Fandom: Originali
Fanfiction a cui è ispirata: My Father's Eyes di Nai.
Genere: Commedia, Introspettivo.
Pairing: GabrielxErik, GabrielxCJ, GabrielxLuke. E' un promemoria delle sue storie d'amore! XD
Rating: PG-13.
AVVISI: Boy's Love, Language, OC, Slash, Spin-Off.
- Mike ripercorre a grandi linee la storia del proprio rapporto con il fratello - e, soprattutto, con le sue innumerevoli e disastrose storie d'amore. Riuscirà il nostro eroico bassita a superare lo scazzo e l'irritazione per aiutare il fratello - per l'ennesima volta? E riuscirà Gabriel a scappare alle botte che merita? Ma soprattutto, cosa c'entra un enorme orso rosa dalla dubbia identità sessuale?
Commento dell'autrice: <3 Io amo questa storia. So che è stupido amarsi da soli, ma il problema è che per questi due personaggi ho un debole XD E voglio scrivere di loro praticamente da quando Nai ha iniziato My Father’s Eyes. Sono contenta di avercela fatta *_* E di aver creato Marilyn, ovviamente <3 Mi dispiace solo di non aver potuto spiegare in questa storia perché si chiama così XD Magari ci penserà Nai in un futuro spin-off <3
Il titolo della storia viene dall’omonima canzone dei Kara’s Flowers (meglio noti come Maroon 5).
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SIMPLE KIND OF LOVELY

Da quando comincio a ricordare, le relazioni sentimentali di mio fratello mi hanno sempre causato guai.
La prima volta fu, se non sbaglio, un enorme orsacchiotto rosa di peluche che intravedemmo nella vetrina di un negozio di giocattoli una volta che eravamo a passeggio con Bernadette, la nostra tata francese. Probabilmente, fin da allora, avrei dovuto cominciare a immaginare i gusti di mio fratello non coincidessero con la normalità del resto del genere umano – insomma: quell’orsacchiotto era rosa! – ma non ci diedi peso, perché Gab era molto carino e quando vedeva qualcosa che gli piaceva lo diventava ancora di più.
Insomma, ero un moccioso, non si può pretendere che ragionassi davvero.
Gab aveva cinque anni, il che vuol dire che era appena entrato nel mondo degli esseri pensanti – più o meno – ed io ne avevo sette, il che vuol dire che ero appena entrato nel mondo degli esseri presuntuosi – più o meno – e stavamo appunto passeggiando tranquilli per una strada del quartiere commerciale, sempre luminosissimo a Natale, quando, passando davanti ad una vetrina di Harrod’s, la nostra attenzione venne attirata da un gigantesco Babbo Robot scampanellante. Sollevammo gli occhi ed i nostri sguardi caddero simultaneamente su quell’enorme orsacchiotto rosa.
Gabriel prese ad agitarsi, strattonando me e Bernadette verso la vetrina, finché non fu abbastanza vicino da poter spiaccicare il naso contro il vetro e spiare l’orsetto all’interno. Il suo sguardo rifletteva amore puro.
- Betty, Betty! – cinguettò felice, saltellando come il pulcino che era, - Me lo compri?
Bernadette era una brava ragazza, s’inteneriva facilmente ed adorava Gabriel: ciononostante, non aveva l’autorità di comprarci alcunché – anche perché i nostri genitori avevano le idee molto chiare, al riguardo: non potevamo avere giocattoli che non fossero educativi. Un orsetto rosa poteva forse entrare nelle grazie di mamma, ma di sicuro non sarebbe mai entrato in quelle di papà – e perciò si limitò a prendere in braccio mio fratello, guardarlo tristemente e dirgli che forse ne avrebbe parlato con maman e magari avrebbe trovato una sorpresa sotto l’albero.
I bambini non sono stupidi. Magari non sanno spiegarti cos’è un’ipotetica, ma sanno sempre riconoscerne una, quando la vedono. E sanno anche che, quando in una frase sola ce ne sono troppe, le possibilità di veder esaudito un desiderio si abbassano drasticamente.
Perciò, mio fratello inarcò le belle sopracciglia sottili ed arricciò le labbra in una smorfia disperata, lasciandole poi tremolare liberamente come desideravano, in segno inequivocabile della sua profonda tristezza.
Bernadette non poteva farci niente.
Io nemmeno. Ma non riuscivo neanche a tollerarlo.
Sinceramente, non so perché. Era la prima volta che mi capitava di sentirmi così arrabbiato.
- Perché non la chiami subito, nostra madre? – chiesi, fissando sospettoso la nostra povera tata innocente.
Lei si morse un labbro. Ovviamente, non poteva controbattere. Motivazioni non ce n’erano.
- Adesso basta fare i capricci! – sbottò, riprendendoci entrambi per mano, - Torniamo a casa.
Se io fossi stato furbo – e quindi, di conseguenza, menefreghista, egocentrico e stronzo – la faccenda si sarebbe chiusa lì. Purtroppo, per quanto decisamente l’egocentrismo e la stronzaggine siano da sempre stati due dei miei cavalli di battaglia, quando entra in conto Gabriel non riesco proprio a fare a meno di interessarmi. È così. Credo non ci sia neanche un motivo. Semplicemente non posso impedirmelo.
M’intrufolai nella sua cameretta ben consapevole dello spettacolo che mi si sarebbe parato davanti agli occhi. Ed infatti, come da previsione, Gab stava tutto arricciato in venti centimetri di quell’enormità di letto a baldacchino che aveva e piagnucolava come se lo stessero torturando.
Sospirai rassegnato e, da bravo fratello maggiore, mi lasciai ricadere sui restanti tre metri di spazio, allungandomi il più possibile per godere di quell’infinità di materasso – nonostante ai tempi anche io fossi poco più di uno scricciolo.
- Gaby. – lo chiamai. Allora lasciava ancora che lo chiamassi così. Ha cominciato a proibirmelo con l’arrivo dell’adolescenza, con la motivazione che rendeva la proiezione mentale che aveva di se stesso molto meno sexy di quanto non potesse sopportare. Vallo a capire. – Lo vuoi proprio, quell’orsacchiotto?
Lui sollevò quegli enormi occhi verdissimi e inondati di pianto e mi guardò per un attimo come fossi stato un angelo salvatore, prima di arrotolarmisi addosso e rovinare, tra lacrime e strattoni vari, una delle mie magliette preferite di sempre. Non è facile trovare una maglietta con stampata sopra una bomba a mano e che ti stia bene, quando hai sette anni.
Comunque, continuò a singhiozzare disperato per un’infinità di tempo, ed io continuai a stare lì a stringerlo e accarezzargli i capelli, con aria piuttosto annoiata, devo dire, e solo quando ebbe cominciato a calmarsi lo pizzicai lievemente su un fianco e gli chiesi di rispondere alla domanda che gli avevo fatto.
- Mike, ma è bellissimo! – mi disse, come fosse una motivazione sufficiente per desiderare un orsacchiotto rosa, - Spero tanto che Betty lo chiede alla mamma, così lei lo dice a Babbo Natale ed io lo trovo sotto l’albero!
Roteai gli occhi. Per il mio fratellino, alcune delle più importanti verità della vita erano ancora un misterioso segreto, e Babbo Natale rientrava fra queste.
Cercai di riportarlo alla razionalità senza per questo infrangere i suoi sogni.
- Betty non parlerà con mamma. – borbottai, - E pure se lo fa, mamma non ti… non dirà mai a Babbo Natale di comprarti quel peluche. È un peluche da femmina! Mamma e papà non saranno mai d’accordo.
Mio fratello cominciò a lagnarsi perfino con maggiore intensità.
- Perché dici che è da femmina?! – mi rimproverò, - A me piace! Io non sono femmina!
In effetti, durante l’ultimo bagnetto di gruppo che avevamo condiviso – circa tre o quattro anni prima – mi era sembrato fosse tutto a posto. Ed era abbastanza improbabile che ciò che faceva di lui un maschio fosse caduto e si fosse perso, nel frattempo, perciò dovevo rassegnarmi all’idea che fosse effettivamente possibile per un essere di sesso maschile gradire un orso di peluche rosa, e scrollai le spalle.
- Se ti piace tanto, te lo prendo io.
Sì. Lo confesso: già allora avevo una propensione per la cavalleria, evidentemente.
Insomma, che potevo farci? Ero piccolo e innocente e il mio fratellino stava piangendo come se volesse esaurire tutte le lacrime, e quei suoi grandi occhioni sembravano puntati contro di me come un’accusa!
- Davvero…? – esalò Gab, stringendo la presa delle dita paffute attorno alle maniche della mia maglia.
Io annuii con un sospiro e lui lanciò un gridolino di pura gioia.
Dopodichè, gli dissi di andare a dormire e non pensarci più, perché avrei risolto tutto io.
A tutt’oggi, credo sia la frase che gli ho ripetuto più volte in assoluto.
Comunque sia, quella notte, quando tutti si addormentarono, uscii di casa, vagai per il quartiere ripercorrendo con la memoria la strada fatta quella mattina, arrivai da Harrod’s e, senza pensare all’esistenza degli allarmi né tantomeno dei custodi, presi a calci la vetrina fino a spaccarla e m’infiltrai all’interno del negozio.
Quando arrivò la polizia, non ero ancora riuscito a toccare l’orsacchiotto.
Devo dire che affrontai il guaio con invidiabile presenza di spirito, nonostante la mia giovane età. Fronteggiai austero il vecchio custode, mi ersi in tutti i miei centodieci centimetri d’altezza di fronte ai poliziotti e scoppiai a piangere solo nel momento in cui loro, fiutando la mia determinazione a non cedere, mi dissero che, siccome avevo provato a rubare, avrebbero dovuto portarmi in prigione. Fu un pianto molto contegnoso, ma dovette risultare comunque molto ridicolo – soprattutto perché, mentre piangevo, cercavo anche di spiegare perché fossi lì.
La storia dei genitori severi e del fratellino piagnucolante che amava quell’orsacchiotto più della propria vita colpì parecchio tutti quanti. Credo che pensarono automaticamente Gaby fosse anche molto malato. Era una storia molto natalizia, in effetti.
Insomma, in definitiva: non finii in galera, tornai a casa scortato dalla polizia che, per farmi contento, mise anche le sirene a tutto spiano, e il custode mi regalò l’orso.
Una vittoria su tutti i fronti!
Quando arrivai a casa, il rumore aveva svegliato i miei, Gaby ed anche tutta la servitù. All’apertura della porta, li trovai tutti raccolti all’ingresso come fossero stati la famiglia reale francese e si stessero preparando ad affrontare coraggiosamente una folla di popolani affamati e inferociti, e invece ero solo io – e cinque volanti della polizia.
Feci il mio trionfale ingresso in casa col peluche stretto tra le braccia. Era più grande di me. Un agente lo reggeva per la coda, dietro, perché non strisciasse.
Gaby moriva di sonno, ma appena mi vide i suoi occhi s’illuminarono d’improvviso e lui scoppiò a ridere, correndomi incontro ed abbracciando prima me, poi l’orsacchiotto ed infine entrambi – per quanto le sue piccole braccia gli permettessero.
- Grazie per avermi portato Marilyn. – mi disse, dopo avermi dato un bacio sulla guancia, per poi darmi la buonanotte e cominciare a trascinare l’orsacchiotto verso le scale, mentre una cameriera gli correva dietro per aiutarlo.
Ricordo che l’unica cosa che pensai io fu “Marilyn?!”, prima di crollare addormentato fra le braccia di Bernadette.
*
Io ho una grande considerazione dell’intelligenza di mio fratello.
Meglio: io so che mio fratello è intelligente. So che non è uno stupido deficiente con manie autodistruttive che s’invaghisce di roba odiosa solo perché gli piace soffrire o, alternativamente, farsi salvare da uno come me che proprio non può esimersi dal ficcare il naso quando si ritiene interessato.
Il problema di mio fratello è che non riesce a fare a meno di innamorarsi perdutamente. Lui non s’invaghisce, no, non si prende nemmeno cotte. Certo, anche lui ha avuto le sue brave avventure dal quarto d’ora in giù, ma quando entra in conto l’affetto è diverso. Niente diversivi, niente giochi, solo relazioni serie. Purtroppo, anche dannatamente romantiche.
Ecco, è questo il problema di mio fratello: questa sua assurda e, sinceramente, masochistica propensione per il romanticismo.
Erik Hosten fu solo il primo di una breve ma drammatica serie di casi.
Per la verità, quando Erik irruppe nella vita di mio fratello, sbriciolando per la prima volta il suo cuore, ci eravamo già tutti tranquillamente rassegnati ad una vita – la sua – di relazioni infelici e per giunta omosessuali. Mio padre, per un certo periodo, aveva provato a convincerlo dell’opportunità di provare la via dell’innamoramento universalmente approvato, e mio fratello aveva anche cercato di dargli retta – se non altro perché deludere le persone che ama è esattamente l’ultima voce del lungo elenco di cose che Gabriel ha intenzione di fare nella propria vita – ma insomma, quando avevamo visto che, in seguito a tutte le arringhe di papà, l’unico risultato ottenuto era stato che Gaby s’innamorasse della più mascolina fra le femmine della sua classe alle elementari, avevamo tutti deposto le armi. Mio padre c’era rimasto un po’ male, ma probabilmente solo perché la sua è una mente molto semplice, si muove per meccanismi logici immediati e non intersecati fra loro. È per questo che è un avvocato di grande successo. È talmente lineare nei ragionamenti che non si può fare a meno di dargli ragione.
Poverino: semplicemente si aspettava che, dopo aver illustrato al suo adorato figliolo tutti i pro della vita eterosessuale e tutti i contro di quella omosessuale, lui scegliesse opportunamente, tornando al mondo giusto. Constatare che Gabriel avesse dei meccanismi mentali un po’ più complessi dei suoi, ed arrendersi al fatto che quei meccanismi mentali lo stavano portando lontano da lui, lo feriva parecchio.
Gabriel è sempre stato il suo figlio preferito, ma non ho mai fatto una colpa di questo a nessuno. Un po’ perché ero a conoscenza dei meccanismi mentali lineari di cui sopra, e quindi ritenevo ovvio che mio padre s’invaghisse così spudoratamente del figlio che gli assomigliava di più – che, guardacaso, non ero io. Ed un po’ anche perché essere il figlio reietto ha anche un sacco di lati positivi. Per dire, i tuoi si aspetteranno sempre da te che tu vada a chiedere loro botte di trecento, trecentocinquanta sterline a volta, perciò saranno sempre molto contenti, e non faranno troppe storie, quando invece la tua richiesta si fermerà alle cinquanta settimanali d’ordinanza. Oppure ancora non faranno altro che prepararsi al momento in cui comincerai a tornare a casa alle cinque del mattino, completamente inebriato d’alcool, perciò non imposteranno teatrini drammatici di alcun tipo quando comincerai realmente a farlo.
E così via.
Comunque, Erik.
Erik è stato il primo ed unico dramma della vita di mio fratello a proposito del quale, per un lungo periodo di tempo, sono stato convinto di non poter fare niente.
Tanto per cominciare perché non frequentava la nostra stessa scuola, quindi io non lo conoscevo. Non ce l’avevo continuamente sotto gli occhi, non sapevo come si comportava con mio fratello e, per dire la verità, per un sacco di tempo non ho avuto neanche la più pallida idea di che forma avesse la sua faccia. Avrebbe potuto tranquillamente essere un alieno celeste con le antenne a forma di stella e non l’avrei saputo finché Gabriel non avesse ritenuto fosse arrivato il momento giusto per presentarmelo.
Cosa che, per inciso, dimenticò di fare.
Insomma: io odio non avere una perfetta e precisissima idea di ciò che sta passando Gabriel. Non perché mi piaccia comandarlo a bacchetta – ci provo ma non ci riesco mai, il che vuol dire che non ho mai provato il brivido del successo e, di conseguenza, non saprei proprio dire se comandarlo mi piacerebbe o meno – ma perché lo conosco abbastanza da sapere che quando comincia a fare il misterioso e nascondere i particolari della propria intimità – lui che, di solito, la propria intimità la sbandiera a destra e a manca, a cominciare dai bordi delle mutande Calvin Klein che sbucano dai pantaloni – vuol dire che sta per cacciarsi in un enorme e pericolosissimo guaio.
Ed Erik lo era. Un enorme e pericolosissimo guaio.
Non ci fu proprio un momento in cui venni a conoscenza dell’esistenza di Erik. Diciamo che più che altro la intuii, ecco. Non puoi fare a meno di intuire il fatto tuo fratello si veda con qualcuno, quando comincia ad uscire ogni volta che riesce ad ottenere il permesso e, soprattutto, torna a casa con certi succhiotti che, se non ne conoscessi perfettamente la natura, prenderesti come minimo per lividi pure piuttosto inquietanti.
Gabriel non stava passando un periodo proprio brillantissimo. Aveva lasciato crescere i capelli molto oltre i livelli di guardia, ed aveva pure cominciato a pretendere di vestirsi da solo – senza, cioè, il consiglio e l’approvazione di mamma e papà – cosa che l’aveva portato ad indossare maglioni, magliette e pantaloni di dubbio gusto ma che, in compenso, lo facevano sentire molto felice e fiero di se stesso.
Insomma: faceva, come sempre, tutto ciò che voleva. Ne era soddisfatto, ma al contempo non poteva proprio ignorare le occhiate tristi che ogni tanto i nostri genitori gli lanciavano. Avevo passato anche io quella fase – per pochissimo, ma be’, era successo – solo che io avevo capito subito che se avessi mostrato anche solo un’incertezza loro ne avrebbero approfittato per cercare di farmi sentire in colpa e riportarmi sul sentiero che avrebbero preferito, perciò avevo deciso di agire di conseguenza, fregandomene come meritavano. Anche Gabriel l’aveva capito, ma i nostri genitori erano sempre stati incredibilmente buoni, con lui, perciò si sentiva in colpa come un criminale a farli soffrire in quel modo.
D’altro canto, sia io che lui – che loro – sapevamo fosse solo questione di tempo. Si sarebbero abituati, e poi anche quelle stravaganze sarebbero diventate parte della nostra normalità, come Marilyn, come i Savage Garden, come la filmografia completa di Rupert Everett eccetera eccetera.
Alla fine, comunque, successe. E nessuno si stupì più di tanto quando Gabriel cominciò effettivamente a farsi una vita propria.
I problemi comparvero dopo tanti di quei mesi che io stavo già cominciando ad illudermi che probabilmente non sarebbero arrivati proprio mai.
Gabriel continuava a non parlare di niente con nessuno, si sentiva dannatamente in colpa e pure considerevolmente stupido, e io, quando l’avevo fra le mani, preferivo portarlo a divertirsi – sembrava ne avesse decisamente bisogno – piuttosto che forzarlo a rivangare cose delle quali magari non gli andava affatto di parlare. Perché, poi? Per la sola soddisfazione di riprendere la situazione in mano?
Non ne avevo bisogno. Avevo solo bisogno di sapere che lui stava bene.
Ovviamente, lui non stava bene affatto.
Divenne tutto piuttosto chiaro nel momento in cui, un bel giorno, irruppe in camera mia, trascinandosi dietro Marilyn – il che era già allarmante: lui venerava quell’orso. Ci teneva che si rovinasse il meno possibile. Lucidava perfino gli occhietti con l’olio rigenerante! Quando si metteva a trascinarlo a destra e a manca era solo perché non percepiva il mondo come un luogo abbastanza sicuro nel quale avventurarsi da solo.
Si gettò sul mio letto a faccia in giù, affondando nel cuscino, ed aspettò pazientemente che io sospirassi, spegnessi la pedaliera, sfilassi le cuffie, mollassi il basso in un angolo, mi stendessi al suo fianco, tirassi su Marilyn dal pavimento e gli chiedessi quale fosse il problema.
- Lo so che fino ad oggi non te ne ho mai parlato… - biascicò lui, nascondendosi dietro l’enorme peluche, - infatti se non ti va di ascoltarmi hai tutti i diritti di mandarmi a fanculo…
Gli diedi un pizzicotto sul naso.
- Parla e basta, non ho tutto il pomeriggio.
Venne fuori che qualche mese prima s’era messo con questo tipo e s’era innamorato perdutamente. Il problema degli animi romantici è che non sono proprio in grado di scindere la realtà dalla fantasia. Voglio dire: Erik Hosten sarebbe stato la gioia di qualsiasi casalinga quarantenne insoddisfatta. Era il prototipo dell’algido latifondista che negli Harmony è sempre costretto a sposare una ragazzetta di provincia che riesce a sciogliere le sue ritrosie, aprire il suo cuore e risvegliare i suoi sensi.
Erik era così. Era bello. Era ricco. Era un duro. Era glaciale. Sapeva perfettamente cosa voleva dalla vita, sapeva come prenderselo e sapeva di avere tutte le possibilità di successo del mondo.
Nella realtà, gli algidi latifondisti non si sciolgono mai. Oppure si sciolgono per qualcun altro.
È una verità di cui tutti devono prendere atto, prima o poi, con le dovute differenze a livello ideale.
In ogni caso, tra lui e mio fratello era successo esattamente questo: l’algido latifondista s’era messo con il ragazzetto di provincia. Il ragazzetto di provincia gli aveva dato tutto – ma proprio tutto tutto – e lui, giusto perché la vita tiene sempre a ricompensarti con un mucchio di merda anche quando dai l’anima, invece di apprezzare e ringraziare s’era fatto sciogliere il cuore da un altro.
Il che stava a significare che l’aveva tradito.
Io non avevo bisogno di sapere altro, per decidere cosa fare. Tutto ciò che aggiunse Gabriel, da quel momento in poi, non fece che rafforzare le mie convinzioni.
- Mi sono incazzato come una bestia, capisci?!
- Certo. Di che colore ha i capelli?
- Biondi. E insomma, sono andato fino a scuola da lui. Ero dannatamente triste, e depresso, e lui era dannatamente stronzo e si comportava come se non avesse proprio nulla di cui essere pentito, perciò, ecco, gli ho fatto una scenata, proprio lì davanti a tutti!
- Mh-hm. Gli occhi?
- Castani. Ovviamente, lui non poteva stare lì a farsi sputtanare di fronte a tutto l’istituto! Perciò ha preso e mi ha gonfiato di botte! Guardami, sono sfigurato!
- Dai, è appena un livido sullo zigomo. Chiama Bernadette e fattici mettere su una bella bistecca, così passa subito. Come ce l’ha la divisa?
- È quella del St. James, dai, la conoscono tutti. Quella col gilet blu. Ma insomma, il punto non è la bistecca o il livido, ti rendi conto?! Mi ha picchiato! Come se fossi io ad avere torto! Ma capisci il figlio di puttana?!
- Assolutamente. Il St. James, hai detto. Sì, lo conosco. Segni particolari?
Fu il primo momento di quella strampalata conversazione in cui mio fratello subodorò ci fosse qualcosa di strano nel modo in cui avevamo interagito fino ad allora. Sollevò gli occhioni ancora lucidi su di me ed inarcò le sopracciglia con aria dubbiosa.
- Mike, che ti frega di sapere dei suoi segni particolari?
Io feci una smorfia offesa.
- Visto che ti sei deciso a raccontarmi tutto solo adesso, è mio diritto chiederti tutto quello che voglio. Tu rispondi e basta.
Dal momento che si sentiva ancora in colpa per non avermi detto nulla fino ad allora, non protestò. Si limitò ad abbassare lo sguardo mugolando un “Be’, ha un neo molto francese proprio sotto il labbro che è abbastanza riconoscibile… ma a cosa ti serve saperlo?”.
Io sbuffai e scrollai le spalle.
- Tu non preoccuparti. – lo rassicurai, sfilandogli da sotto il corpo le lenzuola per poi rimboccargliele fino al collo, - Resta qui. Ora vado di sotto e ti mando Bernadette con una bistecca. Al resto ci penso io.
Il resto, ovviamente, fu rendere a quel porco ogni singola botta che aveva osato somministrare a mio fratello. Con, in più, gli insulti della casa.
Ci misi mezz’ora. I corsi pomeridiani al St. James non si erano ancora conclusi quando, soddisfatto, mi allontanai verso casa.
Quando tornai, Gabriel mi aspettava ansioso seduto sulle scale, ancora stretto a Marilyn. Mi vide e mi corse incontro, stringendo le labbra così tanto che divennero tanto sottili da non sembrare nemmeno più le sue.
- Mike! – mi richiamò, poggiando l’orso sul pavimento accanto a noi ed appendendosi alla mia camicia, - Che hai combinato?!
Sorrisi vittorioso.
- Ho risolto il problema.
Lui si ritrasse appena, riprendendo il peluche fra le braccia. Poi si slanciò verso di me, abbracciandomi. Il pelo di una zampa di Marilyn mi pungeva il collo, ma Gaby aveva un buon profumo.
Non fece neanche finta di arrabbiarsi.
*
Ricordo che, dopo la fine della sua storia con Erik, pensai che probabilmente mio fratello non avrebbe voluto avere a che fare con l’amore per un sacco di tempo. Aveva bisogno di riprendersi dalla botta – in senso letterale e figurato – riordinare i pensieri, fare luce fra i propri desideri e, soprattutto, aveva decisamente bisogno di farsi coccolare ed adorare per un po’ in tutta tranquillità.
Scoprii di essermi sbagliato nel momento esatto in cui gli presentai CJ ed intravidi nei suoi occhi il brillio soddisfatto di chi scopre di potersi fare adorare anche oltre le mura di casa.
CJ è una persona come ce ne sono poche, al mondo. Sono in pochi, cioè, a potersi vantare di essere tanto uguali all’idea che hanno di se stessi.
CJ pensa a se stesso come ad un irrinunciabile idealista. E lo è.
CJ pensa a se stesso come ad un figo. E lo è.
CJ pensa a se stesso anche come un gran figlio di puttana, però. E, dannazione, è pure questo.
Io lo apprezzo, eh, come essere umano. Non a caso è il mio migliore amico, nonché una delle poche persone in tutto il mondo che ritenga in grado di ragionare al mio stesso livello. Solo avrei preferito non si mettesse a ronzare proprio attorno a mio fratello. Con tutti i fratelli liberi che ci sono in giro, poi…
Comunque, non posso che fare mea culpa. Sono stato io a presentarglielo – e, peraltro, sono stato pure io a descriverglielo in termini esageratamente entusiastici, prima, durante e dopo il loro primo incontro – perciò non ho che da chinare il capo e prendermi, in parte, la responsabilità della seconda delusione sentimentale di mio fratello.
Fortunatamente, le “seconde volte” hanno un’indubbia qualità in più, rispetto alle prime: sai già cosa aspettarti, a grandi linee. Un po’ come i vantaggi dell’essere un figlio reietto, insomma.
Comunque. In quel periodo, CJ e suo fratello Nicky erano da poco riusciti ad adempiere al voto che avevano fatto nell’innocenza dei loro undici anni di fronte al primo disco dei Ramones sul quale avevano messo le mani: erano, cioè, scappati di casa, abbandonando una vita di agi e lussi di ogni tipo per andare a vivere in una comune punk.
Non starò qui a dissertare sull’enorme idiozia insita in questa scelta. Voglio dire, è ovvio che qualsiasi persona con un minimo di sale in zucca avrebbe continuato a giocare alla rivoluzione lasciandosi comunque proteggere dalle ricche mura domestiche e dai soldi e dall’influenza di papà, ma CJ, l’ho già detto, è un idealista: non avrebbe mai potuto tollerare il compromesso. Suo fratello Nicholas, d’altronde, non è il suo gemello a caso: quei due non sono uguali solo fisicamente, ma pure mentalmente, con l’unica differenza che uno è inesorabilmente gay e l’altro inesorabilmente etero. Visto il talento della mia genia nell’attirare omosessuali meglio del miele con gli orsi, vi sfido a indovinare chi dei due sia il mio preferito.
In ogni caso! Vista la loro indubbia somiglianza psicologica, erano riusciti a farsi forza a vicenda e raggiungere la loro tanto agognata libertà. Motivo per il quale erano stati ripudiati dalla famiglia in tandem e, conseguentemente, si ritrovavano poveri in canna con l’unico ausilio di un amico molto ricco e molto intelligente quale è il sottoscritto.
Perciò, quando non stavano alla comune, stavano qui in casa. E, dal momento che stavano alla comune solo per dormire – e neanche sempre – e per i concerti, vi lascio immaginare quanto tempo abbiano passato fra queste mura.
Tutto ciò ci porta ovviamente al dannato giorno in cui li presentai a Gabriel.
Nel lussuoso salotto di casa mia ebbe luogo il più classico degli innamoramenti. Il ricco figlio di papà e l’indomito ribelle. Il ragazzetto che profuma ancora di latte e il giovane uomo che, al più, puzza di sudore. L’adorabile bimbetto che veste solo roba che costi dalle cento sterline in su ed il sensuale rivoluzionario in pantaloni di pelle e maglietta sdrucita.
Niente di particolarmente inedito. Pure vagamente noioso.
Capii che il dramma s’era consumato quando Gabriel, qualche giorno dopo, entrò in camera mia trascinandosi dietro Marilyn. Mio fratello utilizza quell’orso come deterrente per le botte. Sa di avere un’aria dannatamente carina e stupida, quando lo usa come scudo, perciò ogni volta che fa qualcosa per la quale sa che potrei avercela a morte con lui, ecco che lo smuove dall’angolo d’onore in cui sta di solito per portarselo in giro e minacciarmi moralmente per salvarsi la vita.
- Togli immediatamente di mezzo quell’orso. – fu ciò che dissi, aggrottando le sopracciglia, nel momento in cui lo vidi apparire sulla soglia della porta.
Per tutta risposta, lui lo abbracciò perfino più teneramente.
- Devo dirti una cosa… - miagolò, fingendo innocenza.
- Appunto. – annuii io, - Ed io devo sentirmi libero di poterti pestare a sangue in caso ciò che devi dirmi non mi piaccia. Perciò togli di mezzo quell’orso.
Gabriel sapeva che non l’avrei comunque mai pestato a sangue, ma si rifiutò lo stesso di archiviare Marilyn, perciò io dovetti rassegnarmi all’ennesimo ménage a trois di confessioni adolescenziali e, sospirando, lo lasciai entrare.
Dopodiché, tutto si svolse classicamente. Mio fratello mi disse che si sentiva ancora in colpa per non avermi detto di Erik fin da subito, e che invece, per quanto riguardava CJ, voleva essere chiaro fin dall’inizio.
- Nel senso che vuoi assicurarmi che non ti ci metterai mai e poi mai insieme? – azzardai io, speranzoso.
- No. – disse lui, infrangendo tranquillamente tutte le mie illusioni, - Nel senso che mi piace un sacco e voglio che tu lo sappia.
Io sospirai ancora, allungandomi a recuperare il basso adagiato contro il muro ai piedi del letto e stringendolo a me in un abbraccio innamorato e bisognoso di comprensione.
- Perché devi essere così amante degli stereotipi? – borbottai, - Prima l’algido latifondista, adesso il punk infoiato… se il prossimo passo dev’essere il fascinoso intellettuale, dimmelo subito, che mi organizzo per bandire Cody dalla nostra esistenza vita natural durante…
Gabriel sbuffò offeso e, cercando di reggere Marilyn per il collo, intrecciò le braccia sul petto.
- Non dire sciocchezze. – mi rimbrottò, - Cody è eterosessuale.
- E questo non mi rassicura. Comunque, se stavi cercando la mia approvazione, non te la darò.
Ovviamente, non la stava cercando.
Fece di testa propria, come al solito.
Ora, immaginate come una realtà divisa in due. Gli stessi avvenimenti, pensateli come se potessero essere scissi e percepiti diversamente.
Io cominciai una personale guerra d’indignazione nei confronti di mio fratello. Gli parlavo poco, organizzavo rappresaglie d’ogni tipo e lo ricoprivo di disapprovazione e battutine sarcastiche.
Questo era ciò che stava accadendo, nella mia ottica.
Nell’ottica di Gabriel, invece, no.
Se stavo mezz’ore intere chiuso in bagno per impedirgli di imbellettarsi come preferiva, non era per ostracismo nei suoi confronti, ma solo perché evidentemente non digerivo bene.
Se non gli parlavo per giorni, non era perché il solo pensiero che potesse attaccare a parlare di CJ in termini melensi e innamorati mi dava la nausea, ma solo perché evidentemente avevo mal di gola.
Se lo insultavo ogni tre minuti utilizzando qualsiasi pretesto anche solo vagamente utile, non era perché stavo cercando di riportarlo sulla via della ragione con le cattive, visto che le buone non funzionavano, ma solo perché evidentemente mi stavo sentendo trascurato ed avrei preferito stesse di più a farmi compagnia – neanche fossi un vecchio nonno sdentato chiuso in un ospizio!
Insomma. Un disastro. Non venivo capito. Venivo, anzi, del tutto frainteso!
Ma non ne ero consapevole. Ero convinto di vincere battaglie su battaglie e davo per certa anche la sconfitta finale di Gabriel.
Perciò non seppi effettivamente come prenderla, quando Gabriel, di punto in bianco, sparì.
Successe un venerdì sera. Tornammo da scuola, ci chiudemmo in camera, io attaccai basso e cuffie e mi isolai dal mondo esterno e, quando scesi per cena, nostra madre mi guardò come fossi stato un mostro e strillò “Cosa hai fatto a tuo fratello?!”.
Dal momento che entrambi i nostri genitori sapevano di quella guerra intestina che stavo conducendo in solitaria – anche se nessuno dei due si era premurato di informarmi del particolare – non mi feci scrupolo a rispondere nel modo più acido possibile.
- Vuoi l’elenco solo di oggi o preferisci un riassunto dell’ultima settimana?
Mia madre mutò lo sguardo dalla sfumatura “ho un mostro per figlio” alla sfumatura “ho un ignobile mostro per figlio”, ed incrociò le braccia sul petto.
- È scappato di casa! – notificò, - È colpa tua?
Spalancai gli occhi.
Io non avevo mai voluto che scappasse di casa! Certo, il pensiero che il mio comportamento nei suoi confronti potesse provocare una reazione simile mi aveva sfiorato, ma dannazione, avevo deciso di avere fiducia nella sua intelligenza! Speravo che avrebbe ceduto prima di mettersi dei guai!
Dovevo intervenire. Dovevo proprio.
Afferrai la giacca e corsi dall’unica persona che credevo in grado di aiutarmi.
Quando arrivai alla comune, CJ stava stravaccato sul divano, ed il suo sorriso ebete sembrava volesse gridare al mondo “io non ho assolutamente nessun tipo di problema e non solo sono felice così, ma tutti voialtri che invece vi dibattete fra le crudeli sfighe della vita mi fate un’immensa pietà!”.
- Datti una svegliata! – rimbrottai, appendendomi al colletto della sua maglietta per tirarlo in piedi, - Sei drogato o cosa?!
- Uh? – chiese lui, spalancandomi addosso gli occhi e grattandosi la nuca, - No, non in questo momento. Sono solo molto felice perché-
- Non c’è tempo per la felicità! – strepitai, scrollandolo qua e là, - Gabriel è sparito!
- Cosa? – biascicò lui, cadendo dalle nuvole, - Ma no, che dici?, non-
- Non dirmi che Gabriel non potrebbe mai, perché invece l’ha fatto!
- No, non stavo-
- Insomma, CJ, vogliamo stare qui a perdere tempo mentre mio fratello viene rapito o derubato o violentato o chissà che altro in qualche vicolo di periferia?! – strillai, credendo di chiudere in quel modo tutte le chiacchiere e cominciando a guardarmi intorno alla ricerca di Nicholas, per utilizzarlo come membro della squadra di ricerca che intendevo organizzare.
- Chi è che viene rapito o derubato o violentato o chissà che altro? – chiese, ovviamente, mio fratello, spuntando da una porta random con una bottiglia di birra per mano.
Inquadrai la sua figura e mollai la presa sul colletto di CJ, che si lasciò ricadere mollemente sul divano. Poi guardai il mio cosiddetto migliore amico ed indicai Gabriel.
- Che ci fa lui qui?
- È esattamente quello che stavo cercando di dirti prima. – annuì lui, del tutto tranquillo, - Gli ho chiesto di venire a passare qualche giorno qui e lui ha accettato. È per questo che ero felice! Credevo ve l’avesse detto…
- No. – precisai io, le mani che mi tremavano dalla voglia di prendere a cazzotti qualcosa, - Ha dimenticato di farlo.
- Oh, insomma. – sbottò Gabriel, offeso, dirigendosi verso il divano con la precisa intenzione di sedersi in braccio a CJ, - Non sono più un bambino, posso fare quello che voglio.
- Sapevo che saresti venuto su viziato. – commentai, afferrandolo per la collottola prima che potesse realizzare i propri piani malefici, e reggendolo letteralmente in piedi a mezz’aria, - Adesso tu torni a casa.
- Cosa?! No!
- O ci torni sulle tue gambe, o ci torni sulle mie. – minacciai spietato, - Ma bada che, se ci tornerai sulle mie, sarà perché le tue saranno rotte.
- Uhm. – s’intromise CJ, - Devo ricordarti che stai minacciando fisicamente il mio ragazzo?
- Tu ricordamelo ed a farne le spese saranno anche le tue, di gambe. – fu la mia lapidaria risposta, in seguito alla quale Romeo e Giulietto deposero le armi e, mentre Romeo restava sul divano ad irrorare di birra le ferite dell’orgoglio, Giulietto si lasciava trascinare a casa – dopo aver opposto tanta resistenza da costringermi a caricarmelo in spalla, ovviamente.
- Deficiente che non sei altro. – lo rimproverai lungo la strada, reggendolo stretto per i fianchi e sistemandomelo addosso perché non pressasse dolorosamente sulla clavicola, - Quando saremo a casa, neanche Marilyn potrà salvarti dalla giusta dose di botte che meriti. Mi sono preoccupato a morte! Credevo fossi scappato a causa mia!
Lui smise solo in quel momento di non ascoltarmi e giocare con le dita sul disegno sulla schiena della mia maglia, e si sporse all’indietro per cercare di guardarmi negli occhi.
- A causa tua…? – chiese curioso, spalancando quegli occhioni assurdamente verdi.
- Sì! – biascicai io, mortalmente in imbarazzo, come si può facilmente intuire, - Perché stavamo litigando!
Se possibile, i suoi occhi diventarono ancora più grandi.
- …stavamo litigando?
Lasciai perdere. Perfino coi piani di pestaggio. Anche perché, una volta tornati a casa, la prima cosa che aveva fatto era stata rifugiarsi fra le braccia di quello stupidissimo orso rosa, ed io non avevo proprio…
Be’. Insomma. Ognuno ha le sue debolezze.
*
Alla fine, non dovetti neanche preoccuparmi tanto. Come ho già detto, mio fratello è un animo molto romantico, ma non è stupido. Non è neanche cieco: era solo questione di tempo, prima che si accorgesse del fatto che, per quanto fosse indubbiamente figo, divertente e particolare, CJ non era una persona adatta a lui.
Fu proprio Gabriel a lasciarlo.
A CJ questa cosa non è mai andata giù, nel senso che suppongo che, a proprio modo, amasse davvero mio fratello. Tant’è che si ostina a cercare di mettergli le mani addosso ogni volta che lo vede, nonostante la minaccia della mia furia che incombe pericolosamente sulla sua testa.
Quindi, anche quella volta, mio fratello si salvò, in un certo senso.
Però è risaputo che gli stati di quiete esistono per essere distrutti, ed infatti è quello che è successo recentemente con Luke. D’altronde, dato che a mio fratello piacciono tanto gli stereotipi, non si poteva certo pretendere che di fronte al prototipo standard dello sfigato colossale resistesse all’impulso di aggiungerlo all’elenco e spuntare la voce corrispondente alla lista.
Inoltre, io non sto qui a rievocare i drammi della mia vita da fratello maggiore a caso. Se rievoco, è perché la sfiga mi sta rimettendo nella stessa situazione.
Ed è infatti in questa situazione che mi trovo adesso. Con un fratello felicemente fidanzato, sì, ma non sessualmente soddisfatto – come fosse una cosa di cui stupirsi: andiamo, Luke palesemente non è in grado di fare sesso! – che si appende da un lato al mio povero collo innocente e dall’altro a quel malefico orso senza il quale nessuna depressione può essere affrontata, e che si lamenta mugolando da almeno mezz’ora.
- Tu non mi stai ascoltando! – borbotta irritato, sporgendosi a tirarmi un orecchio.
Io rispondo con un pizzicotto sulla pancia e lo osservo strillare e raggomitolarsi a riccio attorno a Marilyn, come fosse l’unica creatura al mondo di cui possa fidarsi.
- Altroché se ti stavo ascoltando. – sbotto, stendendomi meglio sul letto, - Anzi, stavo giusto pensando che i tuoi innamorati finiscono sempre col causarmi un mucchio di problemi.
- Oh, andiamo! – sbuffa lui, socchiudendo gli occhi, - Non sempre!
- Sempre! – insisto io, convintissimo, - Dal primo all’ultimo!
- Il primo no!
- Il primo più di tutti! – rimarco, - Per poco non finivo in riformatorio, per colpa di quello stupido orso!
Gabriel mi regala un’occhiata innocente delle sue, portandomi istintivamente ad aggrottare le sopracciglia in segno di disapprovazione verso qualsiasi cosa stia pensando.
- Marilyn? – chiede incuriosito, - Che c’entra Marilyn?
- Come che c’entra?! – sbraito ferocemente io a questo punto, - È stato lui, il primo!
Gabriel mi sorride. Si stende meglio sull’orso rosa, aderendo perfettamente alla sua enorme pancia imbottita di bambagia, e poi allunga un piede a darmi un timido calcio su uno stinco.
- No. – risponde a bassa voce, continuando a sorridere, - Il primo sei stato tu.
Mh.
Sospiro e mi lascio andare contro il cuscino, chiudendo gli occhi e coprendoli con una mano.
Be’. Qualcuno dovrà pur fare un certo discorsetto con questo Luke Perrington.
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