Fandom: Originali
Genere: Introspettivo
Rating: PG
- Approssimativo tentativo di spiegare la smania di scrivere.
AVVISI: Nessuno.
Commento dell'autrice: Commozione *_* Erano secoli che non mi capitava di scrivere con tanta foga, con tanta ispirazione, con tanta voglia XDDD Ho imbrattato fogli interi di richiami, asterischi, parentesi, ho scritto non solo in verticale, ma anche in orizzontale ed obliquo XD E’ stato fantastico ;_; Comunque i perché ed i percome della nascita di questa storia sono abbondantemente espressi al suo interno XD Se vi interessa, leggete ù_ù
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Smania


Certe volte ho la netta impressione di non sapere usare le parole.
Mi capita spessissimo, infatti, che ciò che dico venga travisato, o che la gente non capisca quello che voglio esprimere, il concetto di fondo del mio discorrere. Mi capita tanto spesso, e con così tante persone, che è logico pensare che il problema non siano affatto gli altri, ma appunto il modo in cui dico le cose, o le stesse cose che dico. Però che sia la seconda ipotesi è improbabile, perché se il problema fosse rappresentato da ciò che dico sarebbe solo perché chi mi ascolta non avrebbe mai sentito cose simili fino a quel momento (ed ecco perché non sarebbe in grado di interpretarle), in che farebbe di me una delle persone più originali sulla faccia della terra, cosa che, purtroppo, tendo a non essere.
Dunque, la difficoltà sta nel modo, evidentemente strano o campato in aria, con cui esprimo concetti tutto sommato banali.
Anche adesso che sto qui a scrivere, vedete?, non faccio altro che pensare: ciò che sto mettendo su questo foglio, oltre alle parole, le mie idee, il modo in cui sento l’argomento, passerà? Verrà notato? Compreso? Susciterà una qualche reazione, di qualunque tipo?
È un pensiero che mi angoscia davvero.
Da sempre, non ho mai pensato di poter scrivere solo per me stessa. Credo sia una cosa inutile. Si scrive, o si parla, per gli altri, no? Per dire loro qualcosa, per il confronto, per convincerli di una determinata cosa piuttosto che di un’altra, o magari semplicemente per sentire cosa ne pensano riguardo un dato tema, o un fatto. Oppure semplicemente per informare di qualcosa, raccontare fatti veri o immaginari ed osservare come chi legge si rapporta alla narrazione.
Se è tutto frutto dell’immaginazione, si scrive e si racconta per verificare se, in primo luogo, ciò che si ha da dire ha un effettivo valore oltre quello prettamente pratico del raccontare. A tutti fa piacere sentirsi dire “ciò che scrivi, le cose di cui parli, colpiscono al cuore, mi commuovono, mi fanno riflettere, mi rendono pieno di speranza”, o anche solo “hai creato una storia e dei personaggi talmente vividi che, come si dice, bucano le pagine e ne escono fuori”.
In secondo luogo per verificare quanto tu e chi legge o ascolta possiate essere vicini, ideologicamente (ma molti preferiscono dire “spiritualmente”) parlando. E’ più facile scovare punti di contatto e concetti comuni, è più facile anche spiegarsi, quando si parla per esempi, per racconti, per assurdo. È per questo che esistono le parabole e che Esopo e Fedro hanno scritto le loro favole con protagonisti animali personificati utilizzati per raggiungere dei concetti generici che fossero accettati dalla più alta percentuale possibile di persone.
C’è anche un terzo motivo per cui si sceglie di raccontare storie inventate: misurare a che punto di distanza ti trovi dalla realtà. Ovvio che se parti a descrivere il luogo in cui vivi, oppure ti lanci in accorati comizi politici, o semplicemente racconti situazioni verosimili, il punto di contatto con la realtà in quel determinato momento sarà vicinissimo, ad un passo da te. Contrariamente, se i protagonisti delle tue storie sono diafani guerrieri elfici o aggraziate principesse di terre lontane (o aggraziati elfi e diafane principesse guerriere, dipende sempre dalla personalità che ti ritrovi, o meglio, dalla personalità che hai deciso di costruirti addosso per attirare l’attenzione del pubblico, perché limitarsi?) sarà la voglia di fuga dal reale a farla da padrona.
Quando scrivi di fatti veri, invece, il più delle volte vuoi solamente informare gli altri di ciò che è accaduto. Oppure, racconti frammenti di vita appositamente per sentirti dire quanto tutti ti siano vicini e ti comprendano, e parli delle tue reazioni ai casi della vita per sentire “oh, sì, io avrei fatto proprio come te!”, oppure, “se posso dire, io avrei fatto/farei così…”.
Vedete? Tanti motivi per scrivere e parlare, e dipendono tutti dagli altri. Perciò ho sempre riso di fronte a chi dice cose come “scrivo solo per me stesso!”. Il più delle volte si tratta di un’infantile ed offesa reazione a critiche negative o troppo pungenti. È più facile ignorare chi ci fa notare l’incoerenza di un determinato passaggio, o il mancato approfondimento di un altro, quando si finge che non ci importi niente di qualsiasi cosa possano dire gli altri riguardo ciò che produciamo. Perché è nostro, come un arto, e fa male sentirlo “offeso”. Vorremmo sempre sentire complimenti. Non è un caso se quando si ricevono correzioni si dice che non importa, perché continueremo comunque a seguire il nostro stile/la nostra ispirazione, mentre quando ad arrivare sono gli elogi diventa “importantissimo avere il vostro sostegno!”. Ed alla fine dei giochi, è sempre per gli altri.
E poi eccomi qui. Qualsiasi cosa io voglia dire, qualunque effetto voglia dare alle parole, si rivela un fallimento completo. C’è un esempio che chiarisce bene la mia situazione. L’altra volta, in classe, la professoressa d’inglese ci ha dato dei cartoncini sopra i quali erano scritte delle battute tratte da film famosi. Noi dovevamo recitarle, uno per volta.
Siccome in classe sono quella che in pronuncia se la cava meglio, la professoressa diede a me un monologo intero, dal film “Save the last dance”, scommetto che lo conoscete. Il pezzo in cui Sara si confida con Derek e gli dice perché non vuole più ballare. Io ascoltai con attenzione i miei compagni, tutti presi dalla ripetizione modello pappagallo delle loro battute. Erano senza personalità. Doveva essere una recitazione, o no?
Io pensavo a come sarebbe stato meglio interpretare la mia parte. Era il momento in cui Sara si sfogava riguardo la morte di sua madre e di come fosse pentita per averla detestata, dunque ritenni opportuno dare alle parole un suono affannato, strascicato, affaticato, addolorato.
Quando fu il mio turno, recitai come avevo pianificato. Credetti di aver fatto un buon lavoro, ero stata proprio come avevo voluto. Tutti in classe si fecero silenziosi. In attesa, io ero imbarazzata da morire. La professoressa mi guardò e mi disse “Ottima dizione, ma hai detto le parole troppo in fretta, non sei stata abbastanza appassionata, la recitazione non era sentita”. Fui l’unica che corresse, quella volta. Mi venne da piangere, perché realizzai chiaramente, per la prima volta, che c’era qualcosa di sbagliato nel mio modo di comunicare, se ciò che volevo esprimere non veniva fuori.
Mi è successo anche più recentemente. Ho scritto un breve racconto, pensato per essere sensuale. Speravo di far leva sulla sensualità che non esiste nella persona in sé, ma negli occhi innamorati che la guardano, e speravo di trasmettere la voglia irrefrenabile che questa sensualità scatena in chi la vede. Anche stavolta, mi sembrava di aver fatto un buon lavoro. Mi piaceva, com’era venuto il racconto. Chi ha letto, però, ci ha visto solo dolcezza. Qualcun altro disperazione per il desiderio insoddisfatto. O addirittura freddezza.
Quando ho letto i commenti, mi sono sentita persa. Annullata, distrutta, svuotata di ogni ambizione; peggio, sconfitta. Mi sono detta, cazzo, che senso ha? Perché continuare a dire qualcosa, con le mani o con la bocca, se continuo a farmi fraintendere? Che utilità potrà mai avere un racconto che suscita emozioni completamente diverse da quelle che l’autore voleva dare? Può essere grammaticalmente corretto, stilisticamente godibile, perfino bello da leggere, ma per me, per me che l’ho scritto, sarà solo un fallimento, niente di più e, disgraziatamente, anche niente di meno. Non può essere un semplice intoppo, un piccolo incidente di percorso, quando cerchi qualcosa e trovi il contrario. Dev’esserci qualcosa di sbagliato alla base. Dev’esserci, quando parli e non comunichi niente tranne un po’ di fretta e d’ansia.
Seguendo questa linea di pensiero, però, non si spiegano alcune piccola cose. Non si spiega la soddisfazione nell’aver recitato esattamente come volevo, né quella che provo rileggendo quel racconto e ritrovando la sensazione che provavo subito dopo averlo scritto e prima di averlo pubblicato. In entrambi i casi è stato un fallimento. Eppure… proprio io, che ho sempre pensato che se non funziona con gli altri allora non vale niente, non mi sento affatto come se avessi fallito.
Parlare mi sembra ancora così importante, così come scrivere, e non mi sento demotivata. E se penso a quando, all’università, mi toccherà studiare un linguaggio specifico e ristretto da usare per lavoro, se penso che non potrò più modellare le parole come voglio perché a quel punto non essere capita sarà un vero problema, mi sento male.
Ed allora ho realizzato una cosa, una cosa che mi ha sconvolta davvero, perché ha sovvertito quello che per anni è stato il mio unico metro di giudizio.
Ho pensato che forse il punto non è cosa si dice, o come lo si fa. Forse il punto non è suscitare emozioni, né che tu venga capita, e neanche che ti ascoltino. Credo di avere imparato qualcosa, su me stessa, almeno. Ossia che non mi importa di perdere tempo, fino a quando non dovrò parlare forzatamente in un determinato modo per evitare guai, l’unica cosa che conta è parlare, dare uno sbocco alle parole, a questa massa di cui non importa la forma, né la quantità, né il contenuto in valori o idee, ma che preme per uscire, preme disperatamente, alla base della gola, sui polpastrelli, dalle profondità del corpo. Come un grande, gigantesco lago frenato da una diga, che aspetta solo di essere liberato e scendere a valle, per poi aspettare la pioggia e riempirsi di nuovo, e poi ancora, e ancora, fino a quando avrò fiato, fino a quando avrò forza, fino a quando non l’avrò esaurita tutta e sarò completamente scarica, e potrò riposare soddisfatta, anche se alla fine mi sembrerà sempre di aver saltato un passaggio, e questo mi darà lo stimolo per ricominciare daccapo ancora per sempre.
Adesso finalmente so cosa vuol dire scrivere per sé stessi, e so che può anche non essere tanto folle. Farlo in maniera assolutamente esclusiva, fermandosi in quello stato ad oltranza, sì, è inutile e stupido, ma ci sono momenti in cui puoi scegliere di non voler dire nulla agli altri, e comporre per il puro piacere di vedere le parole affiancarsi, fregandotene di ciò che la massa potrà pensare e concentrandoti solo sulle emozioni che provi tu nell’immediato atto della creazione. E questa smania irrefrenabile, il prurito alle mani, l’immotivata voglia di scrivere anche quando non sai di che cosa… puoi usarla per scrivere o parlare di qualcosa di inutile, che nessuno comprenderà, che non comprendi neanche tu, perché magari un senso neanche ce l’ha, e soddisfare te stessa in questo modo, bè, da un sacco di forza. Che guarda caso è esattamente la forza di cui ho bisogno. E probabilmente è vero che un racconto capito è una vittoria ed uno incompreso è una sconfitta, ed allora io continuerò così, ad alternare vittorie e sconfitte, e soltanto perché mi piace da morire.
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