul mento, cercando di farlo voltare ancora. – Lacros, ti prego. – lo implora, e Lacros appoggia una mano sulla sua, schiude gli occhi e la guarda, e gli occhi di Manila luccicano nella luce della luna, lo ipnotizzano.
Si avvicina senza più pensarci, stanco di scappare, stanco di rispondersi no da solo ogni volta che pensa che forse potrebbe, forse stavolta, per una volta, potrebbe prenderla. Appoggia le labbra sulle sue e la bacia, e poi le schiude e la assaggia, e Manila sa di miele, miele e cioccolato, sa di tutte le dolcezze del mondo, la dolcezza tipica delle tentazioni che nessuno dovrebbe mai concedersi. Baciarla è un trionfo, stringerla, sfiorarla ovunque, non è soltanto soddisfazione, non è soltanto piacere, è una battaglia vinta, anche se, contro chi, non saprebbe dirlo. Contro le parole di suo padre, forse, quel giorno, dietro quel vetro. “Non è tua, mio splendido, non lo sarà mai. Sarà per sempre di qualcun altro, di chiunque altro, ma mai tua soltanto.”
E invece no. Invece è sua. È sua, la sta stringendo. È sua, la bacia come una cosa propria, affondando dentro di lei. Sentendola gemere fra le labbra. Solo lui, solo lui nel mondo può darle questo. I ragazzini e le ragazzine che sfoggia come vestiti nuovi sono solo questo, vestiti nuovi, distrazioni, capricci che danzano davanti ai suoi occhi, piccole trappole che lei ha disseminato negli anni per tenerlo al guinzaglio, per trascinarlo vicino, perché lui potesse stringerla, un giorno, come la stringe adesso.
Va tutto bene, pensa, perché lei lo vuole, ed io lo voglio, e non importa se è sbagliato, perché è quello che vogliamo e ce lo prenderemo.
Ed è allora che si allontana. Di scatto, come se le labbra di sua sorella avessero improvvisamente preso a bruciare. La guarda, inorridito da se stesso, dai suoi stessi pensieri, e un po’ anche da lei, perché lo sa, li condivide.
- Lacros, no. – dice Manila, avanzando sulle ginocchia, tentando di trattenerlo, - Ti prego, non andare via.
- Devo. – risponde lui, serio, - Questo è sbagliato. Tu andrai via.
- Potrei rimanere! – ribatte lei, la voce che si spezza, - Non devo partire per forza. Non devo per forza— tu non devi— potremmo—
- No. – taglia corto lui, voltandole le spalle. Si muove a grandi falcate verso la porta, stringendo la maniglia fra le dita per un minuto mentre si ferma sulla soglia. – Buon viaggio, mia piccolissima. – le dice.
La voce di Manila si spegne nel silenzio, non le sfugge dalle labbra neanche un singhiozzo. Lacros sa che, se si voltasse a guardarla, la troverebbe in ginocchio sul letto, pallida come la luna, gli occhi spalancati dall’orrore, pieni di lacrime, le labbra serrate in una linea tremante. Sa che non riuscirebbe a sopportarne la vista, e perciò non si volta. Abbandona la stanza, attraversando il corridoio di corsa, rifugiandosi nella sua stanza.
Quando chiude la porta, Lænton scatta a sedere. I suoi occhi sono vigili e attenti, chiaramente non dormiva.
Lacros lo raggiunge, si inginocchia sul pavimento accanto a lui. Lænton lo guarda con curiosità malcelata e un pizzico di preoccupazione.
- È tutto a posto? – domanda discreto.
Lacros stringe le sue mani fra le proprie, guardandolo con occhi disperati.
- Sposami. – dice.
E tutto quello che riesce a pensare, mentre aspetta di sentirlo dire sì, è che spera che Manila non sia lì per vederlo.
*
- Perché non mi hai mai presa? Ero lì. Non chiedevo altro. Avremmo potuto. Perché non mi hai mai presa?
La voce di Manila si spegne all’improvviso, com’è esplosa un minuto fa. Lacros non riesce a guardarla. Vorrebbe avere una risposta da darle, ma non ce n’è una che lo convinca. Non l’ha presa perché sarebbe stato sbagliato. Non l’ha presa perché non sarebbe stato giusto. Ma non l’ha presa anche per egoismo, e per paura, perché pur sapendo che anche lei lo voleva non è mai stato coraggioso abbastanza da mettere a rischio i propri sentimenti pur di farla felice. Non l’ha presa perché sapeva che sarebbe stata una soluzione temporanea, perché prenderla avrebbe significato illudersi di poterla trattenere. Ma lei sarebbe comunque andata via, oh, nonostante le sue promesse, perché non si può arginare il vento, e sarebbe stata il vento a rapirla. E poi lui sarebbe rimasto da solo, da solo col suo cuore spezzato, sapendo che sarebbe bastato rinunciare a lei per proteggerlo da quella frattura insanabile, sapendo di avere solo se stesso da biasimare.
Non ti ho presa perché ti amo, ma non abbastanza da morire di dolore per te, questo dovrebbe dire a sua sorella. Ma quando la guarda negli occhi si sente già morto, percepisce quella frattura così profondamente, così dolorosamente da chiedersi “ma se non è servito a niente, se ho comunque sofferto, perché mi sono trattenuto? Perché non ti ho presa, e non prendendoti ti ho persa?”
- Perché sono un codardo, - risponde, gli occhi fissi sulle proprie mani dalle dita intrecciate, appoggiate sul tavolo, - E un egoista. Perché ho deciso di mettere me stesso prima di te. – solleva lo sguardo, incontrando il suo. – Ti volevo così tanto, mia piccolissima. Ti volevo così tanto da non riuscire a pensare ad altro. Ti volevo così tanto da essere incapace di accettare l’idea che tu non potessi mai essere mia.
- Io non sono di nessuno, Lacros, - ribadisce lei, sentendosi quasi attaccata dalle sue parole, - Io sono solo mia. Mia e di nessun altro.
- Lo so. Mia piccolissima. Lo so. – Lacros si alza in piedi, girando attorno al tavolo, fermandosi davanti a lei. – Non vedi? È proprio questo a frenarmi. Il modo in cui ti voglio— non è il modo giusto per te. Hai bisogno di qualcuno che sia in grado di amarti senza metterti le catene ai polsi. Io non sono quella persona. Manila, non posso essere quella persona. Io sono la persona che vorrebbe poterti considerare propria nonostante il tuo ruolo e la tua natura. Sono la persona che ti ridurrebbe a uno scricciolo per tenerti in tasca. Sono la persona che ti stringerebbe forte una mano per non lasciarti più andare. Non hai bisogno di me, sorella. Non hai bisogno di me.
Manila gli solleva gli occhi addosso. Sono velati di lacrime, e le sue labbra tremano appena.
- Ma ti voglio lo stesso.
*
Le braccia di Manila si chiudono dolcemente attorno al suo collo, le punte delle sue dita gli sfiorano la nuca e, mentre la bacia, Lacros la solleva fra le braccia, stringendola a sé. È così sottile, così sottile e leggera, la piccolissima, impalpabile come una nuvola. Il suo corpo è soffice e lieve come il vestitino che indossa, e mentre la conduce in camera da letto – l’odore di Lænton attaccato ai cuscini, alle lenzuola, perfino alle molecole d’aria, spazzato via in un secondo dalla fragranza dolce e speziata di Manila, non appena si solleva dalla sua pelle quando lui la appoggia con uno sbuffo sul letto ancora perfettamente rifatto – Lacros ripensa al cappotto intrecciato con fibre di cielo, dono di sua nonna. La vita è vita, è vita sempre, è vita in ogni cosa. Manila è composta della stessa sostanza di cui sono fatti i suoi abiti, della stessa sostanza del vento, ed anche della stessa sostanza di cui è composto lui. In fondo, prima di tutto il resto, lui e sua sorella sono la stessa cosa, e poco gli importa che valga lo stesso anche per tutto il resto del loro popolo, per tutte le creature viventi e per ogni oggetto plasmato dalle loro mani: sono insieme, adesso, ogni centimetro del loro corpo si sfiora e le loro fibre intrecciate sono le stesse, si confondono fra loro.
Il corpo di Manila scompare sotto il suo, e Lacros la schiaccia contro il materasso come se questo potesse bastare a fermarla. Forse, pensa, se ci avviciniamo abbastanza, se ci avviciniamo abbastanza ci fonderemo in una persona sola, e lei potrà essere mia per sempre.
Ma Manila è una battaglia che non si può vincere, una guerra dall’esito scontato e sempre sfavorevole. Affonda le unghie nelle sue spalle, costringendolo a un grugnito basso che vibra nell’ennesimo bacio che si scambiano, e poi ribalta le loro posizioni. Prima ancora di riuscire a capire come, Lacros giace sulla schiena, le mani chiuse come una morsa attorno ai fianchi sottili di Manila che si erge seduta sul suo grembo, i capelli scarmigliati e le guance arrossate, fiera e decisa come se stesse cavalcando nel vento. Il suo petto si solleva e si abbassa al ritmo frenetico dei suoi respiri, e quando si piega in avanti i suoi seni gli si offrono come frutti maturi pendenti da un ramo, e Lacros li stringe fra le mani, li stringe, li stringe e si solleva per accoglierli in bocca. Lecca e succhia i suoi capezzoli turgidi, dritti e duri come capocchie di spillo, e sente il battito del suo cuore come un’eco del proprio.
Manila si agita senza freni sopra di lui, si struscia contro il suo sesso già duro e caldo di voglia, e i sospiri che le sfuggono dalle labbra sono selvatici e ribelli. Non ha conservato la minima grazia, tutto quello che vuole è il contatto, la forza, la velocità. Lacros torna a stringerle le mani attorno ai fianchi e guida i suoi movimenti, più svelta, mia piccolissima, ora un po’ più lenta, ruota i fianchi, amore mio, ma Manila si annoia presto, come sempre, e stringe le sue mani fra le proprie, portandole in alto, fermandole sopra la sua testa, inchiodandolo al materasso.
Lacros deglutisce e poi cattura le sue labbra in un bacio affamato, pensando distintamente che sì, va bene così, che se questa dev’essere la loro prima ed ultima volta vuole che Manila faccia di lui esattamente ciò che vuole, senza frenarsi, senza ascoltare nessun desiderio che non sia il proprio. Non prova neanche a divincolarsi mentre lei gli stringe i polsi con una sola mano, a fatica, e lascia scivolare l’altra fra le proprie gambe. Sente le sue dita sottili chiudersi attorno alla sua erezione, le sente accarezzarla lentamente e poi le sente condurla con attenzione verso la sua apertura bagnata. È così calda e così stretta, Lacros chiude gli occhi e si morde l’interno di una guancia per trattenere il gemito improvviso che gli sboccia nel petto e lo scuote tutto.
Manila è bellissima, bellissima come una forza della natura, e altrettanto inarrestabile – e altrettanto devastante. Si muove su di lui come un’onda, sollevandosi ed abbassandosi e poi abbattendosi furiosa contro le sue sponde, sommergendolo interamente. Quasi lo annega, ma è proprio quando Lacros si sente quasi mancare l’aria che lei si ritira, come la marea, concedendogli secondi preziosi per respirare prima di abbattersi su di lui una seconda volta, travolgendolo senza pietà.
Quando il maremoto finisce, e il temporale si ritira, e Manila, stremata e soddisfatta, si lascia ricadere leggera come una foglia contro il suo petto, Lacros si sente come se non gli fosse rimasto niente dentro. È stato tutto spazzato via. Tutti i suoi dubbi, tutte le sue paure, perfino quella smania di possesso così incontrollata, così insalubre, è tutto sparito, non è rimasto niente a parte l’immensa calma che sempre segue le tempeste, e il soffice suono dei loro respiri mentre cercano di ritornare padroni del battito dei loro cuori.
Le sue braccia si stringono senza imbarazzi attorno alle spalle sottili di sue sorella, e lei risponde premendosi contro di lui come se potesse respirare soltanto col naso attaccato alla sua pelle. Non parlano per un tempo indefinito e indefinibile. Ore, forse, oppure solo pochi minuti. Non importa, perché stanno condividendo un’eternità. L’eternità che si sono lasciati alle spalle, e quella che si preparano ad affrontare, che li aspetta poche ore di fronte a loro.
Sono quasi le quattro del mattino. Fuori dalla finestra, la notte è ancora scura. Solo i capelli di Manila sembrano brillare alla luce della luna.
- Voglio restare con te, stanotte. – dice lei in un sussurro appena udibile, - Ti prego, non mandarmi via.
La verità è che non potrebbe nemmeno se volesse. Ma soprattutto non vuole.
*
C’è qualcosa di strano, in lei, ma Lacros non saprebbe definire cosa. Forse si aspettava di vederla più triste, meno radiosa. Si aspettava di non trovare un sorriso sulle sue labbra di pesca, e invece Manila sorride, rimirandosi senza pudore davanti allo specchio.
- Naturalmente, fra tutti gli abiti possibili, dovevi scegliere il più sconveniente. – commenta Lacros, accarezzando con uno sguardo forzatamente severo la figura snella di sua sorella fasciata in un abitino bianco troppo corto, che le lascia scoperte le gambe, le spalle e gran parte della schiena. Anche le scarpe non sono appropriate, basse e grezze come sono. Avrebbe preferito vederla indossare un abito lungo, da principessa, e scarpe alte dalla scollatura aggraziata, che la sollevassero di qualche centimetro dal pavimento, redendola per qualche ora quella creatura intoccabile che Lacros ha sempre voluto pensare che fosse, per tenersene a distanza.
Ma Manila non è intoccabile, Manila è fatta di carne e sangue, e lui non può amarla senza accettarlo, e dal momento che l’ama, e che non intende smettere, accettarlo è esattamente ciò che dovrà fare. E quindi si scioglie in un sorriso, e ben venga il vestito troppo corto, e le scarpe troppo basse, e quelle ciocche rosa così ribelli che le piovono disordinate lungo le spalle.
- Non è sconveniente, - ribatte manila, ravviandosi i capelli dietro le orecchie prima di allungare la mano verso il velo e la coroncina appoggiati su una sedia poco distante, - E poi è comodo. Ci si può correre, viaggiare…
- Peccato che non dovrai fare niente di tutto questo. – risponde lui, scrollando le spalle, - Le uniche distanze che devi percorrere sono il corridoio appena fuori da questa porta e poi il tragitto dal tempio alla sala del trono. Avresti potuto farlo anche su tacchi lievemente più alti.
- Già, avrei potuto. – ride Manila. Si volta appena, rimirando il risultato finale dopo essersi sistemata il velo sulla testa. Qualcosa, riflettendosi sullo specchio, emana un bagliore sospetto che Lacros è abbastanza sicuro di dover riconoscere come qualcosa di pericoloso. Non riesce ad associarlo a niente, però, e presto quel pensiero resta soltanto una preoccupazione di fondo, che non vede nemmeno.
Fuori da quella stanza, il tempio la attende, gremito di gente, e assieme a lui l’altare, il sacerdote, il matrimonio. E subito dopo, il trono. Sono solo poche ore, pensa Lacros, poche ore e poi sarà perduta per sempre, e qualsiasi dolore lui abbia sofferto, abbiano sofferto entrambi, sembrerà insignificante, irrilevante, perché ogni cosa sarà al proprio posto, ogni dente sarà scivolato nella propria fessura nel meccanismo perfetto delle leggi del loro popolo, e solo il futuro si aprirà di fronte a loro, ricco di opportunità e contraddizioni, pronto per essere scoperto.
Manila si volta, gli sorride affascinante. C’è una luce furba ad animarle lo sguardo, e Lacros aggrotta le sopracciglia, sospettoso.
- Mi stai nascondendo qualcosa. – dice.
Manila ridacchia, divertita.
- La cosa stupenda è che non ti sto nascondendo proprio niente. – dice.
Il cipiglio di Lacros si fa più serio e severo. C’è qualcosa che gli sfugge, qualcosa che Manila non fa niente per celare, qualcosa che dovrebbe sicuramente notare, se non fosse così abbagliato dal suo sorriso.
Poi ripensa al bagliore nello specchio, e finalmente lo nota. Il dettaglio diverso.
Manila porta una sottile corda dorata attorno al collo. All’estremità inferiore, dolcemente appoggiata nel solco fra i suoi seni, c’è la sua minuscola sfera di cristallo, quella che era caduta frantumandosi in mille pezzi alla notizia della morte della loro madre.
- Non… non è possibile… - balbetta Lacros, spalancando gli occhi, - Era distrutta— Manila! Il tuo ciondolo! Si era distrutto!
- Già. – ride lei, stringendolo delicatamente fra le dita, - Ne ho raccolto ogni scheggia. Ogni singola scheggia, Lacros. L’ho ricomposta pezzo dopo pezzo e l’ho stretta forte in pugno, e Lacros, quando ho riaperto la mano, la sfera era intatta.
- Non è possibile! – insiste lui, scuotendo il capo, - Una cosa simile non era mai accaduta!
- Lo so. – risponde lei, il sorriso che si allarga, - Sembra che oggi accadranno un mucchio di cose che non erano ancora mai accadute prima.
Lacros la fissa, oltraggiato e perplesso, e poi i suoi occhi si spalancano, carichi di orrore.
- Non oseresti. – dice.
Manila ride sfacciata, rigirandosi il ciondolo fra le dita.
- I miei viaggi non si sono ancora conclusi, fratello, - dice raggiante, - Il vento soffia forte dietro di me. E— quante volte ancora dovrò dirtelo? – conclude con un sorriso, - Io non mi voglio sposare.
Scompare in un istante, in un lampo di luce dorata che non si lascia dietro alcuna traccia, a parte quella della sua assenza e una sensazione vaga sulle labbra di Lacros, come se qualcuno vi avesse premuto contro un bacio di cui lui non ha fatto in tempo ad accorgersi.
- Per tutti gli dei… - geme Lacros, passandosi una mano sul volto. Come farà a spiegare quello che è successo agli invitati? Al consorte! Come può pretendere di mantenere la carica di Sommo Priore se non è in grado di far rispettare le leggi nemmeno a sua sorella?
Sospirando pesantemente, si prepara ad abbandonare la stanza e attraversare il corridoio del tempio in mezzo a un mare di occhiate preoccupate e perplesse. Non c’è niente da fare, non si può arginare il vento. Si può solo cercare di ripulire la città dalle macerie una volta che il ciclone è passato.
Aprendo la porta, non riesce a trattenere un sorriso. Ripulire dopo il suo turbolento passaggio. È l’unica parte di Manila che può chiamare davvero propria.
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