Fandom: Originali
Genere: Romantico, Introspettivo.
Rating: R.
AVVISI: Slash, Angst, Lime, Underage, Age Difference.
- Dante vive in uno sperduto paesino di 600 anime perso fra gli agrumeti in Sicilia. Da quando, dopo un grave infortunio al ginocchio, ha abbandonato per sempre il mondo del calcio, tutto quello che ha voluto è stata una vita isolata e solitaria, e la vecchia casa in cima alla collina nella quale vive gli offre tutto l'isolamento e tutta la solitudine di cui ha bisogno. Almeno fino a quando un ragazzino del luogo non comincia a porsi delle domande.
Note: Per la serie "ogni tanto la Liz perde la brocca". Questa storia la voglio scrivere da almeno un paio d'anni, c'avevo questa fissa del calciatore azzoppato che si metteva col ragazzino, tant'è che per lungo tempo il file di plottaggio (e per qualche giorno anche il file della storia stessa XD) si è chiamato "calciatore azzoppato underage", che è un titolo bellissimo che mi rammarico di non potere usare anche ufficialmente. Comunque, la terza settimana del COW-T #4 è giunta in mio aiuto perché, fra le varie missioni possibili, ce n'era una per cui bastava scrivere una storia ispirata a qualunque tema, purché fosse più lunga di 3k. Ed io ho pensato bene di arrivare fino a 22k. Cos that's what I do.
Eeeeh. Enjoy. *abbraccia Dante e Francesco fino alla fine dei tempi*
Titolo e versi citati all'interno della storia appartengono all'omonima canzone di Faber.
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Francesco stringe i denti, allungandosi sulla poltrona reclinabile nera e serrando le dita attorno ai braccioli in un gesto improvviso e convulso che gli imbianca le nocche. Mirko, seduto sullo sgabello accanto a lui e fino a quel momento impegnato a fissare con terrore crescente l’ago scivolargli sottopelle secondo le linee del disegno scelto in mezzo al catalogo, gli solleva immediatamente lo sguardo addosso, mordendosi le labbra.
- Fa male? – domanda. Gli trema la voce.
Francesco tira sulle labbra un sorriso incomprensibile, quasi perverso nella sua voluttà fuori luogo, ed espira rumorosamente.
- È bellissimo. – esala senza fiato.
Senza neanche capire perché, Mirko arrossisce.
- Minchia che cervello marcio hai. – borbotta, - Mi fai paura.
- Questo perché sei un cagasotto. – ride Francesco, rilassando le mani e riprendendo a respirare normalmente, - È normale provare piacere per queste cose.
- Dal mio punto di vista, o una cosa fa male, o una cosa è piacevole. – ribatte Mirko, scrollando le spalle, - Non ci sono vie di mezzo.
- Un punto di vista piuttosto limitato. – sorride il tatuatore, chino sullo stomaco piatto di Francesco. La stella ha due punte, adesso. Fra l’ago e la pelle abbronzata di Francesco comincia l’aspra battaglia per la terza.
- Vedi? – ride lui, indicando il tatuatore con un cenno del capo, - Lui mi dà ragione.
- Non è detto che sia un bene! – protesta Mirko, indicando l’uomo sulla quarantina, completamente ricoperto di piercing e tatuaggi ed appesantito sul davanti da un’enorme pancia rotonda che la maglietta scolorita dei Metallica riesce a malapena a coprire, intento a lavorare su Francesco come fosse una tela bianca sulla quale dipingere ciò che vuole. – Senza offesa. – aggiunge poi arrossendo, quando si rende conto di ciò che implicano le sue parole.
- Figurati. – ride l’uomo.
Ride anche Francesco. Le punte sono quattro, adesso, unite da linee perfettamente dritte, eleganti e sottilissime.
- Senti, ma sei voluto venire tu. – dice, scrollando le spalle, - Anzi, pensavo che volessi fartene uno.
- Io?! – sbotta Mirko, oltraggiato, - E perché?!
- E che ne so? – ride Francesco. La pancia trema appena quando ride, ed il tatuatore lo schiaffeggia piano su un fianco.
- Fermo. – lo rimprovera bonariamente.
- Scusi. – risponde Francesco con un sorriso.
Cinque punte. È la prima cosa che Francesco si scrive addosso. Il disegno l’ha scelto a caso, perché non crede che sia importante. Non vuole che sia importante. Un giorno ne avrà così tanti che il significato di questo primo tatuaggio sarà perso per sempre, forse addirittura non si vedrà più, coperto da tutti gli altri. Quello che significa non importa. Quello che importa è che ci sia, che sia lì, che Francesco l’abbia voluto e che adesso se lo porti addosso.
- È fantastica. – dice, la voce che trema di entusiasmo.
- Bene. – borbotta Mirko, alzandosi in piedi e recuperando lo zaino dal pavimento, - Adesso possiamo andarcene? – domanda.
Francesco e il tatuatore gli lanciano un’occhiata interrogativa, e poi, mentre l’uomo scuote il capo con un sorriso divertito, Francesco scoppia a ridere.
- Adesso, - spiega, - La riempiamo.
Mirko torna a sedersi sullo sgabello con un tonfo. Quando l’ago ricomincia a scivolargli velocemente addosso, riempiendo la sagoma della stella di inchiostro nero, impallidisce.
- Mi viene da vomitare. – biascica.
- Cagasotto. – commenta Francesco, sorridendo soddisfatto.

QUELLO CHE NON HO

Quello che non ho è un orologio avanti
per correre più in fretta e avervi più distanti.
Quello che non ho è un treno arrugginito
che mi riporti indietro da dove sono partito.

Quando piove, il ginocchio lo infastidisce parecchio. Non è un dolore debilitante, non è neanche acuto e pungente come certi dolori sanno essere quando si mettono in testa di romperti pesantemente il cazzo. Dante ha imparato a conviverci – sono ormai dieci anni che ci convive. È una di quelle cose ineluttabili che non accetti mai per davvero come fossero tue, come facessero parte di te. Come un neo che spunta all’improvviso dove prima non c’era. Diventi isterico, vai dal dermatologo, ti fai spiegare di cosa si tratta, ma anche quando quello ti rassicura dicendoti che è una cosa da niente e che non c’è di che preoccuparsi tu continui a sentirlo, quel puntino nero di merda, lo senti fisicamente e non te ne frega niente che non sia effettivamente possibile sentire una cosa del genere. Lui c’è, tu lo sai. Ti sta addosso, disegnato sulla tua pelle da qualche cellula epidermica in vena di ribellione, ma non lo senti come una cosa tua. Non è una cosa con cui sei nato. È una cosa che ti è piovuta addosso, che non puoi fare a meno di notare perché non era con te quando sei venuto al mondo ed è inconcepibile che una cosa che non c’era fin dall’inizio invece decida autonomamente di esserci fino alla fine.
Il suo dolore al ginocchio è uguale. Quando piove si risveglia rimbombando come un colpo di pistola. Bam!, ed eccolo là. Pulsa incessantemente, ricordandogli che non può liberarsi di lui. Che può sparire anche per lunghi periodi di tempo, può lasciarlo in pace per un po’, ma torna quando vuole, e lui non può impedirglielo.
Di fuori viene giù il diluvio universale. Sdraiato sul divano con la gamba destra sollevata, Dante guarda fuori dalla finestra. Dalla posizione in cui è può vedere solo uno spicchio di cielo grigio e carico di nuvole. Il vetro è coperto di gocce di pioggia che si gonfiano, si gonfiano, e poi cominciano a scivolare verso il basso seguendo percorsi così perfetti da sembrare schemi di gioco provati in allenamento. Goccia numero uno dribbla goccia numero due, supera goccia numero tre e poi si getta verso goccia numero quattro, che ne raccoglie il carico e poi si unisce a goccia numero sei, sette e otto correndo verso la…
Dante scuote il capo, aggrottando le sopracciglia. Si sente un cretino. Gli fa male il ginocchio. Odia la pioggia.
Le risate che all’improvviso spezzano lo scrosciare monotono e noioso della pioggia lo infastidiscono molto più di quanto dovrebbero. Odia la gente che ride. Cazzo c’avrai da ridere, pensa sempre. Lui non ha mai riso molto. Anche quando era in salute e tutto andava bene, non era un tipo da grandi risate. I ragazzi lo prendevano sempre in giro, per questo. Lo tartassavano di scherzi in una persecuzione continua, cercando di metterlo in imbarazzo per costringerlo almeno ad una risatina nervosa, ma non accadeva praticamente mai. Sorrideva, eh, ed era una persona positiva, non era uno di quei rompicazzo sempre pronti a lagnarsi della loro esistenza anche quando non ne hanno alcun motivo. Ma le risate, boh. Non è che non riesca a concepire che sia possibile per qualcuno trovare qualcosa di estremamente divertente, al punto da ridere, ma quella del suo cervello è una reazione immediata, automatica, che non ha bisogno di nessuna motivazione. Cazzo c’avrai da ridere. Sempre.
Si alza dal divano a fatica, lasciandosi sfuggire un grugnito mentre si avvicina zoppicando alla finestra. Non zoppica mai. Odia zoppicare. Gli fa schifo zoppicare, gli fa schifo essere costretto a farlo perché quando il ginocchio fa lo stronzo in questo modo non c’è maniera di nascondere il dolore, neanche stringere i denti e sopportarlo serve a niente, perché quando poggi il fottuto piede a terra e scarichi il peso semplicemente la gamba non ti regge. E tu puoi incazzarti quanto vuoi, e puoi farti schifo quanto vuoi, ma zoppicherai. Lo farai e basta. E il dolore ti ride in faccia mentre ti si piega la schiena e la gamba sana scatta in avanti per offrire al corpo il sostegno che l’altra gamba non riesce ad assicurare.
Fuori dalla finestra, oltre alla pioggia, ci sono due ragazzini. Sono bagnati dalla testa ai piedi. L’acqua appiccica loro i vestiti addosso. Il temporale li ha chiaramente presi alla sprovvista, come prende alla sprovvista tutti quelli che non se l’aspettano, non così, non a inizio giugno, dopo settimane e settimane di sole spaccapietre. La gente già va al mare, da queste parti, di questi tempi. Oh, Dante ricorda com’era vivere al Nord. L’aria grigia di giugno. L’umidità a rendere l’aria pesante e bagnata. Qui l’inverno sembra non arrivare mai, quando arriva ti morde a tradimento come un lupo che scatta dal folto della foresta e ti azzanna in perfetto silenzio, ma poi ti lascia andare. Scompare. Già a fine marzo le temperature si alzano. Arriva lo scirocco a riscaldare l’aria. Smette di piovere. È incredibile quando a lungo possono andare avanti le stagioni qui senza che si versi neanche una goccia d’acqua.
Quasi tutti i temporali sono visti come eventi incomprensibili. Ricorda di essere andato al bar in piazza, giù in paese, una volta, dopo un acquazzone che era arrivato velocemente come poi se n’era andato, e di aver sentito due uomini sulla sessantina discutere per venti minuti buoni su quanto assurdo fosse stato il cattivo tempo delle due ore precedenti. “Mai vista tanta acqua,” diceva uno, “C’erano pozzanghere di cinque centimetri fuori casa mia in cortile,” rispondeva l’altro. Dante pensava ai fiumi in piena, alle piogge ininterrotte per due, tre giorni, al metro e mezzo d’acqua all’interno del quale spesso e volentieri si trovava a sguazzare quando pioveva davvero tanto. Fuori, per strada, le pozzanghere avevano già cominciato a prosciugarsi.
La gente qui affronta tutto con aria molto drammatica, come fosse costantemente sul palcoscenico, in cerca degli applausi. Tutto viene inutilmente caricato di pathos, c’è una sorta di epicità di fondo che ti accompagna perfino quando parli di portar fuori il cane a pisciare. Dante ci si ritrova bene in mezzo perché lo sente come un ambiente perfetto per continuare a rotolarsi nel rimpianto e nella nostalgia come gli piace fare, ma per lo più non la capisce, questa gente. E infatti se ne sta sempre per conto suo.
Che è il secondo motivo – oltre al fatto che ridono e, insomma, cazzo c’avranno da ridere – per cui la presenza dei ragazzini nel suo cortile lo urta tanto. Il terzo ovviamente è che sono nel suo cortile e lui non ha eretto reti metalliche tutto attorno la sua proprietà per lasciare che due ragazzini mai visti prima, bagnati dalla testa ai piedi e rumorosi come i botti di fine anno andassero e venissero da lì come preferivano.
Il quarto motivo per cui i ragazzini gli danno fastidio è che stanno limonando piuttosto selvaggiamente, lì di fuori, riparandosi sotto la pensilina in cui teoricamente Dante potrebbe mettere il tavolo d’estate per mangiare con gli amici, se ancora ne avesse qualcuno. A lui la gente che limona pubblicamente dà fastidio. Anche la gente che si bacia pubblicamente gli dà fastidio. Anche tenersi per mano lo ritiene piuttosto esagerato. Non c’entra niente il fatto che i due ragazzini in questione siano entrambi maschi, è una questione di forma. È come le risate. Cazzo c’avrai da ridere. Cazzo c’avrai da baciarti a quel modo lì sotto la pioggia. Perché, poi.
Di regola, secondo Dante, qualsiasi cosa possa tranquillamente essere fatta in casa, dove ogni attività può essere svolta molto più liberamente che altrove, non ha nessun motivo di essere fatta anche fuori casa. Ognuno di questi gesti rappresenta un’ostentazione della quale non riesce a capire il motivo. Perché senti il bisogno di baciarti di fronte alla gente? Di stringere la mano di qualcuno con un pubblico di fronte? Cosa stai facendo di tanto straordinario? La gente si bacia dall’inizio dei tempi, è il preliminare più banale che esista. Stringersi la mano è una roba di cui si fa un tale abuso che ormai ha perso ogni significato. Chiunque cammina mano nella mano con chiunque altro, per strada, ormai. Cosa c’è di tanto valido da dover essere mostrato? Che spettacolo vuoi dare, perché?
Quando entrava in campo – sembra un milione d’anni fa – ci stava bene attento. Al tipo di spettacolo che voleva dare alla gente. Conosceva quelle persone sugli spalti, suo padre era stato uno di loro. Uno capace di fare sacrifici surreali per portare il figlio a vedere la partita. Per pagare un abbonamento anche nel settore più sfigato dello stadio, pur di essere lì. A guardare qualcosa. Uno spettacolo. Che doveva valere il prezzo del biglietto.
Dante ci teneva, che lo spettacolo valesse il prezzo del biglietto. Provava sempre a bilanciare l’equazione. Non sempre ci riusciva. Non sempre la squadra giocava bene. Non sempre dipendeva da lui. Ogni tanto sì, e riusciva. Ogni tanto sì, e falliva. Ma indipendentemente dal risultato finale provava sempre. Lo spettacolo era importante. Bisognava rispettarne il valore. Non ha mai smesso di credere in questo – la vita non ha mai smesso di essere una cosa da gestire in base allo spettacolo che stai dando di te alla gente. Anche se ormai il biglietto per vederlo non lo paga più nessuno. Anche se ormai non vengono più a vederlo neanche gratis. Lui sta sempre attento allo spettacolo che dà di sé agli altri.
Il ginocchio pulsa sempre più insistentemente, adesso, anche senza poggiarvi sopra il peso del corpo. Dante sta lievemente inclinato sulla sinistra, facendo affidamento solo su quella gamba per reggersi in piedi. Comincia a far male anche lei. L’ultimo medico da cui è stato gli ha consigliato di usare le stampelle, o un bastone. “Se continua così,” gli ha spiegato, “Corre il rischio di danneggiare i legamenti, di consumare le giunture. L’anca, il ginocchio, la caviglia. Vuole che il dolore diventi cronico? Vuole zoppicare per sempre? Vuole che le si deformi la spina dorsale?”
No, Dante non vuole niente di tutto questo. Non vuole neanche usare le stampelle o il bastone, però, perciò non lo fa.
Non riesce più a stare in piedi di fronte alla finestra, e d’altronde lo spettacolo l’ha già annoiato a sufficienza. La tristezza monta assieme al dolore, adesso. Pulsa nello stesso modo, partendo dal ginocchio e spandendosi attraverso il suo corpo in cerchi concentrici che finiscono per invaderlo tutto.
Tira le tende. Torna al divano. Vi si lascia ricadere con un tonfo pesante. Faccia in giù contro il cuscino – è meglio se per il resto del pomeriggio non vede altro.
*
- Hai visto? – domanda Francesco, sollevando uno sguardo verso la casa, le labbra ancora incollate al collo di Mirko.
- Che…? – risponde lui con aria sognante, e poi aggiunge in un lamento, - No, non ti fermare, era bello.
- Sì, lo so che era bello. – ride Francesco, allontanandosi da lui, - Ma ho visto qualcuno dietro la finestra.
- E che c’è di strano? – sospira Mirko, risistemandosi il colletto della maglietta e passandosi una mano fra i capelli prima di scuotersi tutto come un cane bagnato, - Deve abitarci qualcuno dentro per forza, ti pare? La casa non è sfitta.
- Sì, ma non avevo mai visto nessuno qui. – insiste Francesco, avvicinandosi alla finestra senza la minima vergogna, provando a sbirciare all’interno oltre le tende tirate, - Tu?
- No. – ammette Mirko, - Nemmeno io. Ma non è che me ne freghi qualcosa. Piuttosto, a te che importa?
- Boh, non lo so. – Francesco scrolla le spalle, allontanandosi dalla finestra e spostandosi verso la porta, provando senza successo a guardare attraverso lo spioncino. Il suo sguardo incontra solo un’uniforme macchia grigiastra e buia, all’interno della quale non si riesce a distinguere nemmeno il contorno delle cose. – Sono curioso.
- Sei morboso. – lo corregge Mirko, facendo una smorfia, - Fra’, stai spiando in casa di uno sconosciuto…
- Ma non vedo niente, per cui è tutto a posto. – taglia corto Francesco.
Mirko lo fissa, sconcertato.
- Ma non è così per niente! – protesta, andandogli vicino e tirandolo per la maglietta, - Dai, andiamo a casa, siamo tutti bagnati.
- Sì, lo so che sei tutta bagnata. – ghigna Francesco.
Mirko arrossisce, tirandogli un ceffone sulla nuca.
- Lo sai che sei una merda? – sibila tra i denti.
- Sì, ma tanto tu continui a farti limonare. – ride Francesco.
Mirko abbassa lo sguardo, lasciandolo andare.
- Che stronzo…
- Dai, non te la prendere. – Francesco ride ancora. Francesco ride sempre. – Vieni, facciamo il giro.
- Ma che giro vuoi fare?! – strilla Mirko, - Ma sei scemo?! Sei pazzo! Siamo su una proprietà privata!
- La cosa non sembrava infastidirti quando siamo entrati prima. – sorride Francesco, svoltando tranquillamente l’angolo ed incollando il naso alla prima finestra disponibile.
- Sì, perché prima non mi avevi detto che volevi infrangere delle leggi una volta che fossimo entrati. – borbotta Mirko, seguendolo di malavoglia.
- La legge l’abbiamo già infranta entrando… - spiega Francesco con aria distratta, come se si trattasse di un dettaglio ininfluente. – Non ti sembra strano? – aggiunge poi, piegando le labbra in un ghigno curioso, quasi infantile.
- Cosa, infrangere la legge? Mi pare una stronzata. Strano no, però. – risponde Mirko in un borbottio irritato.
- No, scemo. – ride Francesco, - Dico non avere mai visto il tizio che abita qui.
- Fra’, ma cosa stai dicendo. – sospira Mirko, passandosi una mano sul volto, - Chissà quante volte l’abbiamo visto ‘sto tizio giù in paese!
- Sì, okay, ma non l’abbiamo mai visto entrare e uscire da casa. – spiega lui, - Cioè, non ti sembra assurdo non sapere chi vive in questa casa? Siamo un paese di seicento anime. Ci conosciamo tutti. E questo tipo abita qui da, boh, fai, almeno un secolo? E chi l’ha mai visto?
- Be’, è una casa isolata. – risponde Mirko, scrollando le spalle, - Magari è uno che non vuole rotti i coglioni.
Il sorriso sulle labbra di Francesco si allarga pericolosamente.
- Ecco perché è interessante. – ride.
La risposta, per qualche motivo, manda Mirko su tutte le furie. L’irritazione circola sottopelle e si spande per tutto il suo corpo come un’onda, e lui stringe i pugni lungo i fianchi.
- Va be’, ho capito. – borbotta, - Io me ne vado a casa. Quando ti gira mi chiami.
- Nah, ci vediamo al campetto alle sei, se smette di piovere. – scrolla le spalle lui, muovendosi verso l’altra finestra e sperando la vista all’interno non sia oscurata dalla tenda. Ovviamente lo è. – Se no, ci vediamo direttamente domani alla fermata del pullman.
- Come ti pare. – risponde Mirko, voltandogli le spalle. Tira su il cappuccio ormai fradicio della felpa e si arrampica sulla rete metallica, saltando dall’altro lato ed atterrando con una mezza scivolata nel fango, per poi cominciare a ridiscendere lungo il fianco della collina.
Francesco non lo guarda andare via. La sua mente è tutta assorbita dal mistero, adesso. È un’avventura da film, da libro per ragazzini, da fumetto. L’uomo misterioso nella vecchia casa in cima alla collina. Chi è? Cosa nasconde? Quale oscuro segreto l’ha portato a vivere in quel posto dimenticato da Dio, lontano da tutti e senza nessun contatto col mondo esterno? Ce n’è per tenersi impegnato per tutto il resto dell’estate, e la scuola sta per finire. Non poteva capitare più a proposito di così.
Gira nuovamente l’angolo, tornando nel cortile di fronte alla casa. È un edificio abbastanza antico, doveva essere una piccola fattoria, un tempo, perché sul cortile danno un piccolo pollaio vuoto e cadente ed una stalla di medie dimensioni riconvertita in garage. Ci sono due finestrelle sul fianco, e Francesco afferra uno sgabello scricchiolante abbandonato nei pressi della porta d’ingresso e lo trascina vicino alla parete, arrampicandosi fino a poter sbirciare all’interno.
La Jaguar nera, luccicante perfino nella penombra di quell’ambiente chiuso, lo coglie alla sprovvista.
- Sticazzi. – mormora fra sé. Non è un modello nuovissimo, ma non è neanche un modello antico. Deve anche costare una cifra.
Scende dallo sgabello lanciando un’altra occhiata alla casa, perfettamente immobile e silenziosa. È sicuro che dentro ci sia qualcuno ed è sicuro che quel qualcuno deve sapere che lì di fuori c’è lui. Lui e Mirko hanno fatto troppo casino per passare inosservati, e lui sta qui appiccicato alle finestre ormai da dieci minuti buoni. Il tizio, chiunque sia, lo sta ignorando di proposito. Forse s’è perfino rintanato in qualche angolo della casa, qualche angolo cieco impossibile da vedere dalle finestre, e sta pregando intensamente perché Francesco vada via senza disturbarlo.
Si avvicina alla porta e bussa. Nessuna risposta. Suona il campanello, ancora niente.
Si allontana, pensieroso. Sembrava dovesse smettere di piovere, e invece riprende ad intensità ancora maggiore.
- E che cazzo… - borbotta contrariato. Tira su il cappuccio e si sistema lo zaino sulle spalle. Oh, ma tornerà, si dice con un sorriso mentre scavalca la rete. L’estate è lunga.
*
Lacerazione traumatica totale del tendine rotuleo del ginocchio destro.
Dante si è svegliato con queste parole fisse in testa, stamattina. Ogni tanto gli capita. Non sono solo le parole, è tutto quanto. È il dettaglio del momento, lo studio del dottor Faglia, l’odore di disinfettante, il lettino rialzato addossato alla parete e il rotolo di carta che ne copre la superficie, Franco seduto sulla sedia accanto a lui, rigido come un pezzo di legno, e i risultati della risonanza magnetica appoggiati sulla scrivania. Quella scrivania la ricorda bene, era di una bruttezza. Due enormi piedi in marmo bianco sostenevano una lastra di vetro rettangolare spessa almeno cinque centimetri. Era così evidente la pretesa di fare arredamento di classe, così chiaro il desiderio di conferire una certa superiorità all’ambiente, che Dante non poteva fare a meno di sentirsi a disagio ogni volta che, per un motivo o per l’altro, era costretto a passarci del tempo. Il che ovviamente succedeva spesso. Prima di entrare nel mondo del calcio nessuno gli aveva mai detto che tipo di vita gli aspettasse, una vita di infiniti doloretti troppo sottili e irrilevanti per costituire un motivo sufficiente per prendersi una pausa – e poi la squadra, Dante, dai, la squadra ha bisogno di te – ma sempre lì, sempre pronti a pungere, ad affacciarsi dietro ogni tendine, ogni legamento, ogni muscolo. Il calcio era quella cosa che accadeva negli intervalli fra una puntura di dolore e l’altra. Ma ne valeva la pena, perché fare il calciatore era tutto quello che voleva, nella vita, tutto quello che aveva sempre voluto, fin da quando suo padre l’aveva portato allo stadio la prima volta, avvolto in quella sua consunta sciarpa che sfoggiava orgogliosa i colori sociali e il nome della sua squadra del cuore, e gli aveva detto “guarda, Dante, guarda che bello”, e lui aveva guardato il campo coi giocatori che si riscaldavano in attesa del fischio d’inizio, e nonostante piovesse furiosamente l’aveva trovato bellissimo, e la partita che ne era seguita, in mezzo a quel campo fangoso con le zolle che saltavano ad ogni calcio piazzato, la ricorda ancora come la più bella, la più intensa alla quale abbia mai assistito.
La squadra di suo padre aveva perso sette a zero.
Avrebbe dovuto trattarlo come un presagio.
E invece non l’aveva fatto ed eccolo lì, vent’anni dopo, seduto sulla scomoda poltroncina in ecopelle color latte di fronte alla scrivania bruttissima del dottor Faglia, con Franco – il suo procuratore, al tempo – seduto rigido al suo fianco, in attesa del verdetto.
“Lacerazione traumatica totale del tendine rotuleo del ginocchio dentro,” aveva detto il dottor Faglia con voce precisa e netta, quasi chirurgica nella precisione con cui si era scavata un buco nel cervello di Dante ed aveva ridotto a brandelli la sua capacità di connettere razionalmente, “Procederemo con l’intervento chirurgico già domani mattina. Sutureremo il tendine e, successivamente, fermeremo la gamba con un tutore. Delle terapie che seguiranno parleremo quando sarà tutto finito,” aveva aggiungo, abbozzando un sorriso rassicurante, “Sono convinto che—”
“Potrò tornare a giocare?” aveva chiesto Dante, anticipando la domanda di Franco. Gli tremava la voce dall’ansia.
“Ma certo, certo,” aveva risposto il dottor Faglia. Eppure la voce tremava anche a lui. Era un tremito lieve, quasi impercettibile, ma Dante l’aveva sentito, e in quel momento aveva capito. Aveva capito che i successivi sei mesi sarebbero stati solo una parentesi prima di un altro schiocco, e questa volta sarebbe stato l’ultimo. Se lo sentiva dentro, nelle ossa, il suo corpo gli parlava. Fai, fai, gli diceva, operati, stai fermo, fai fisioterapia, allenati, saltella sul posto senza sentire alcun dolore, corri senza affanno, poi entra in campo per una partitella di prova, convinto che ormai sia tutto passato, e sentirai lo schiocco. Lo sentirai, e farà un male fottuto.
Era andata più o meno davvero così. Si era operato l’indomani mattina, l’operazione era durata relativamente poco, “un intervento di routine,” aveva detto il chirurgo, “tutto a posto”. Tutto a posto. Riposo assoluto per trenta giorni, poi avevano tolto il tutore e lui aveva cominciato la riabilitazione col fisioterapista. In piscina, sulla sabbia, poi sul campo. Non c’era stato dolore. Era andato tutto bene. Aveva affrontato le prime partitelle di allenamento – “Metti minuti nelle gambe!” gli aveva detto Perez con quel suo sorriso bonario, più da nonno che da allenatore – senza sentirsi male, lo schiocco non era arrivato. Sette mesi e venti giorni dopo la rottura era in campo. Aveva segnato due gol, nel corso di quella partita. Punizione diretta in porta da fuori area, poi gol di testa su calcio d’angolo. Il tendine non aveva nemmeno pizzicato, atterrando dopo il salto.
“Tutto a posto?” gli aveva chiesto Perez, “Tutto a posto?”, gli aveva chiesto Franco, “Tutto a posto,” aveva risposto lui con un sorriso che diceva forse ho esagerato, forse non è stata poi la fine del mondo, la gente guarisce, il corpo si cura, i tendini rotti si rimarginano proprio come la ferite superficiali.
Due mesi e otto partite dopo, lo schiocco era arrivato, beffardo. Non quando se l’aspettava, nemmeno quando aveva smesso di temerlo, ma quando aveva finalmente cominciato a sperare di poterselo lasciare alle spalle, di poter ritornare ai massimi livelli. Un campionato da vincere, altri due tornei su cui concentrarsi, le qualificazioni per il Mondiale alle porte, magari il pallone d’oro ad attenderlo alla fine di quel percorso, se facciamo tutto bene, se vinciamo, se ce la faccio.
Ma lo schiocco era arrivato, non c’era modo di fingere che non fosse arrivato affatto. Non riusciva neanche a stendere la fottuta gamba. “Cazzo,” aveva detto Franco. Il modo in cui l’aveva detto aveva fatto capire a Dante che era finita, e si era ricordato dello studio del dottor Faglia, del lettino squallido, di quel tavolo orribile, della sua voce precisa, di quel tremito lievissimo quando gli aveva chiesto se avrebbe potuto continuare a giocare e lui aveva risposto “certo, certo”. Non aveva specificato per quanto.
Il secondo intervento – la sutura, stavolta, non era bastata; era arrivato il chiodo, piantato nella rotula per tenere immobile l’estremità di un tendine che non ne voleva sapere di restare al suo posto – era servito a poco. Aveva recuperato la mobilità dell’arto, aveva recuperato l’estensione quasi totalmente. Quasi. Altri sei mesi di fisioterapia l’avevano aiutato a recuperare almeno in parte il tono muscolare. Alla fine del trattamento, non zoppicava più. Il ginocchio faceva malissimo durante i cambi molto bruschi a livello meteorologico – l’aveva sempre ritenuta una favola; gli capitava spesso, nella vita, di non credere in una roba solo perché sembrava troppo surreale, troppo da film, per potere accadere a lui; e invece – ma stava bene. Poteva camminare. Poteva muoversi. Allenarsi, però, era un fottuto tormento.
Per i primi due mesi aveva provato a fingere che non stesse accadendo. Il mister lo teneva in panca, rifiutandosi di estrometterlo completamente dal gioco. Ogni tanto lo mandava in campo a cinque-dieci minuti dalla fine. “Vai, Dante, fai quello che puoi, non ti preoccupare,” gli diceva paziente. Indipendentemente da quanto poco giocasse, Dante usciva sempre dal campo col ginocchio in fiamme, gonfio come un pallone. Continuava a riempirsi di liquido.
“Possiamo procedere con un intervento esplorativo,” gli aveva detto Faglia, “Oppure possiamo drenare il liquido e lasciare perdere.”
Dante non aveva capito il significato di quelle parole. Di operarsi un’altra volta non aveva voglia neanche per un cazzo. Franco era d’accordo con lui, sarebbe stato ridicolo aprire un’altra volta il ginocchio solo per guardare cosa c’era dentro. Avevano drenato. La settimana successiva, dopo altri cinque minuti in campo, avevano dovuto drenare ancora. Il dottor Faglia aveva ripetuto le stesse parole, “possiamo drenare il liquido,” aveva detto, “e lasciar perdere.” Stavolta Dante aveva capito cosa intendeva.
Si erano seduti di fronte ad un cappuccino al bar del centro sportivo, lui e Franco. Nessuno dei due l’aveva toccato, era rimasto lì nella tazza a raffreddarsi mentre Dante diceva a Franco di non farcela più. Faceva troppo male per provarci ancora, e Faglia gli aveva praticamente detto in termini molto espliciti che, se insisteva, si preparava ad una vita di alternanza immediata fra cinque minuti di gioco e drenaggio del versamento di liquido al ginocchio. Così, per sempre, fino a quando il tendine avesse schioccato ancora, e l’avrebbe fatto. L’avrebbe fatto, che non si illudesse.
“Forse,” aveva detto Franco, la voce che tremava, “Forse è meglio se ti prendi una pausa, Dante.”
La pausa non si è più interrotta. Nessuno ha mai pensato il contrario. La parola era stata usata solo per non doverne usare un’altra più netta, più dolorosa, qualcosa tipo “è finita”. Ma Franco non si è mai aspettato di vederlo tornare in campo. Dante, dopo un po’, ha smesso di volerlo.
Lo chiama ancora, ogni tanto, Franco. Spesso durante le feste, o il giorno del suo compleanno. Da cinque anni, Dante ha smesso di rispondere.
Ha scelto questo paese, questo posto minuscolo con più aranci e mandarini che persone, perché era silenzioso, perché era lontano da ogni cosa, perché la casa sulla collina era isolata abbastanza da consentirgli una vita tranquilla, modesta, solitaria. Era tutto quello che voleva. I ragazzini di ieri l’hanno messo di cattivo umore. Specie quello che si è trattenuto, che ha bussato alla porta, che ha suonato il campanello. Roba surreale, metterti a suonare al campanello di uno sconosciuto. Cazzo c’avrai da suonare.
Lacerazione traumatica totale del tendine rotuleo del ginocchio destro. Oggi le parole lo perseguitano. (Le parole, la voce del dottor Faglia, la rigidità di Franco, quel tavolo orrendo.)
Si alza dal divano sul quale è rimasto a vegetare da quando s’è alzato dal letto stamattina alle undici. L’assenza totale e prolungata di appuntamenti giornalieri gli ha sballato l’orologio biologico. Quando giocava non avrebbe mai potuto permettersi di svegliarsi più tardi delle otto, anche nei giorni di pausa. Aveva dei ritmi molto precisi, la sua giornata era divisa in fasce orarie piene di appuntamenti che doveva seguire pedissequamente. Allenamenti, visite, altri allenamenti, potenziamento in palestra, ancora allenamenti, partite, interviste, riposo, ripetere da capo fino a esaurimento. Da quando vive lì non ha più appuntamenti, non ha tabelle da seguire, non ha niente da fare. Si sveglia quando vuole, mangia quando vuole, dorme quando vuole, esce quando vuole, sempre molto poco. È una vita assolutamente vuota, e molto semplice.
Saranno almeno le tre, e il caffè che ha preso appena sveglio gli si agita nello stomaco, bruciando come l’alito di un fottuto drago. Deve mandare giù qualcosa.
Oggi non piove, e il ginocchio non fa molto male. Fatica a contrarsi dopo l’immobilità assoluta delle ultime ore, ma basta muoverlo un po’ per aiutarlo a riscaldarsi. Quando il tendine si scalda smette subito di fare male. È l’unico motivo per cui continua a correre ed a concedersi qualche passeggiata ai margini degli agrumeti. Della forma fisica non gli interessa più granché, ma quando il ginocchio fa i capricci alle volte una corsetta è tutto quello che gli serve per calmarsi e smettere di fare male. Dante non sopporta il dolore.
La depressione del frigorifero riflette senza pietà la sua stessa depressione. Sul primo ripiano ci sono un paio di arance prese da terra durante una delle sue ultime corse, il secondo è vuoto, sul terzo c’è un rotolo di pasta sfoglia confezionata che non ricorda di avere comprato e del quale non riesce nemmeno ad immaginare l’utilizzo. Sono finite le uova, non ci sono salumi, sa di non avere pane in casa. C’è una bottiglia di latte in basso, ma non riesce a ricordare se sia piena o vuota, né da quando sia lì.
Gli tocca scendere in paese e fare la spesa.
Che palle lavarsi, pensa lavandosi i denti, e che palle cambiarsi, pensa lanciando la maglietta e i pantaloni del pigiama ai piedi del letto e afferrando il primo paio di jeans e la prima maglia che gli capitano sottomano. Un paio di infradito, recupera il portafogli abbandonato sulla consolle all’ingresso ed apre la porta.
Cade addosso al ragazzino, e poi, insieme, cadono nella pozzanghera fangosa che si allarga a due passi da lì.
*
Francesco l’ha sempre voluta, una storia da film. Il paese in cui vive è piccolo, abitato quasi esclusivamente da vecchi e bambini. I ragazzi, in genere, scappano appena finiscono la scuola. Come suo fratello Ivan, che è andato a fare l’università a Roma.
Le uniche famiglie che vivono lì sono quelle che possiedono qualche appezzamento di terra nella zona degli agrumeti, ma non sono tante. Molte di esse, anche possedendo gli agrumeti, vivono in città, o in qualche paese nei dintorni, come quello in cui si trova il liceo che Francesco frequenta, a mezz’ora di pullman da lì, ed a raccogliere la frutta mandano solo gli operai.
La famiglia di Francesco ha un pezzo di terra piccolino dietro casa. Crescono solo arance rosse, sono specializzati. Come centinaia di altre famiglie nei dintorni, naturalmente, ma loro sono fortunati abbastanza da possedere un cugino da parte di mamma che ha aperto un negozio bio in città, una quindicina d’anni fa, quando la parola stessa non aveva ancora nessun significato per gli abitanti del luogo. Il negozio del cugino di mamma è uno dei più importanti della zona, adesso, e le arance rosse le prende solo da loro. Si sopravvive così, in bilico fra le tasse da pagare per tenersi la terra e quello che rimane dalle vendite per pagare tutto il resto.
È una vita che Francesco odia. Le arance gli fanno schifo. Tutti gli agrumi gli fanno schifo. È cresciuto col loro odore aspro fisso nelle narici fin da quando era un poppante, e tutto quello che vuole nella vita è andarsene da lì, fare quanto di più distante ci sia dal lavoro dei suoi genitori, smettere di preoccuparsi per i soldi, smettere di dover prendere un fottuto pullman e cambiare paese per andare a scuola e smettere di dover poi tornare nel suo quando suona la campanella. Non c’è niente, in quel posto. Non solo non c’è niente per lui, ma non c’è niente in generale.
Ha sognato un’avventura da film fin da quando è stato abbastanza grande da poter cominciare a capire la noia. La televisione e il computer non gli sono mai bastati, come intrattenimento. Tamponano la noia per qualche istante, ma Francesco è un iperattivo, non riesce a stare fermo per più di mezz’ora, quaranta minuti a volta. Ha bisogno di fare cose, di muoversi, di vedere gente e parlare e toccare le persone. Ha bisogno di sentire qualcosa, le mani che prudono, l’affaticamento nei muscoli quando corre, il sapore degli altri, la consistenza della loro pelle sotto le dita.
Mirko è conveniente, in questo senso. Gli vuole bene, ovviamente, è il suo migliore amico, si conoscono da quando erano bambini, non potrebbe mai pensare di affrontare una giornata senza di lui, ma il bisogno che ha di mettergli le mani addosso, baciarlo, toccarlo ovunque, non è dall’amore che viene questa spinta. L’affetto che prova per Mirko e l’attrazione che lo spinge a limonarlo sono due forze distinte che sopravvivono separatamente dentro di lui, e la seconda esiste quasi esclusivamente perché, quando non sta facendo niente, Francesco si sente impazzire. Ha bisogno di tenersi impegnato per dimenticare dove si trova, e che dopo quest’anno gliene serve ancora almeno un altro per prendere il diploma – sempre che non lo boccino, naturalmente. Non è una consapevolezza che riesce a gestire senza sentire il bisogno di mettersi a correre e urlare, e siccome non sono cose che può fare risolve tenendosi impegnato costantemente. Non esiste un momento della giornata in cui Francesco non sta facendo qualcosa.
L’estate è il periodo peggiore, da quelle parti, ovviamente. A parte il caldo asfissiante, a parte l’odore insopportabile, non c’è mai niente da fare. Dalla mattina alla sera non si può che aspettare quel paio d’ore in cui puoi scappare a mare prima di dover tornare a casa, o quel paio d’ore che riesci a passare al campetto di calcio, naturalmente se non fa caldo al punto da sentirti svenire appena cominci a muoverti. Non c’è scuola, non ci sono compiti, non ci sono posti dove andare, non c’è niente da fare, e Francesco si sente impazzire alla sola idea.
Per questo ha accolto con particolare entusiasmo la scoperta dell’uomo nella casa in collina. È molto facile, per lui, prendersi bene con qualcosa di nuovo, è un po’ la modalità standard con cui affronta ogni cosa, ed in genere in questo periodo dell’anno trovare qualcosa di nuovo con cui intrattenersi durante l’estate è l’unica cosa a cui pensa. È cominciata così, con Mirko. È cominciata così anche col calcio.
In famiglia è suo fratello maggiore, il tifoso. I suoi genitori non saprebbero distinguere una squadra dall’altra neanche per sbaglio. Non sono grandi appassionati di sport in generale e non guardano neanche granché la tv, ma Ivan, be’, Ivan naturalmente era tutta un’altra storia. I suoi amichetti a scuola erano tifosi, e perciò lui ne aveva assorbito la passione, diventando ben presto una piccola enciclopedia calcistica. Francesco era poco più che un moccioso, ai tempi, ma dal momento che anche Ivan era costretto a tornare a casa al paesino, proprio come lui adesso, potevano solo tenersi compagnia a vicenda, e spesso il tempo lo passavano così, parlando di calcio. Ivan insegnava a Francesco tutto quello che sapeva, Francesco assorbiva le nozioni come una spugna perché gli piaceva che suo fratello maggiore avesse di lui una considerazione così alta da coinvolgerlo nei propri hobby, e in men che non si dica anche Francesco era diventato un’autorità in materia. Lui ed Ivan non parlavano d’altro, e quando non stavano parlando di calcio stavano giocando a calcio, e quando non stavano facendo nessuna delle due cose stavano certamente guardando una partita.
Il calciatore preferito di Francesco era sempre stato Dante Baroni. Era molto piccolo, quando giocava, non doveva avere più di cinque o sei anni, ma la sua vicenda aveva coinvolto praticamente tutta l’Italia, e lui l’aveva seguita con tutta l’apprensione e l’interesse che un bambino di quell’età può dimostrare verso qualcosa che arriva all’improvviso a distruggere tutte le sue certezze. Fino a quel momento, tutti i calciatori di cui Ivan gli aveva sempre parlato erano sembrati ai suoi occhi come dei superuomini, giganti fortissimi, invincibili e infaticabili, immuni a qualsiasi malattia, a qualsiasi tipo di infortunio. Se anche capitava che qualcuno si facesse male, anche dopo voli di qualche metro o di impatti fra giocatori che, Francesco lo sapeva, avrebbero messo una qualsiasi persona normale a tappeto, i calciatori si rialzavano sempre. Avevano solo bisogno di uscire dal campo, di un breve massaggio e magari di un po’ di ghiaccio spray spruzzato sulla zona dolorante, ed eccoli tornare immediatamente in azione. Per gli infortuni più gravi bastavano un paio di settimane di riposo. E tutti, invariabilmente, ad un certo punto tornavano indietro forti esattamente come prima, alle volte perfino ancora più forti di prima.
Spesso fantasticava su quanto meraviglioso sarebbe stato diventare a propria volta uno di loro. Forse sarebbe bastato entrare a far parte di quel mondo per diventare invincibile allo stesso modo. Diventare un supereroe la cui faccia sarebbe sempre stata in televisione, che non avrebbe mai dovuto preoccuparsi dei soldi per arrivare a fine mese, che non avrebbe mai dovuto passare interi pomeriggi ad annoiarsi in uno stupido paesino come quello, con l’odore delle arance tanto in profondità nel naso da non riuscire a sentirne nessun altro.
La vicenda di Dante aveva cambiato tutto questo. Francesco non aveva smesso di voler diventare un calciatore, ma aveva capito, nel modo più doloroso possibile, che non c’era niente di invincibile in quel popolo di semidei dalla pelle abbronzata e luccicante di sudore che correva da un lato all’altro del televisore durante ogni partita. Che potevano essere diversi da tutti gli altri, ma non erano immortali, non erano intoccabili.
Dante si era fatto male durante una partita, l’entrata del difensore avversario sul ginocchio l’aveva mandato lungo disteso per terra e Dante non era più riuscito a rimettersi in piedi. Il replay aveva mostrato a Francesco il dettaglio dell’azione, e Francesco non sapeva si potesse provare dolore per procura, ma ne aveva provato nell’osservare il ginocchio di Dante muoversi in maniera innaturale, prima di abbandonarlo del tutto.
Francesco aveva seguito con attenzione le vicende dei mesi successivi, trattenendo il fiato con ogni bollettino dal centro sportivo. Intenerito, Ivan gli scompigliava i capelli. “Non preoccuparti,” gli diceva, “Vedrai che si rimette, è troppo bravo per mollare.”
Era successo comunque, però. E Dante si era ritirato a vita privata immediatamente dopo il secondo infortunio. Francesco non ne aveva più sentito parlare.
Trovarselo di fronte adesso è straniante, prima ancora che strano. Lo guarda e lo riconosce, perché Dante è cambiato pochissimo, e non può fare a meno di chiedersi come sia possibile che sia lì. Da film, si dice.
Dante non si accorge subito di lui, o forse semplicemente non si aspetta di trovarlo lì, e gli cade addosso. Finiscono entrambi a bagno nella pozzanghera appena dietro di loro, e Francesco lo pensa di nuovo. Da film. Troppo assurdo per essere vero. Eppure.
*
Il dolore si scatena sottopelle nel momento esatto in cui Dante sbatte il ginocchio per terra. Per un istante la scossa è talmente intensa e profonda che gli sembra di riuscire a sentire ogni singolo componente della gamba, ogni frammento di osso, ogni tendine, ogni legamento, ogni fascia muscolare, ogni cartilagine, perfino il chiodo, ogni nervo ed ogni capillare, e tutte queste parti, ognuna di esse, fa un male fottuto. Da ognuna di queste parti si scatena una scintilla di dolore purissimo che cola come le gocce sul vetro della finestra quando piove, gonfiandosi sempre di più, fino a esplodere.
Paralizzato dal dolore, Dante resta immobile, ed anche quando comincia a sfumare, quando gli sembra di riuscire finalmente a pensare ad altro che non sia semplicemente la voglia di urlare, resta comunque fermo, congelato, in attesa dello schiocco. Perché deve arrivare, si dice. Ne è certo. Il tendine. Lo sentirà schioccare.
Non succede, invece. Passano un paio di minuti in cui il ragazzino contro cui si è scontrato resta perfettamente immobile sotto di lui, a mollo nella pozzanghera fangosa, e lo guarda in faccia con gli occhi spalancati, come se non riuscisse a dare un senso alla sua presenza, e Dante resta lì, congelato in un istante che il terrore prolunga all’infinito, le mani piantate nell’acqua ai lati del corpo, le ginocchia piegate e rigide, la sensazione spiacevole dell’umidità dell’acqua e della viscosità del fango che si fanno strada dentro di lui, dandogli i brividi dal disgusto, in attesa di quel dolore acuto che ricorda ancora troppo bene e che è certo arriverà e invece non arriva affatto.
Quando se ne rende conto, il suo intero corpo scatta come una molla. Si tira in piedi, guardando in basso al ragazzino che, pur restando sdraiato per terra, si solleva sui gomiti, e continua a guardarlo sconcertato.
- Chi cazzo sei?! – gli urla.
Il ragazzino non risponde. Bisbiglia il cognome di Dante e spalanca gli occhi ancora di più, come se pronunciare quelle poche lettere rendesse la sua presenza ancora più concreta.
Dante rilascia un ringhio frustrato, passandosi una mano fra i capelli per scostarne le ciocche troppo lunghe dal viso e poi ringhiando ancora quando si rende conto di essersi insudiciato tutto.
- Fanculo… - grugnisce irritato. Poi torna a guardare il ragazzino. – Che cazzo vuoi? – dice, - Sei tu, vero? Quello che rompeva il cazzo ieri.
- Scusa! – si affretta a rispondere lui, saltando in piedi e recuperando il controllo su se stesso, almeno in apparenza, - Non volevo darti fastidio!
- No? – ribatte Dante, - E che cazzo volevi farmi, piacere? Entrando con l’amico tuo nella mia proprietà e poi mettendoti a spiarmi fino in casa? E bussando alla porta? E poi che cazzo ci fai qui, da quanto tempo mi stai aspettando?
- Ho pensato che se avessi suonato non saresti uscito. – risponde lui a mo’ di giustificazione.
- E avevi ragione, infatti! – urla Dante, allargando le braccia ai lati del corpo, - Cos’è, non ti sono chiari i segnali? Hai bisogno di sentirti dire esplicitamente le cose?
Il ragazzino lo fissa con gli occhi sgranati per qualche istante.
- In genere sì. – risponde poi con estrema semplicità.
Dante stringe i pugni lungo i fianchi, cercando di trattenere l’impulso di prenderlo a cazzotti per fargli passare la voglia di scherzare tutta assieme. “È un ragazzino,” si dice, “Farebbe più male a me che a lui”. Sarebbe anche molto soddisfacente, sul momento, ma non ne varrebbe la pena. Dante lo sa. E cerca di calmarsi.
- Allora te lo dico esplicitamente. – riprende, - Levati dal cazzo e non tornare più. E se ti azzardi a dire a qualcuno chi sono e che sto qui, giuro che ti denuncio. Sono stato chiaro?
Per un lungo istante, il ragazzino non dice niente. Resta immobile a guardarlo con la faccia più perfettamente stupida che Dante abbia mai visto, e lo fa tanto a lungo che lui è tentato di andargli vicino, scuoterlo forte per le spalle e chiedergli se c’è ancora o meno.
È il ragazzino ad avvicinarsi per primo, però. Lo fa in passi piccoli e brevi, come avesse paura di farlo fuggire avvicinandosi troppo velocemente.
Quando è a pochi centimetri da lui, guarda in alto, cercando i suoi occhi, e poi parla.
- Posso entrare? – domanda.
Dante lo manda a fanculo fra i denti, rientra in casa e si richiude la porta alle spalle. Con tre giri di chiave, e il ferro.
*
Mirko se lo vede spuntare sulla soglia di camera propria, tutto gocciolante, sporco di fango e rosso in viso come avesse corso per ore prima di arrivare.
- Ma che cazzo? – domanda, lasciando a metà il nodo della scarpa e guardandolo allarmato, - Che è successo?
- Mirko. – dice Francesco, la voce che gli trema, - Non puoi capire.
Mirko inarca un sopracciglio, tornando ad allacciarsi la scarpa. Quasi sempre, quando Francesco dice robe simili poi si dimostrano essere vere. Il fatto è che è proprio così, la maggior parte delle persone – delle persone normali, s’intende – non può capire le emozioni di Francesco, o quello che gli passa per la testa, perché usualmente sono cose che fanno impazzire solo lui nel mondo. È in grado di emozionarsi fino alla tachicardia per cose ridicole, di interessarsi quasi fino all’ossessione a particolari insignificanti, e – quel che è peggio – spesso riesce anche a trascinare chiunque gli stia intorno in una sorta di delirio in crescendo continuato, fino a quando le cose poi non esplodono lasciando tutti storditi e confusi a chiedersi perché mai l’abbiano seguito fin dall’inizio. È successa la stessa cosa un paio di estati fa, quando Francesco s’è messo in testa di costruire un campetto di calcio a cinque su una porzione di terra talmente esausta che tutti gli alberi che vi erano stati piantati sopra erano morti. Alla fine di luglio, con la schiena spezzata, le mani ridotte a brandelli e un campetto tutto storto, i ragazzi si erano guardati in faccia e si erano detti che il caldo doveva aver dato loro alla testa. Non c’era altra spiegazione possibile. (Ma Mirko lo sapeva, c’era un’altra spiegazione possibile. Francesco era l’unica altra spiegazione possibile.)
- Okay. – risponde quindi, - Neanche ci provo, allora. Ma tu stai pensando di venire a giocare conciato così? – gli domanda invece, sollevandosi in piedi e picchiando un paio di volte la punta delle scarpe da tennis contro il pavimento per far scivolare il piede in avanti, - Va be’ che fa caldo, ma ti prenderai la polmonite comunque, stasera.
- Ma che polmonite! – sbotta Francesco, entrando in camera e sedendosi sul suo letto senza troppe cerimonie.
- No, Fra’, eddai! – strilla Mirko, afferrandolo per entrambe le braccia e cercando di tirarlo in piedi, - Ma che cazzo, sei coperto di fango dalla testa ai piedi! Alzati!
- Che differenza fa se mi alzo? – domanda Francesco, scrollando le spalle, - Ormai mi sono seduto.
- Sì, bella merda. – sbuffa lui, lasciando perdere e sedendosi accanto a lui, - Dovrò cambiare le lenzuola.
- Minchia, e che dramma sarà? – Francesco rotea gli occhi, irritato. – Tu non capisco cosa mi è appena successo.
- E dimmelo. – sospira Mirko, - Che tanto muori dalla voglia.
- Ho scoperto chi vive dentro la casa in collina. – dice lui velocemente, perché è vero che moriva dalla voglia, - Ieri ho provato a farmi aprire ma non ci sono riuscito, perciò oggi dopo la scuola sono tornato lassù, ho scavalcato la rete e mi sono messo ad aspettare che venisse fuori. Tanto prima o poi doveva farlo, ho pensato. E infatti è uscito.
- Wow, Fra’, che cosa interessante mi stai raccontando. – Mirko incrocia le braccia sul petto, - Sei meglio del Topolino.
- E tu sei uno stronzo. – risponde Francesco. Poi lo afferra per le spalle, tenendolo fermo. – Ci vive Dante Baroni, in quella casa.
Mirko aggrotta le sopracciglia, guardandolo negli occhi. Schiude le labbra, e poi risponde.
- Chi?
- Mirko! – lo rimprovera Francesco, quasi personalmente offeso dalla sua ignoranza, - Non te lo ricordi? Era un calciatore famosissimo una decina d’anni fa.
- Cioè vuoi dire nel secolo scorso, praticamente. – inarca un sopracciglio Mirko, - Come faccio a ricordarmelo? Ero piccolo. Che me ne fregava del calcio?
- Be’, io me lo ricordo, ed avevo la tua stessa età. – protesta Francesco.
- Sì. Avevi la mia stessa età e un fratello maggiore invece delle mie tre sorelle maggiori. Fatti una domanda, datti una risposta. – conclude Mirko con una scrollata di spalle. – Comunque, allora? Hai scoperto chi c’è lassù. Contento adesso? Possiamo fare altro nella vita? Si è risolta troppo presto per essere la piaga che ci porteremo dietro per tutta l’estate, fortunatamente.
- Ma stai scherzando? – domanda Francesco, spalancando gli occhi, - Non si è risolto proprio un bel niente! Io voglio parlarci. Voglio capire perché è finito a vivere qui da solo.
- Ma che ne sai che è da solo? – aggrotta le sopracciglia Mirko, - Magari è sposato e lui e la moglie vivono insieme, non è che siccome tu non l’hai vista…
- No, senti, nessun uomo sposato uscirebbe mai di casa da solo con le infradito ai piedi. – risponde Francesco, scuotendo il capo.
Mirko lo fissa a lungo, sbattendo le palpebre.
- Ma che cazzo vuol dire? – domanda, e poi si alza in piedi, - Basta, mi sono rotto. Non me ne frega niente di un calciatore che s’è ritirato mille anni fa, specie se ha deciso di finire i suoi giorni in eremitaggio nel profondo Sud. Magari semplicemente non vuole rotto il cazzo, Fra’, ecco perché vive qui. C’hai pensato?
Francesco abbassa lo sguardo, aggrottando le sopracciglia con aria palesemente insoddisfatta.
- Non m’importa. – stabilisce quindi, - Io ci ritorno.
- E ci ritornerai da solo. – conclude Mirko, tagliente. Si china a recuperare il borsone da terra e lo solleva in spalla. – Quando hai finito di fare il coglione, noi siamo al campetto a giocare.
Esce senza voltarsi indietro, lasciandolo lì seduto sul letto in camera propria come fosse la sua. Tanto per Francesco i pronomi possessivi non hanno alcun significato.
*
Lo sente atterrare con un tonfo all’interno del cortile dopo averlo sentito scalare rumorosamente la rete metallica, quasi vantandosi della propria arroganza nell’ignorare una sua richiesta esplicita anche dopo una minaccia che avrebbe dovuto tenere lontano chiunque, anche uno stupido ragazzino come lui. Dante si sente ribollire di rabbia, una sorta di fastidio epidermico amplificato al punto da rendergli impossibile stare fermo, perciò si alza dal divano e, zoppicando un po’, arranca fino alla porta, spalancandola. Trova il ragazzino già lì, con un dito alzato, pronto a suonare il campanello.
- Forse non sono stato chiaro. – dice a bassa voce.
- Mi chiamo Francesco. – risponde il ragazzino senza neanche starlo a sentire, - Posso entrare?
- No, non puoi. – ribatte Dante a muso duro, stringendo una mano attorno alla porta e l’altra attorno allo stipite, sbarrandogli la strada. – Puoi andartene con le buone, oppure posso chiamare la polizia e posso farti andare via con le cattive.
- Per favore, non chiamare la polizia. – risponde lui, con voce un po’ lamentosa, - Posso entrare?
- Ma cosa vuoi entrare a fare?! – urla Dante, - No, non puoi! Vai via!
- Ma perché? – insiste Francesco, muovendosi di un passo verso di lui, - Ormai lo so che stai qui. Cos’altro hai da nascondere?
- Non ho niente da nascondere e non è questo il punto! – risponde Dante, indietreggiando appena ma stando attento a continuare ad occupare l’ingresso abbastanza da non lasciare al ragazzino alcuno spiraglio per passare.
- E allora qual è? – insiste lui, incrociando le braccia sul petto e inclinando in capo. Poi sospira. – Senti, sono tutto bagnato e comincio ad avere freddo. Se mi prendo qualcosa, sarà colpa tua. Non posso entrare solo un attimo? Mi asciugo, e se mi presti qualcosa da mettere…
- Ma stai scherzando?! – strilla Dante, - Secondo te sono scemo, che ti faccio entrare in casa mia? Non ti conosco nemmeno!
- Ti ho detto che mi chiamo Francesco. – risponde lui, piegando le labbra in un broncio offeso.
- Per quello che ne so, potrebbe essere un nome falso. – ribatte Dante.
Francesco spalanca gli occhi e lo fissa, stupito.
- Perché dovrei darti un nome falso? Ma dico, ma per chi mi hai preso? Vivo qui! I miei stanno in via dei Pini al numero settantasei! Cos’è, vuoi il documento? – infila la mano nella tasca posteriore dei jeans, tirandone fuori uno di quei portafogli di tela della Invicta con la chiusura in velcro, da ragazzino. Lo apre in un gesto brusco, estraendo la carta d’identità ancora nuova nuova ma tutta arricciata agli angoli per quant’è bagnata, e la spinge in avanti, verso di lui, bene aperta così che possa leggere il suo nome, guardare la sua fotografia, verificare l’indirizzo. – Allora? Posso entrare adesso?
Dante lo guarda con gli occhi sgranati, chiedendosi se faccia sul serio. Forse dice la verità. Sembra davvero troppo stupido per mentire.
- Come faccio a sapere che non è un documento falso…? – chiede a mezza voce, ma si rende conto da solo dell’idiozia di una domanda simile. Tant’è che il ragazzino gli lancia un’occhiata incredula, conservando il documento e poi anche il portafogli.
- Mi sa che guardi troppi telefilm. – gli risponde, - Dove pensi che potrei andarmelo a procurare un documento falso in mezzo alle campagne?
Dante sospira. È stanco di stare in piedi, gli fa male il ginocchio. Potrebbe tranquillamente dire al ragazzino di togliersi di torno e sbattergli la porta in faccia, ma – quasi che il cielo ci tenga a prenderlo per il culo ad ogni occasione disponibile – nota i nuvoloni neri che si addensano intorno alle montagne vicine, e poi comincia a sentire la carezza gelata del vento carico di pioggia sulla pelle, e per il momento in cui comincia effettivamente a piovere, e il ragazzino si stringe in un abbraccio tremante mentre rabbrividisce mormorando “eddai, su!”, Dante sa che ha già ceduto. Ha già ceduto cinque minuti fa. Forse addirittura il giorno prima, ma non è un pensiero che gli vada di indagare, adesso.
Sente il primo tuono rimbombare nell’aria. L’eco sbatte contro le montagne e gli torna indietro come il ruggito di una bestia pronta ad attaccare.
Si fa da parte, e Francesco entra in casa sua, sorridendo soddisfatto.
*
- Stai solo dieci minuti. – dice, cercando di mostrarsi rigido, severo e inamovibile, - Il tempo di asciugarti e di metterti addosso qualcosa di caldo e te ne vai.
Francesco passeggia per il soggiorno, esaminando ogni angolo della stanza e soffermandosi su ogni soprammobile, sollevandolo dal punto in cui si trova e poi rimettendolo giù sempre qualche centimetro più in là rispetto a dov’era quando l’ha preso, e sempre in una posizione differente. È insopportabile.
- Se mi fai asciugare e mi dai qualcosa di caldo e poi mi mandi fuori sotto il diluvio universale, mi spieghi a cosa sarà servito asciugarmi e darmi qualcosa di caldo, tanto per cominciare? – domanda, sollevando un vecchio piatto d’argento che Dante crede di non aver mai lucidato in vita propria.
- … va bene. – si arrende, - Ti asciughi, metti addosso qualcosa di caldo, aspetti che smetta di piovere e poi te ne vai. Meglio così?
Francesco sorride sornione, tirando su un gatto di vetro colorato che solleva una zampa.
- Sì. – risponde, mettendolo giù col muso rivolto verso la finestra, mentre prima stava col muso rivolto al televisore.
- Ragazzino, se non la smetti di toccare tutto ti giuro che da questa casa ci esci con le dita rotte. – lo minaccia in un ringhio basso. Al quale Francesco risponde con una risata.
- Sì? – domanda divertito, - Come dovevi chiamare la polizia per farmi andare via con le cattive?
- Stai cercando di farmi pentire della mia cortesia? – domanda Dante, aggrottando le sopracciglia, e Francesco ride ancora, voltandosi a guardarlo.
- Scusa. – dice, stringendosi nelle spalle, - Sono un po’ un rompipalle.
- Maddai. – sbuffa Dante, - Non l’avrei mai detto.
- Vero? – ride Francesco, - Mirko dice che lo faccio apposta, ma non è vero. È solo il mio modo di essere. Prendo in giro le persone. Ma non lo faccio con cattiveria.
- Immagino che questo risolva tutto, allora, se non lo fai con cattiveria. – borbotta Dante, tirando fuori le tazze ormai bollenti dal microonde e sollevandosi a recuperare le bustine di tè dallo stipetto sopra il ripiano della cucina, - Chi è Mirko, comunque? Il ragazzino che era con te ieri?
- Il ragazzino che è con me sempre. – risponde Francesco, entrando in cucina e sedendosi a tavola senza aspettare di essere invitato a farlo.
- Però oggi non c’è. – nota Dante, posando le tazze e tenendo le bustine in infusione per qualche minuto.
- No, oggi no. – Francesco sorride arricciando appena l’angolo della bocca e piegando lievemente il capo a destra. Per qualche motivo, il gesto costringe Dante a distogliere lo sguardo.
- Be’, chi è, comunque? – domanda, mentre strizza le bustine prima di gettarle nella pattumiera.
- Il mio migliore amico. – risponde subito Francesco, sollevandosi in ginocchio sulla sedia ed allungandosi a prendere la tazza di tè bollente che Dante gli porge.
- Ah. – sogghigna Dante, - Si chiamano così, adesso?
Francesco aggrotta le sopracciglia, incerto.
- Che vuol dire?
Dante scrolla le spalle, recuperando il barattolo dello zucchero e porgendoglielo assieme ad un cucchiaino, prima di raggiungere il frigorifero e tirarne fuori la bottiglia del latte. Ne annusa prudentemente il contenuto. Sembra ancora commestibile.
- Be’, vi stavate baciando. – risponde, versandone un po’ nel tè.
Francesco ride divertito, accucciandosi sulla sedia e zuccherando il proprio, prima di cominciare a sorseggiarlo piano, le guance che riprendono colore man mano che il calore della bevanda si diffonde dentro di lui.
- Ma sei serio? – lo prende in giro, - Da che anno vieni, dall’800? Non è il mio ragazzo, se è questo che stai insinuando.
- Ma io non insinuo. – ride a propria volta Dante, appoggiandosi allo sportello chiuso del frigorifero per tornare a guardarlo, - Io vi ho visti. Ai miei tempi quelle robe lì le facevi con la tua ragazza. O col tuo ragazzo, uguale.
- E invece io lo faccio col mio migliore amico. – ride Francesco, sedendosi più compostamente, - Qualche problema?
- No, figurati. – Dante sospira, scuotendo il capo, - E poi non è che me ne freghi qualcosa. Basta che smettete di farlo sulla mia proprietà.
- Oh, con questa proprietà… - sbuffa il ragazzino, - Ma che problema c’è? Non ti abbiamo mica rubato niente. Pioveva, tu hai una pensilina, noi volevamo limonare, era il posto perfetto.
- Non ce l’avete una casa dove fare queste robe? – chiede Dante, incapace di smettere di sorridere. A parte il fatto che si tratta della prima conversazione che intrattiene con qualcuno in almeno un paio di mesi, il contenuto stesso della conversazione è talmente ridicolo che non può fare a meno di farlo.
- Sì, però che palle limonare in casa. – risponde Francesco, facendo una smorfia, - Non siamo mica fidanzati. Dai, seriamente. Che senso ha?
- Ha sicuramente più senso di qualsiasi cosa tu mi abbia detto nell’ultima mezz’ora. – ride Dante, divertito, gettando indietro il capo.
Francesco si irrigidisce sulla sedia, il sorriso che si allarga impercettibilmente mentre le guance gli si colorano di un rosso un po’ più vivo. Dante non lo vede stringere le gambe in uno spasmo involontario, e poi restare lì così, tutto teso, con gli occhi che scintillano, gli incisivi che affondano appena nel labbro inferiore. Non nota il cambiamento, ma dovrebbe.
- Vado a prenderti qualcosa di asciutto. – dice invece, uscendo dalla cucina ed attraversando il corridoio, diretto verso la camera da letto, - Tu finisci il tuo tè.
Quando torna, trova Francesco in piedi. Stringe la tazza in una mano, il pollice bene ancorato attorno al manico per non rischiare di lasciarla cadere, ed ha ripreso la sua esplorazione dell’ambiente, stavolta della cucina.
- Di’ un po’, - chiede, - Ma questo cesto di frutta di plastica ce l’hai perché ti piace davvero? O quel piatto e quel gatto, di là… - aggiunge, indicando il salotto con un cenno del capo, - Voglio dire, sono sul serio questi i tuoi gusti? No, perché nel caso, sono agghiaccianti.
Dante ride, posando sulla sedia un paio di pantaloni di una vecchia tuta rimasta senza felpa ed una maglietta di cotone leggero a maniche lunghe.
- Quasi niente di quello che c’è qua dentro è mio. – risponde, - La casa era già arredata, quando l’ho presa.
- Sul serio? – domanda Francesco, spalancando gli occhi, - E di chi era prima?
- Due tizi ultranovantenni. – risponde lui, recuperando la propria tazza ormai tiepida dal tavolo e riprendendo a bere il tè, - Erano morti entrambi a distanza di due mesi l’uno dall’altra, e un pronipote o qualcosa del genere stava cercando di disfarsene. Quando l’ho comprata mi ha detto che lo sgombero sarebbe stato a mie spese, ma tanto valeva tenersi tutto, no? – scrolla le spalle, - Sarebbe stata una rottura dovere andare in giro per ridecorarla da capo. Chi se ne frega, poi. Un letto è un letto.
- Sono d’accordo. – annuisce Francesco. Manda giù l’ultimo sorso di tè e poi posa la tazza nel lavandino, lasciandovi scorrere dentro un po’ d’acqua. Poi si avvicina ai vestiti appoggiati sullo schienale della sedia, sfiorandoli con una mano. – Sono tuoi, questi?
- No, sono di uno dei due vecchi anche loro, come i mobili. – ride Dante.
- Dico sul serio! – sbotta Francesco, e Dante ride ancora.
- Sono miei. – risponde, - Dovrebbero starti. Puoi andare in bagno a cambiarti, o anche in camera mia, se vuoi. È in fondo al corridoio.
- E perché? – domanda Francesco, inclinando il capo, - Sei un ex calciatore. Ci sarai abituato alla gente che ti si spoglia davanti. – conclude con una scrollata di spalle. Dopodiché sfila i pantaloni, lasciandoli ricadere in un mucchietto umido, infangato e scomposto ai propri piedi, e fa lo stesso con la maglietta. Resta in mutande solo per qualche secondo, giusto il tempo di spiegare i pantaloni asciutti e scuoterli un po’, prima di indossarli lì in piedi per com’è.
- Non hai nessun pudore, tu, vero? – chiede Dante con un sorriso ironico, - Ti ho capito, sai?
Francesco ride divertito, infilando anche la maglietta.
- Non quando non serve a niente, no. – risponde, - E per la maggior parte del tempo non serve a niente.
- Certo. – sorride ancora Dante, - L’ho notata, sai?
- Cosa? – Francesco ride sotto i baffi, perché conosce già la risposta.
- La stella, ovviamente. – ride Dante, e Francesco gli fa eco subito dopo.
- Bella, vero?
- Ridicola. – risponde lui, - Come tutti i tatuaggi.
- Ah, non rompere! – protesta Francesco, - Scommetto che ne hai diecimila addosso.
- Ne ho un po’. – ride Dante, - Ma questo vuol dire solo che se dico che sono ridicoli lo faccio con cognizione di causa.
Il sorriso di Francesco si fa appena più malizioso, quando si volta a guardarlo.
- Me li fai vedere? – domanda a bassa voce.
Dante scoppia a ridere, scuotendo il capo.
- Okay… sei rimasto abbastanza. – dice, - Infilati le scarpe e vai a casa.
- Ma fuori piove ancora… - gli fa notare il ragazzino in tono lamentoso.
Dante sospira, le mani sui fianchi, scuotendo il capo. Vorrebbe riuscire a smettere di sorridere. È tutto così stupido.
- Insomma, sono in trappola. – commenta.
Francesco sorride ancora, strizzando gli occhi come un gatto.
- Mi sa di sì.
Dante ride, voltandogli le spalle.
- Fai come se fossi a casa tua. – dice, zoppicando visibilmente verso il divano e poi lasciandovisi ricadere sopra con un sospiro di sollievo.
Francesco lo prende in parola, ed apre il frigorifero.
- Sì, be’, non così tanto. – precisa Dante, sollevandosi quel tanto che basta per potergli lanciare un’occhiata disapprovante da dietro la spalliera.
- Tanto non c’è niente da mangiare. – borbotta Francesco, deluso, - Ma in che condizioni vivi? Non lo sai che si deve mangiare almeno quattro volte al giorno, e che la dieta va bilanciata con molta frutta e verdura?
- Interessante. – inarca un sopracciglio Dante, - Dimmi, dimmi pure altre cose che già so.
- Be’, se le sai perché hai il frigorifero vuoto? – domanda il ragazzino, indicando i ripiani desolati.
- Stavo uscendo per fare la spesa, quando mi sei venuto addosso. – si giustifica lui, guardando altrove.
- Okay, ma io poi me ne sono andato. – ribatte Francesco, - Perché non sei più uscito?
La verità è che avrebbe dovuto, avrebbe anche voluto, ma non c’è riuscito. La sua vita, ormai da dieci anni, è un susseguirsi di azioni meccaniche il cui ripetersi automatico non può subire cambiamenti, né interruzioni. Il suo cervello non risponde bene, di fronte alle interruzioni. In genere, quando se ne presenta una, quello che fa è tornare in casa, chiudere la porta ed aspettare il giorno dopo per riprovare, ricominciando da capo. È cosciente di quanto malsana quest’abitudine sia, ma lo fa sentire al sicuro. Non è ancora pronto a rinunciarvi.
- Perché non mi andava. – risponde quindi, evasivo.
Francesco non la beve.
- Quindi saresti rimasto chiuso in casa senza niente da mangiare solo per questo? – domanda.
Dante gli sente chiudere lo sportello del frigorifero e muovere un paio di passi verso il divano. Stava meglio quando flirtavano, era ugualmente ridicolo ma almeno non doveva affrontare le domande insistenti di un ragazzino deciso a psicanalizzarlo senza avere i mezzi né tantomeno le autorizzazioni per farlo.
- Perché no? – risponde, scrollando le spalle, - Mi muovo poco. Quando uno si muove poco, non sente lo stimolo della fame.
- Non saprei. – ride Francesco. Dante si vede spuntare una delle sue lunghe gambe davanti, e quando solleva lo sguardo lo trova appollaiato in bilico sulla spalliera del divano, che si dondola sereno avanti e indietro, avanti e indietro. – Io non sto mai fermo.
- Non mi stupisce. – risponde Dante con un sospiro.
Restano in silenzio per qualche secondo e poi Francesco si lascia scivolare lungo la spalliera, giù verso la seduta, accucciandosi nell’angolo del divano opposto rispetto a quello nel quale sta mezzo sdraiato Dante. Lo guarda fisso negli occhi senza dire niente per un po’, e poi schiude le labbra.
- Fa molto male?
La sua voce bassa e seria, così diversa dal tono scherzoso che ha usato fino a pochi istanti fa, pizzica una corda da qualche parte nel petto di Dante. E lui vorrebbe poter dire che, vibrando, quella corda produce un suono gradevole, forse nostalgico, ma bello, ma non è così. È un suono abbozzato, difficoltoso, vecchio. Il suono che certe chitarre producono quando le tocchi per la prima volta dopo mesi e ti accorgi che si sono scordate da sole, per incuria.
- Ho notato che zoppichi. – aggiunge Francesco, guardando in basso.
- Non zoppico sempre. – si affretta a spiegare Dante, sfuggendo ai suoi occhi. – Fa solo un po’ male quando lo maltratto. O quando cambia bruscamente il tempo.
Francesco piega le labbra in un sorriso intenerito.
- Allora questi temporali improvvisi devi odiarli proprio. – dice.
- Non mi piacciono, no. – risponde Dante, asciutto.
Francesco non dice altro per un po’, e poi si solleva sulle ginocchia, scivolando più vicino.
- Posso vedere la cicatrice? – domanda.
- Morboso. – commenta Dante, stirando un sorriso innaturale e a disagio sulle labbra serrate.
- Un po’. – Francesco scrolla le spalle, - È che eri il mio calciatore preferito, quando ero piccolo. Ci sono rimasto di merda quando ti sei ritirato.
- Be’, mi dispiace. – risponde lui, poco impressionato.
- Non voglio che ti scusi. – insiste Francesco, - Voglio vedere la cicatrice.
Dante gli solleva gli occhi addosso, scrutando la sua espressione decisa con attenzione. Nel silenzio irreale della stanza, il rumore delle gocce di pioggia che ticchettano contro i vetri delle finestra è l’unica cosa che si riesca a sentire, e nella penombra che il cielo grigio di quel pomeriggio piovoso proietta dentro casa i tratti dei loro visi sono appena visibili. La luce bassa e il ripetersi continuo di quel suono lieve ma monotono, quasi martellante, rendono l’atmosfera irreale, ovattata. Forse è per questo che Dante non lo scaccia, che non gli dice di levarsi di torno e invece stende la gamba sul divano, a pochi centimetri da lui, e solleva i pantaloni della tuta fino a scoprire il ginocchio.
La cicatrice ne percorre la lunghezza dall’alto verso il basso, sul lato esterno, lievemente arrotondata per seguire la forma della rotula. Da entrambi i lati, Francesco può vedere ancora i punti di sutura. Allunga la mano, sfiorando la pelle più bianca con dita tremanti.
- Ha fatto molto male? – chiede piano, sentendone scorrere la grana più liscia sotto i polpastrelli.
- Ti sei mai rotto niente? – domanda Dante. Francesco scuote il capo. – Allora non potrei mai riuscire a fartelo capire. Quando il tendine salta, lo senti schioccare. È una sensazione molto precisa. Si stacca. E sì, fa molto male.
Francesco rabbrividisce visibilmente, poggiando il palmo della mano aperta sul ginocchio di Dante.
- È per questo che non sei più tornato a giocare? – domanda, - Faceva troppo male?
- Non sono più tornato a giocare perché non potevo più giocare, ragazzino. – risponde lui, tagliente, - Il dolore era del tutto irrilevante. – poi distoglie lo sguardo, arrabbiato con se stesso per essere scattato a quel modo. – Scusa, ma non mi va di parlarne.
- Lo capisco. – Francesco abbassa lo sguardo. Poi sorride un po’. – Ha smesso di piovere, senti?
Dante lo guarda. Vorrebbe chiedergli di andare via, adesso, ma non lo fa.
A chiedere qualcosa è Francesco, invece.
- Ti va di uscire? – domanda, arricciando le labbra in un sorriso divertito.
- Per niente. – ride Dante, scuotendo il capo.
Francesco salta giù dal divano e lo afferra per i polsi, tirandolo in piedi.
- Usciamo lo stesso. – insiste, trascinandolo con sé mentre indietreggia, - Andiamo a bere qualcosa in città. Conosco un posto dove possiamo farlo. Dai. Dai!
- Ma non mi va, Francesco. – protesta Dante, ma ride ancora, e lo segue, - E poi non ho niente da mettermi.
- Che ti frega, pioveva fino a due secondi fa, chi vuoi che ti veda? – si impunta Francesco. – Dai. Solo una birra.
- Sei minorenne, - gli ricorda Dante, - Non puoi bere birra.
Francesco non risponde, si limita a ridere.
- Non voglio nemmeno prenderla, la macchina… - si lagna Dante, fingendosi più scocciato di quanto in realtà non sia.
È vero che non vuole prenderla. È troppo vistosa, e poi è chiusa in garage da una vita, non sa nemmeno se funzioni ancora, sicuramente la batteria è andata, dovranno fare rifornimento, attireranno un sacco di attenzione e Dante non ne ha voglia.
Non ne ha voglia per niente. Ma lo fa.
*
Francesco lo porta in un piccolo bar defilato, non esattamente in centro, più dalle parti del porto. Parcheggiano lontano, perché non c’è un buco libero da nessuna parte, e poi si muovono a piedi, sotto la pioggia che ricomincia a cadere e fra le imprecazioni di Dante – “mi fa male il ginocchio”, “no che non ti fa male”, “sì invece”, “sei lagnoso come un bambino”, “grazie, eh”, “no, è carino”, “stai zitto, va’” – e Francesco lo prende in giro, e Dante gioca a fare l’offeso, ma Francesco ha ragione, o meglio, non ha completamente torto, perché il ginocchio fa male, ma non è uno di quei dolori insopportabili ai quali Dante si è abituato, no, è una puntura più lieve, una cosa che può sopportare meglio, come quando, dopo un lungo allenamento di ritorno dalle vacanze, sentiva i muscoli tirare, e il giorno dopo era così pieno di acido lattico da riuscire a stento a muoversi, ma era un dolore piacevole, di quelli che era valsa la pena procurarsi. Questa puntura sottile e insinuante che lo infastidisce mentre corre dietro a Francesco cercando di ripararsi sotto i balconi dei palazzi gli dà lo stesso tipo di sensazione. È la prima volta che esce a bere qualcosa con qualcuno da quando si è trasferito qui.
Il posto è semivuoto, quando arrivano.
- Che vita. – commenta Dante, scrollandosi i capelli bagnati.
- Non si riempirà più di così. – ride Francesco, tirandosi su le maniche della maglietta, lunghe abbastanza da coprirgli le mani se non le sistema ogni cinque minuti, - L’ho scelto apposta.
- No, l’hai scelto perché è l’unico posto dove puoi venire a chiedere una birra e c’è un cretino che te la dà. – dice il barista, dietro il bancone. Avrà poco più di una ventina d’anni, anche se il pizzetto biondo rende la sua età difficilmente definibile. – Lo sa tua madre che sei qua?
- No. – sorride Francesco, arrampicandosi su uno sgabello e poi sporgendosi oltre il bancone per stampare un bacio sulla guancia ispida del barista, - E tu non glielo dire.
- Figurati. – il ragazzo ride, ricambiandogli il bacio. Si bacia troppo, la gente, da queste parti. – Che vi porto?
- Due mezze. – risponde Francesco, saltando giù dallo sgabello e afferrando Dante per la maglietta, trascinandolo verso uno dei tavolini quadrati vuoti in fondo al locale, - Buone, però, eh?
- Ah. – ride il ragazzo, - Quindi paga lui?
Francesco gli fa una linguaccia.
Quando arrivano al tavolo, Dante si siede di fronte a Francesco, stendendo la gamba lateralmente. Il ginocchio sospira di sollievo, ed anche lui. Per quanto ne valesse la pena, il dolore stava cominciando a farsi insopportabile.
- Chi è? – domanda curioso, indicando il barista con un cenno del capo.
- Mio cugino Alessio. – risponde lui, accucciandosi sulla sedia con una gamba sotto il sedere, - Cos’è, credevi che fosse un altro dei miei fidanzati?
- Nemmeno ti rispondo. – ride Dante, - E comunque non dovresti stare seduto così. Ti rovini la gamba.
- Ma sto comodo. – protesta lui con una smorfia.
- Ti dico che ti rovini la gamba. – ripete Dante, scrollando le spalle. Francesco si siede composto.
Il cugino Alessio si avvicina tenendo disinvoltamente in equilibrio su una mano un vassoio rotondo con due boccali di medie dimensioni pieni di birra chiara e spumosa. Al solo vederla, Dante riesce quasi a sentirne il sapore sulla lingua, e si accorge di essere assetato. No, si accorge di volerla proprio, questa birra.
- Non è che ti serve un passaggio a casa per dopo? – chiede Alessio a Francesco, porgendogli il suo boccale dopo aver servito Dante.
- No, torno con lui. – risponde Francesco, tenendo il boccale con una mano e portandolo immediatamente alle labbra per bere.
- Scommetto che non devo dire a tua madre nemmeno questo. – commenta il ragazzo, allontanandosi.
Francesco ride.
- Ma ridi sempre così? – chiede Dante, sorseggiando la propria birra con un piacere inaspettato che non è in grado di descrivere, solo di assaporare.
- Sì. – annuisce Francesco senza un’esitazione, - Non ho nessun motivo per essere triste. – aggiunge poi in una mezza risata, quasi volesse scusarsi della propria fortuna.
Dante si limita a un mezzo sorriso in risposta, continuando a bere. Non lo fa con l’intenzione di ubriacarsi, anche se, quando si accorge che, dopo un discreto gesto di Francesco, Alessio continua a rifornirli di birra ogni volta che vuotano il boccale, capisce che finirà per farlo comunque. Lo fa solo con l’intenzione di divertirsi. È da una vita che non esce con l’intenzione di divertirsi. Anche quando giocava, ed era felice, le serate passate fuori a bere – e bere tanto – come sta facendo adesso erano del tutto fuori discussione. Certo, c’erano i colleghi che lo facevano – ce n’erano parecchi – ma Dante apparteneva allo strettissimo gruppo di pali in culo che ci teneva, alla salute, ci teneva, allo spettacolo che dava di sé anche fuori dal campo, lo strettissimo gruppo di pali in culo che, come alcuni illustri precedenti prima di loro, avrebbe potuto tranquillamente continuare a giocare titolare fino a quarant’anni, non fosse stato per il ginocchio.
Non fosse stato per il ginocchio…
Non è che ce l’abbia con Francesco perché è così giovane e sereno e felice e avanza a testa alta sulla strada della sua vita con la certezza che niente riuscirà mai ad abbatterlo. Non ce l’ha con lui, non lo invidia. La sua è nostalgia, perché da ragazzino era uguale, e rimpianto perché non potrà mai più essere in quel modo lì. Anche se stesse bene, anche se il ginocchio non facesse male quando cambia il tempo o quando sbatte da qualche parte ricordandogli nel dettaglio cosa ha perso e a che prezzo, non riuscirebbe comunque a recuperare quello stato d’animo, quell’esaltazione che spingeva al limite il suo battito cardiaco quando stava per entrare in campo, le botte di adrenalina dopo un gol, la liberazione totale dello spettacolo della palla che entra in rete.
Non era tipo da esultanza coreografica o particolarmente vistosa, da ragazzo. Aveva sempre pensato che segnare fosse, in sostanza, il mestiere dell’attaccante. Un panettiere non esulta quando sforna il pane, un sarto non esulta quando completa una cucitura, un chirurgo non esulta quando porta a termine un’operazione. Un attaccante non dovrebbe esultare quando segna.
Ma era così felice, ogni volta che vedeva la rete gonfiarsi dopo un suo tiro. Era così felice— vorrebbe averlo dimostrato più apertamente quando ancora poteva.
- Perché qui? – chiede a un certo punto Francesco. Sono all’incirca alla sesta birra e sono passate almeno un paio d’ore, da quando sono arrivati. I pochi clienti che c’erano prima sono andati via, sostituiti da altri in numero più o meno uguale, con facce più o meno uguali, facce che Dante non ricorderà già più dopo aver smesso di guardarle. La faccia di Francesco invece sembra inseguirlo anche quando non la sta guardando. Le guance arrossate, gli occhi castani e profondi, luminosi, i capelli ormai asciutti tutti arruffati sulla fronte, le ciocche morbide schiarite dal sole che si appoggiano in onde leggerissime sul suo collo abbronzato.
- Che intendi? – chiede distrattamente, portando l’ennesimo boccale alle labbra e godendosi la freschezza della birra frizzante che scivola tranquilla giù per la gola.
- Qui. – ride Francesco, - In questo paesello del cazzo. Tutti quelli che conosco vogliono andarsene via.
- E tu? – domanda Dante, cercando di deviare il discorso.
- Non parliamo di me adesso. – Francesco scuote il capo, sorridendo con la consapevolezza di chi ha capito il gioco di chi gli sta di fronte, - Ho chiesto prima io.
Dante sospira, scrollando le spalle.
- Volevo un posto solitario. – dice, - Volevo uscire dal giro. Non ho scelto questo posto, ho scelto la casa. La casa mi ha portato qui.
- Quella vecchia casa in collina. – Francesco sorride, appoggiando la testa al palmo della mano aperta, - Anche i due vecchietti che ci abitavano prima non uscivano mai di casa. Comincio a pensare che la casa faccia cadere sulla gente che la abita un alone di depressione che rende tutti quanti asociali e introversi.
Dante non può fare a meno di ridere, appoggiando le spalle contro lo schienale della sedia.
- O forse è il contrario, gli asociali e gli introversi vogliono abitare lì perché è isolata e in cima alla collina e non prevedono che un fastidioso ragazzino ficcanaso verrà a disturbarli e trascinarli fuori di lì contro la loro volontà.
- Non ti ho trascinato fuori contro la tua volontà. – Francesco arriccia le labbra in un sorriso impertinente, - Volevi uscire, ma non ti va di ammetterlo.
Dante sorride ancora, scrollando le spalle.
- Forse. – dice.
Verso le nove, intorno all’ottava birra, sono già arrivati ai ricordi del liceo. Francesco racconta a Dante della sua scuola, della strada che fa ogni mattina ed ogni pomeriggio per andare e tornare dal paese vicino. Non lascia trasparire chissà che fastidio, parlandone, ma dal modo in cui insiste sulla lunghezza e sul tempo perso e sulla noia e sul paesaggio che non cambia mai, Dante capisce che vorrebbe non essere costretto a percorrerla ogni giorno. Poi Francesco gli chiede del suo, di liceo, e Dante ride, scuotendo il capo. Il liceo lui l’ha frequentato mentre già giocava a livello professionistico con la Primavera della sua squadra. Il diploma in ragioneria l’ha preso solo perché la squadra richiedeva come requisito per la permanenza in rosa che si continuasse a frequentare la scuola e se ne uscisse, ed anche con ottimi voti. Giocava per una società seria, Dante. Si era trovato subito bene. Non era mai andato via, fino allo schiocco.
Non ha aneddoti divertenti da raccontargli, però. Francesco ne sembra deluso, ma in qualche modo anche divertito.
- Come sei noioso. – gli dice. In qualche modo suona come se non lo credesse affatto.
Alessio viene ad avvertirli intorno alle nove e mezza.
- Stiamo chiudendo. – dice. – Forse è meglio se vi accompagno io?
- Posso guidare. – risponde Dante, sorridendo, - Ho solo bisogno di una bottiglietta d’acqua per il viaggio.
Si sente bene. Non si sente ubriaco, anche se sa di esserlo. S’è sbronzato parecchie volte, negli ultimi anni. Sempre solo come un cane. Non è mai stato piacevole, ma quantomeno gli ha insegnato a gestire l’alcool. Ha scoperto di essere un tipo da sbronza lucida. Il tipo peggiore di sbronza, perché non altera neanche uno spigolo della realtà, che continua a pungere senza sosta contro i sensi amplificati dall’alcool.
La cosa buona è che non altera nemmeno le curve. E le curve sono dolcissime, come quella della schiena di Francesco che cammina sempre due passi avanti a lui, o quella lievissima delle sue gambe che testimonia che anche lui gioca a calcio fin da quando era piccolo. La curva delle sue spalle alte e dritte sotto la maglietta di cotone troppo larga che, mentre cammina sotto la pioggia, gli si appiccica addosso.
Si fermano davanti alla Jaguar parcheggiata poco più in là. Piove che sembra non debba smettere più. Francesco si volta verso di lui e poi si appoggia di schiena contro lo sportello, impedendogli di passare.
- Sono di nuovo tutto bagnato. – gli dice, gli occhi pesanti, lo sguardo lucido e intorbidito dall’alcool.
- Lo vedo. – risponde Dante, cercando di tenersi a distanza.
- Non posso mica tornare a casa in queste condizioni. – continua Francesco.
Dante deglutisce a fatica.
- Ragazzino, andiamo… - lo rimprovera piano, cercando di infilare una mano fra la sua schiena e lo sportello per raggiungere la maniglia.
Grave errore. Francesco chiude le dita attorno al suo polso e lo trattiene. Dante capisce di essersi avvicinato troppo.
Non può dire di non aspettarselo, quando Francesco si solleva appena sulle punte e preme le labbra contro le sue. Sanno di pioggia, di birra e di un altro sapore, che Dante non conosce, e che probabilmente è Francesco e basta. Dante sa di doversi allontanare, e di doverlo fare subito, ma le curve dolci lo attraggono troppo, e la lingua di Francesco contro la sua è morbida e calda e bagnata, e Dante non ha baciato nessuno in così tanto tempo che la sensazione è quasi inedita, lo confonde.
Francesco è bravo a baciare, lo sa e se ne approfitta. Gli avvolge le braccia intorno al collo e si preme tutto contro di lui. Dante non è mai stato con un ragazzo, e l’alcool lo aiuta a provare senza farsi troppe domande, ma non è l’alcool a convincerlo che gli piace. Gli piace e basta, la sensazione del corpo duro e muscoloso di Francesco contro il suo, le spalle larghe, i fianchi stretti, le braccia forti.
- Non voglio andare a casa mia. – dice Francesco, allontanandosi appena da lui e parlandogli sulle labbra. La pioggia gli appiccica i capelli sulla fronte, sulle guance, lungo il collo. Rende i suoi occhi liquidi e brillanti, le sue labbra più invitanti. – Voglio venire a casa tua.
Dante trattiene il respiro e lascia passare l’ennesima occasione di tirarsi indietro.
Soffia un “okay” un po’ rauco sulle labbra di Francesco, prima di baciarlo ancora, e poi sale in macchina. Beve mezza bottiglietta d’acqua, prima di mettersi alla guida. Se gli tremano le mani sa che non è perché è ubriaco, ma perché Francesco è lì, seduto accanto a lui, e continua a guardarlo senza dire né fare niente. Ma non ha bisogno di dire né fare niente, perché i suoi occhi bastano, e la sua voglia pure.
Ci vuole mezz’ora per tornare in paese, ed altri dieci minuti per attraversarlo e risalire la collina. Si baciano appena usciti dalla macchina e continuano a baciarsi, inciampando ovunque, anche mentre attraversano il cortile. Finiscono schiacciati contro la porta d’ingresso, le mani di Dante che scorrono ovunque sotto i vestiti bagnati di Francesco, quelle di Francesco perse fra i suoi capelli pesanti di pioggia. Dante infila la chiave nella serratura alla cieca, inciampano entrambi sul tappeto all’ingresso e quasi cadono per terra, ma Francesco regge il peso del corpo di Dante e gli sorride sulle labbra.
- Ti ho salvato. – ride divertito.
- Il mio ginocchio ringrazia. – risponde Dante.
Si spogliano prima di finire a letto, i vestiti che cadono in mucchietti bagnati e scomposti lungo il corridoio. Francesco ha un solo tatuaggio, quello a forma di stella sul fianco. Dante ne ha qualcuno in più. Un dragone colorato che si attorciglia lungo la schiena, il numero dieci scritto sul petto proprio sopra il cuore, una data sotto il polso sinistro, un’altra sotto il polso destro. Il dragone è così bello che, quando sono in ginocchio sul letto, completamente nudi, Francesco lo costringe a voltarsi per poterlo guardare meglio. Dante ride, resiste un po’, poi crolla sul materasso, disteso sullo stomaco, e rabbrividisce sotto il dolce peso del corpo di Francesco quando lo sente sedersi a cavalcioni sulla sua schiena.
- Ti piace? – mormora piano. Francesco risponde chinandosi e percorrendone le curve in punta di lingua, dalla spalla destra fino alla base della schiena.
Dante rabbrividisce ancora e si solleva sulle ginocchia – il dolore lo sente, c’è, ma è un’eco così lontana che è più facile ignorarla che prenderne atto –, Francesco rotola sulla schiena con una mezza risata e pochi istanti dopo Dante gli è addosso, e lui schiude le gambe con una semplicità tale che il sangue comincia a pompare nelle vene di Dante così velocemente da sentirlo rombare nelle orecchie.
Scivola fra le sue cosce abbronzate sentendolo duro sotto di sé, e si strofina lentamente contro di lui mentre cerca di fare mente locale per ricordare dove ha lasciato i preservativi e poi realizza, atterrito, che in realtà non ne ha.
- Non ho preservativi… - mugola lamentoso, nascondendo il volto contro la curva del collo di Francesco.
Lui ride, strofinando il naso contro la sua guancia.
- Io sì. – dice, - Ne porto sempre uno, non si sa mai. Nel portafogli.
Dante allunga un braccio verso il pavimento, recuperando il mucchietto bagnato di vestiti di Francesco ed estraendone quel portafogli così da ragazzino che solo a guardarlo si sente in colpa. Ma il senso di colpa regge solo pochi secondi, il tempo per Francesco di sollevare appena il bacino e strofinarsi lento contro di lui. La colpa sparisce con l’ondata di piacere che percorre il corpo di Dante per tutta la sua lunghezza, e lui apre il portafogli e recupera il preservativo, lo scarta e se lo srotola addosso velocemente, per poi tornare a sistemarsi fra le gambe di Francesco, che respira pesantemente e trema appena sotto di lui.
- Mi dispiace… - sospira Dante, - Non ho lubrificante.
- Quello nemmeno io. – ride Francesco, scrollando le spalle. – Non importa.
Dante annuisce piano, chinandosi a baciarlo sulle labbra. Poi si solleva sulle ginocchia, spostando il peso più sul sinistro che sul destro, per quanto possibile. Usa un po’ di saliva per prepararsi, e poi si preme tutto contro l’apertura stretta di Francesco, che nel momento in cui lo sente entrare per un paio di centimetri stringe i denti e si irrigidisce tutto, lasciandosi sfuggire un lamento affaticato.
Dante si ferma istantaneamente, spalancando gli occhi.
- Non l’avevi mai fatto prima. – dice senza fiato, facendo per allontanarsi.
Francesco gli pianta le dita nelle spalle e chiude le gambe dietro la sua schiena in un gesto secco, trattenendolo.
- Continua. – dice, gemendo piano, con gli occhi chiusi, - Non ti fermare.
Scivolando lento sopra di lui, Dante obbedisce senza pensarci più.
*
Si sveglia poco dopo l’alba. Non devono essere ancora neanche le sei del mattino, e la camera risplende della luce aranciata del sole che sorge, e che proietta ombre lunghissime sui loro corpi ancora immobili. Ha smesso di piovere, ad un certo punto durante la notte, e fuori dalla finestra, in cortile e lungo il fianco della collina, gli uccellini cinguettano rumorosamente. I raggi del sole che accarezzano la sua pelle nuda e ancora calda di sonno sono tiepidi e così piacevoli.
Sdraiato sullo stomaco, Dante ha appoggiato la testa sul ventre piatto di Francesco mentre si girava e rigirava in cerca di una posizione che non gli infastidisse troppo il ginocchio. Quando apre gli occhi, la prima cosa che vede è la stella. Poi sente la pancia di Francesco sollevarsi ed abbassarsi piano al ritmo del suo respiro. È sveglio.
Piega il capo, cercando i suoi occhi, e prevedibilmente lo trova già a guardarlo, sorridendo divertito. Gli sta accarezzando i capelli. È una di quelle cose troppo piacevoli per durare.
- ‘Giorno. – dice Francesco. Dante sospira, sollevandosi sulle braccia.
- ‘Giorno… - biascica. – Hai chiamato tua madre per avvertirla che non tornavi, ieri? – chiede. Il solo dover chiedere una cosa del genere gli fa venire voglia di prendersi a schiaffi.
Francesco ride, continuando a guardarlo dal basso. È ancora tutto nudo e non sembra in imbarazzo. Per quale motivo dovrebbe, d’altronde, pensa Dante con un sospiro arreso.
- Non ti preoccupare. – risponde il ragazzino, stiracchiandosi pigramente, - Capita spesso che non torni a casa per dormire. I miei daranno per scontato che sono rimasto da Mirko, lo faccio sempre.
Si ritrova ad aggrottare le sopracciglia, ingiustificatamente irritato.
- Siamo sicuri che è davvero solo il tuo migliore amico, questo Mirko?
Francesco scoppia a ridere di gusto, gettando indietro il capo.
- Sei geloso. – dice, come constatando un dato di fatto.
Dante arrossisce infastidito.
- Non sono—
- Dai. – Francesco ride, scuotendo il capo, - Non serve a niente negare, tanto è una cosa come un’altra. È come dire “t’incazzi facilmente”.
- Quello è vero. – annuisce Dante.
- È vero anche che sei geloso. – ride ancora Francesco, - Ce l’hai proprio dentro.
- Non sono il tuo ragazzo. – sospira Dante, lanciando un’occhiata supplice al soffitto.
- Non ho detto che lo sei. – Francesco ride ancora, ma è una risata appena più tenera. Infinitamente più intima. Un suono inedito che porta Dante ad abbassare lo sguardo su di lui. Così sdraiato sulla schiena, con gli occhi che brillano della luce del sole che filtra attraverso il cotone bianco e sottile delle tende alla finestra, e quel sorriso arricciato agli angoli che gli dà un’aria ancora più impertinente del solito, sembra uno di quegli enormi gattoni che accettano le coccole solo finché gli va, e poi ti si lanciano contro per morderti.
- Senti, quello che è successo stanotte—
- Ommioddio, - ride Francesco, - Il discorso del giorno dopo. Ma dai. – si solleva appena sui gomiti, stampandogli un bacio rumoroso sulle labbra, - Non mi serve.
- Io credo di sì.
- Nah. Scommetti? – sorride sornione, - Quello che è successo stanotte è stato un errore, e comunque è un caso isolato che non si ripeterà più. Mi piaci, sono stato bene, ma sei troppo piccolo, e comunque non sono in cerca di una relazione stabile. Amici come prima? – poi ride, - Era più o meno una cosa del genere o sbaglio?
Dante aggrotta le sopracciglia e piega le labbra in un broncio carico di disappunto.
- Sei troppo furbo per i miei gusti.
Francesco ride ancora. Non smette davvero mai. Dante vorrebbe riuscire a trovare tutto divertente come lui, a trovare dovunque almeno una ragione per essere allegro.
- Rispondi alla domanda. – lo invita il ragazzino, e Dante sospira.
- Non sbagli. – ammette, - Ma non è un argomento su cui scherzare. Sono tutte cose che ti avrei detto molto seriamente.
- Ma non ho detto che non le prendo sul serio. – sorride Francesco, scuotendo il capo, - Ho solo detto che non ho bisogno di sentirmele dire, perché le so già da me. Lo so che sono solo un ragazzino e un uomo della tua età eccetera eccetera. – spiega, roteando una mano a mezz’aria, - E poi credi di essere l’unico che non è in cerca di una relazione stabile? Io limono col mio migliore amico da quasi tre anni e continuo comunque a considerarlo solo il mio migliore amico. Ti sembro uno in cerca di una relazione stabile?
- … no. – sospira Dante, - Non direi.
- Ecco. – annuisce lui, - Senza contare il fatto che, se volessi cercarmi un fidanzato, tu saresti l’ultimo della lista. Anzi, probabilmente nella lista non compariresti nemmeno.
- Wow. – sbuffa lui, - Meraviglioso. Ora sì che sono felice.
- Intendo che l’ho capito che non sei materiale da fidanzamento. – ride Francesco, - Almeno, non per me. Io sono un rompicazzi costantemente ipereccitato, se smetto di muovermi per più di venti minuti o sto dormendo o sono morto. Non potrebbe mai funzionare, fra noi, sei troppo depresso e immobile.
- Lo sai che non stai migliorando la situazione affatto o no? – grugnisce Dante, lasciandosi ricadere sulla schiena accanto a lui e fissando il soffitto con aria risentita. Almeno fino a quando non sente Francesco ridere ancora e poi issarsi a sedere e rotolare addosso a lui. La sua faccia sorridente riempie la sua visuale quasi per intero. Molto più piacevole del soffitto, nonostante tutto.
- Non volevo migliorare la situazione. – risponde Francesco, - Dicevo così per dire. Siamo troppo diversi per funzionare sulla lunga distanza. Però mi piaci un casino. E stanotte è stato fantastico. E non prendermi per il culo, perché lo sappiamo entrambi che succederà ancora.
Dante arrossisce vistosamente, strofinandosi entrambi gli occhi coi palmi delle mani aperte ed esalando un sospiro stremato.
- Suona come una minaccia.
- Prendila come ti pare. – ride Francesco. Poi incrocia le braccia sul suo petto ed appoggia il mento sugli avambracci incrociati, guardandolo con interesse rinnovato. – Senti, credo di avere la soluzione per il tuo problema.
- Ed io te ne sarei molto grato, - borbotta Dante, guardandolo con aria di rimprovero, - Se avessi un problema da risolvere.
Francesco si schianta letteralmente dalle risate, gettando indietro il capo e chiudendo gli occhi mentre gli tira un mezzo pugno contro il petto.
- Ma stai zitto. – lo liquida sbrigativamente. Poi riprende, - Senti, sta per finire la scuola. Tipo, la settimana prossima. Il che vuol dire che fra qualche giorno, da queste parti, ci annoieremo tutti tantissimo.
Dante sospira, rilasciando il capo contro il cuscino.
- La mia casa ormai è aperta. – dice arrendevole, - Tanto ho capito che, anche se ti chiudessi la porta in faccia, troveresti comunque un modo per entrare.
- È vero. – ride Francesco, - E la tua proposta mi lusinga, ma non volevo chiederti quello. Anche se accetto volentieri.
- Francesco…
- Ascoltami e basta. – dice, sorridendo spavaldo, - Io e i miei amici abbiamo un campetto di calcio a cinque a un paio di chilometri da qui. Ci si arriva facilmente, tagliando in mezzo alle campagne. C’è un sentiero. Comunque, lo usiamo per giocare a tempo perso. Ecco, voglio che smetta di essere tempo perso.
Dante inarca un sopracciglio, guardandolo incerto.
- Sarebbe a dire?
- Sarebbe a dire che ad agosto c’è un torneo provinciale, e sarebbe figo partecipare. E sarebbe figo se ci allenassi tu.
Dante spalanca gli occhi e poi, passato il primo istante di stupore, aggrotta severamente le sopracciglia.
- Scordatelo.
- E dai! – si lagna Francesco, saltellandogli un po’ addosso, - Perché no?
- Perché non voglio allenare proprio nessuno, figurati un branco di adolescenti. – sbuffa, - Calcio a cinque, poi. Ma sei serio?
- Serissimo. – dice Francesco. Stranamente, la sua espressione rispecchia le sue parole. E Dante lo conosce poco, ma gli sembra di aver capito che una cosa del genere gli accada molto di rado. – Dai. – sorride poi, - Ti va?
Dante sospira, passandosi una mano sul volto.
- Per niente…
Francesco ride.
- Però verrai, vero?
- Facciamo così, - borbotta lui, - Dimmi quand’è che vi allenate. Se mi va, vengo. Ma senza impegno.
- Senza impegno. – annuisce Francesco con un sorriso che lascia pochi dubbi su quello che pensa, - Ci trovi lì questo pomeriggio dalle tre in poi.
Dante sospira ancora e non risponde, ma se lo scrolla di dosso, afferrando la coperta e nascondendovisi sotto.
- Ho sonno. – sbuffa, - Scollati.
Francesco ride, gli rotola addosso e poi atterra perfettamente in piedi con un saltello giù dal letto.
- Tanto devo andare a scuola. – gli dice con aria canzonatoria. – Prima mi faccio una doccia, però.
- Fai come se fossi a casa tua. – ripete Dante per la seconda volta in una manciata d’ore, ma è poco più di un sussurro. Francesco non lo sente, ma tanto che lo senta o meno è irrilevante: avrebbe fatto come a casa sua in ogni caso.
*
Per arrivare al campetto gli tocca chiedere ad uno dei vecchi seduti in piazza in paese, una cosa che, già da sola, basterebbe a fargli venire voglia di tornare a casa senza ripensamenti. Avere a che fare con la gente gli dà già abbastanza fastidio senza che la suddetta gente debba essere una mandria di vecchi arteriosclerotici, sordi e sdentati che, quando gli chiedi un’indicazione, prima ti fanno ripetere la domanda settecento volte e poi ti rispondono cambiando versione da un minuto all’altro e proponendoti sempre, immancabilmente, il percorso più lungo e difficile attraverso il quale raggiungere la tua destinazione, così che se magari potresti andare da un luogo all’altro imboccando un vialetto sterrato e coprendo una distanza di un paio di chilometri in mezz’ora scarsa, loro si premureranno di fare in modo che tu abbia capito bene solo ed esclusivamente la via che ti porta su e giù per le colline, in mezzo ai campi di grano, sopra un ponte che guada un ruscello ed attraverso due o tre incroci a ics rischiosissimi per coprire quella stessa distanza in un’ora e mezza. Come minimo.
Quando arriva, Francesco è già lì che scambia qualche passaggio randomico con un gruppo di ragazzini fra i quali Dante riconosce soltanto quello che ha visto nel suo cortile. Dev’essere il famoso Mirko. Prova istintivamente una certa antipatia, nei suoi confronti, ma quando si rende conto di quanto idiota sia una cosa del genere scaccia via la sensazione e spera non si ripresenti più.
- Ah! – Francesco si accorge di lui quasi subito. Si libera del pallone e gli viene incontro, sorridendo beffardo, - Lo sapevo.
- Fai a meno di commentare, grazie. – ribatte lui, restando sulle sue e affrontandolo con un certo muso duro.
Di quell’atteggiamento, Francesco ride come sempre. Poi gli si avvicina e, senza vergogna alcuna, preme le proprie labbra contro le sue in un bacio affettuoso, un gesto talmente banale e naturale da non destare la minima reazione nei suoi amici, probabilmente abituati ad assistere ad effusioni di questo genere, ma talmente intimo da costringere un paio di brividi dal significato incerto ad arrampicarsi su per la schiena di Dante, e poi lasciarsi scivolare giù lungo la sua spina dorsale.
- Allora, - dice, afferrandolo per un braccio e trascinandolo più vicino agli altri. A Dante fa già male il ginocchio per la lunga camminata, e preferirebbe tornare a casa, ma lo segue come si seguono le forze della natura, per non lasciarti spazzare via. – Questa è la squadra. Mirko in porta, - dice, indicando il ragazzino piuttosto gracile coi capelli neri che Dante ha già riconosciuto, - Tia e Lore in difesa, - prosegue, indicando due giganti gemelli biondi troppo alti per essere davvero adolescenti ma con due facce da bambini che, in compenso, tolgono qualsiasi dubbio rispetto alla loro età, - E questo è Emi, in attacco con me, - conclude, battendo una poderosa pacca sulla spalla di un ragazzino appena più grande di lui, con una lunga matassa di capelli neri riccissimi trattenuti a stento da una coda bassa sulla nuca.
- Io ti conosco. – dice Emi, indicandolo con un sorriso, - Sei quel calciatore che si è ritirato qualche anno fa, vero? Cavolo quanto m’è dispiaciuto, me lo ricordo benissimo. Eri forte.
- Grazie. – risponde Dante, stirando sulle labbra un sorriso affaticato.
- E lui è Dante. – conclude le presentazioni Francesco, professionale, - Ci farà da allenatore.
All’annuncio segue un silenzio che Dante non sa bene come interpretare. Mirko lo fissa all’improvviso come se la sua persona fosse causa di tutti i mali nel mondo conosciuto, mentre gli altri tre, pur non squadrandolo con la stessa animosità, sembrano comunque profondamente perplessi.
- Ma non l’hai ancora mollata quell’idea surreale? – domanda alla fine Emi, ridendo divertito, - Ne abbiamo già discusso, no? Non può funzionare.
- Certo che non poteva funzionare, quando ne abbiamo discusso. – scrolla le spalle Francesco, - Non avevamo un allenatore, allora.
- E adesso che ce l’abbiamo ci vedo proprio a diventare fortissimi nel giro di un mese e mezzo, e vincere il torneo. – ride uno dei due gemelli, Dante non ha idea se Tia o Lore.
- Non possiamo saperlo, se non proviamo, no? – insiste Francesco, ostinato.
- Fra’… - borbotta Dante, sospirando, - Si era detto senza impegno.
Francesco si volta a guardarlo e sorride sereno.
- Però sei venuto. – risponde, come se questo da solo bastasse ad indicare che ha implicitamente anche accettato l’incarico. Vorrebbe dirgli che fra persone adulte non funziona così, che affidarsi all’implicito è pericoloso. Ma d’altronde Francesco sembra avere le idee molto chiare. In un modo o nell’altro, sembra che abbia sempre ragione lui.
- Io non voglio giocare. – dice a quel punto Mirko. Calcia la palla a bordocampo e poi si allontana verso la panchina sgangherata sul lato opposto del campetto, sulla quale sono sistemati ordinatamente una serie di borsoni tutti diversi.
- Mirko… dai! – si lagna Francesco, afferrandolo per un polso e costringendolo a tornare indietro, - Ci divertiamo!
- Non me ne frega niente.
- Francesco, non potete partecipare a nessun torneo di calcetto. – insiste Dante con un sospiro, stando bene attento ad usare quante più terze persone plurali la lingua italiana gli consenta di utilizzare, - Siete solo in cinque, e per comporre una squadra anche minima, secondo qualsiasi regolamento, dovreste essere almeno in sei.
- Questo torneo in particolare ne vuole sette. – aggiunge Emi con un sorriso quasi di scuse.
- Peggio ancora. – abbozza un sorriso anche Dante, prima di voltarsi di nuovo verso Francesco, - Non siete abbastanza.
- Mio fratello arriva fra una settimana, - ribatte lui, - Ed è bravissimo a giocare a calcio. E poi possiamo chiamare anche mio cugino.
- E com’è lui? – domanda Dante con l’ennesimo sospiro.
- Scarsissimo. – risponde Emi, - Io l’ho visto giocare. È un disastro.
- Non dovrà giocare. – precisa Francesco, lanciandogli un’occhiataccia, - Il regolamento vuole che siamo in sette, d’accordo, saremo in sette. Ma giocheremo noi cinque. Mio fratello entrerà solo in caso di vero bisogno, se qualcuno si fa male. Possiamo farcela! Abbiamo davanti tutta l’estate, perché dobbiamo passarla annoiandoci e lamentandoci che non c’è mai niente da fare? C’è qualcosa da fare, adesso! Sarà divertente! Abbiamo anche un allenatore!
- Ma che allenatore e allenatore?! – scoppia alla fine Mirko, divincolandosi dalla stretta di Francesco e allontanandosi di nuovo verso la panca, - Mavvaffanculo… - borbotta fra sé, raggiungendo il suo borsone e caricandoselo in spalla, prima di scivolare lungo la montagnola di terra in cima alla quale hanno delimitato il campo e poi imboccare un sentiero in mezzo ai campi.
- Ma che palle… - biascica Francesco, andandogli dietro senza premurarsi di salutare nessuno.
Dante osserva la scena con aria un po’ confusa e, quando li vede scomparire entrambi, si volta verso Emi.
- Cos’era quello? – domanda incerto.
Il ragazzo sospira, le mani sui fianchi, mentre i gemelli recuperano a loro volta gli zainetti identici.
- Quello, - spiega con aria rassegnata, - Era Mirko che impara una o due cose che si è sempre rifiutato di imparare sul conto di Francesco.
Dante torna a guardare il sentiero lungo il quale Mirko e Francesco sono scomparsi. Unica traccia del loro passaggio, le lunghe spighe di grano che ondeggiano pigramente a mezz’aria.
- Li conosci da molto?
- Io vivo nel paese qui accanto. – risponde Emi, sorridendo tranquillo, - Dall’altro lato degli agrumeti. Da bambino però vivevo qui, e siamo andati all’asilo insieme per un periodo, con Mirko e Fra’, anche se erano un po’ più piccoli di me. Poi io sono andato via, e loro sono rimasti soli. Fa abbastanza schifo crescere in un posto in cui c’è solo un’altra persona della tua stessa età. – spiega, scrollando le spalle, - Loro due sono cresciuti insieme, praticamente non c’è stato giorno della loro vita che non abbiano passato appiccicati. Poi Francesco ormai l’avrai capito, com’è… - aggiunge con un sospiro vago, - È un po’ così. Lo prendi com’è. Solo che se viene da me e mi limona a caso, io lo so che è solo Francesco che fa il Francesco e non devo dargli peso. Se va da Mirko… - sospira ancora, - È tutta un’altra cosa. – poi si volta a guardarlo, sorridendo sornione, - E poi all’improvviso arrivi tu.
- Io non sono arrivato affatto. – protesta Dante, aggrottando le sopracciglia, - È venuto a cercarmi lui. Si è infilato per forza…
- Francesco che fa il Francesco. – ride Emi, scuotendo il capo. Saluta i gemelli agitando una mano in aria e poi recupera la propria borsa, indossandola a tracolla. – Non preoccuparti troppo, comunque. Si chiariranno, Mirko starà male per un po’, poi le cose si sistemeranno. E Francesco tornerà da te.
- Io non sono preoccupato. – borbotta lui, - E Francesco non ha niente da cui tornare, perché non stiamo insieme.
Emi ride ancora, piegando appena il capo.
- Dettagli. – risponde, - Comunque restare qui per oggi non ha senso, ed io devo fare un sacco di strada a piedi. Sai come ritornare da solo?
Dante ammette candidamente di no, ed anche che per arrivare fin lì ha seguito delle indicazioni surreali che l’hanno tenuto sulla strada per più di un’ora. Emi lo compatisce senza ironia, si scusa a nome dei vecchi della zona e poi gli indica una stradina in mezzo ai campi che lo riconsegna alla sua amata dimora in collina non più tardi di un quarto d’ora dopo.
- Non mi dispiacerebbe se ci allenassi davvero. – dice salutandolo.
Nel tornare a casa, Dante si ritrova a pensare con un po’ di imbarazzo che non dispiacerebbe granché neanche a lui.
*
- Ti fermi?
Francesco gli cammina un paio di metri alle spalle, come se capisse perfettamente che andargli vicino in questo momento sarebbe pericoloso. In realtà, Mirko lo conosce abbastanza da sapere che capire o non capire in questo momento non c’entra niente, e l’unico motivo per cui Francesco non gli si avvicina è che è annoiato dall’idea di dover avere a che fare con la sua rabbia adesso.
Il problema di Francesco è che non pensa mai alle conseguenze. Vuole sempre un mucchio di cose, e quelle che poi finisce per fare sono anche il doppio o il triplo, ma non si ferma mai a riflettere, prima di allungare una mano e prendersi ciò che vuole, ciò che pensa sia suo. Lo prende e basta, come fosse nato con un diritto divino su qualsiasi cosa i suoi occhi incontrino da quando si aprono al mattino a quando si chiudono la sera.
Non c’è un modo logico di spiegarlo se non una qualche condizione mentale grave, Mirko lo sa. Ha sempre sospettato che Francesco fosse uno di quei sociopatici ad alta funzionalità dei quali non immagineresti mai la gravità del disturbo. Ora magari sta drammatizzando, ma insomma.
Si ferma all’improvviso, stanco di quella marcia di guerra in mezzo alle spighe di grano. Che peraltro puzzano, e gli appiccicano addosso un caldo stantio e il ronzio delle mosche.
- Mi spieghi com’è possibile? – domanda, voltandosi improvvisamente a guardare Francesco. Lo trova già immobile a pochi passi da lui, che lo guarda come se non riuscisse a trovare un senso alla sua rabbia.
- Com’è possibile cosa? – domanda lui di rimando, sospirando pesantemente.
- Com’è possibile che si sia passati da “sono curioso, chissà chi ci vive là dentro” al bacio sulle labbra e all’allenatore di una squadra che non esiste per un torneo di calcetto al quale non parteciperemo.
- La squadra esiste. – precisa Francesco, quasi offeso, - E certo che parteciperemo.
- Santo Dio. – quasi ringhia Mirko, frustrato, passandosi le mani sul viso, - Ma sei serio? Sei scemo o fingi soltanto? Lo capisci cosa ti sto chiedendo o no?
Francesco non risponde subito. Lo guarda per qualche istante, in completo silenzio, ancora trincerato dietro quell’offesa infantile verso la quale aveva cercato di deviare il discorso per non dover rispondere all’unica domanda della quale a Mirko importasse qualcosa.
Si arrende quando capisce che Mirko non cederà, non su questo punto. Su altri mille, forse, ma non su questo.
- Mi piace. – risponde semplicemente, - Abbiamo parlato un sacco, ieri. Abbiamo fatto anche altro. Non puoi capire cosa vuol dire per me parlare con lui, cioè, averlo qui, a portata di mano.
- No, non lo capisco. – scuote il capo Mirko, - Spiegamelo.
- Non posso farlo. – risponde Francesco, scrollando le spalle, - Dovresti essere nella mia testa, e non è un posto in cui ti consiglierei di stare. Tutto quello che posso dirti è che avevo bisogno di questa cosa, ma la cosa più straordinaria è che ne aveva bisogno anche lui. – abbozza un sorriso di scuse, - Puoi capirlo, questo? Quello che sto cercando di dirti. Quante volte può succedere, nella vita? Che inciampi in qualcuno e tu hai bisogno di lui esattamente quanto lui ha bisogno di te?
Mirko stringe i pugni lungo i fianchi, serrando le labbra. Le parole di Francesco gli scavano dentro una voragine della quale non è sicuro di volere indagare la profondità.
- Poche. – risponde, abbassando lo sguardo. Non dice a Francesco che, per anni, ha sperato che questa stessa cosa che sta descrivendo accadesse a loro.
Mentre lui resta lì immobile, cercando di non tremare e sentendosi patetico, Francesco si avvicina piano. Gli appoggia le mani sulle spalle e si abbassa a lasciargli un bacio scemo sulla fronte.
- Senti, scusa. – gli dice piano, - Ho fatto un casino, vero?
Mirko sospira, allontanandosi ma cercando di non farlo in maniera troppo violenta. Si passa una mano sulla fronte perché, in questo momento, non può sopportare di sentirsi addosso neanche una vaga traccia di lui.
- Lascia perdere. – gli risponde, - Mi passa. – poi abbozza un sorriso stanco. – Vado a casa. Ci vediamo domani alla fermata?
- Certo. – risponde Francesco, annuendo.
Mirko gli volta le spalle e muove un passo lontano da lui. Per qualche motivo, il movimento gli dà la sensazione di una conquista. Anche se l’ha pagata cara, è una sensazione piacevole abbastanza da ripagare lo sforzo.
*
Quando sente suonare il campanello, istintivamente Dante sa che si tratta di Francesco. Non è solo la consapevolezza che nessun’altro verrebbe a cercarlo lì e a quell’ora senza prima essersi fatto annunciare da una telefonata, è qualcosa di differente, di più profondo e un po’ spaventoso. Sa che si tratta di Francesco perché vuole che sia lui. Vederlo correre dietro a Mirko senza neanche salutare quel pomeriggio è stato più fastidioso di quanto gli piaccia ammettere.
Nel breve tragitto che dalla cucina lo porta all’ingresso, si prende un paio di secondi per realizzare la velocità spaventosa alla quale si sta muovendo quella storia, o qualunque cosa sia. Si muovesse allo stesso modo in autostrada, sentirebbe il bisogno della cintura e forse anche di un casco protettivo. Invece si sta muovendo a piedi incontro a un ragazzino, ed il suo corpo si rifiuta di mandare al suo cervello un qualunque segnale d’allarme. E lui continua a muoversi, tranquillo, aspettando il momento dell’impatto.
Francesco ha una faccia che, anche se lo conosce poco, Dante non fa alcuna fatica a capire debba essere piuttosto inedita, sul suo volto. Un’espressione triste nella quale i lineamenti di Francesco sembrano non sentirsi nemmeno a loro agio.
- Mangiavi? – gli chiede, come rendendosi conto all’improvviso del fatto che è ora di cena, - Disturbo?
- Se ti fosse importato, non saresti venuto. – risponde Dante, facendosi da parte per lasciarlo passare.
Entrando, Francesco nota la borsa del ghiaccio infilata nella retina attorno al ginocchio, e la sua espressione si fa perfino più triste, quasi colpevole.
- Ti fa male? – domanda.
- Ho camminato un po’ troppo, oggi. – risponde lui con una scrollata di spalle, tornando in cucina. Sa di zoppicare parecchio, in questo momento, e in una qualsiasi altra situazione, di fronte a chiunque altro, si sentirebbe in imbarazzo. Francesco ha questo strano potere. Di farlo sentire libero di zoppicare, se deve. – Non preoccuparti, una notte di sonno e mi passa. È solo un po’ gonfio.
- È colpa mia? – domanda. Dante si volta a guardarlo e nota che è rimasto immobile a pochi passi dalla porta d’ingresso. Fa per rispondere, ma Francesco lo anticipa. – È colpa mia. – dice, guardando in basso. Poi si passa una mano sul viso, e fra i capelli. – Che casino.
Dante sospira e si volta. Zoppica verso la tavola e taglia a metà la pizza appena toccata che ha scongelato in forno, e che fa veramente, ma veramente schifo, ma della quale immagina Francesco senta molto il bisogno, al momento. Ne lascia scivolare una parte su un piatto pulito, che sistema sul lato opposto del tavolo.
- Vieni a mangiare prima che si freddi e diventi ancora più di gomma di quanto già non è. – lo invita con un mezzo sorriso. Poi torna a sedersi al proprio posto, sospirando di sollievo quando riesce a sollevare la gamba da terra, e riprende a mangiare.
Francesco si avvicina circospetto, scrutandolo dubbioso. Allontana la sedia dal tavolo e si siede con una gamba sotto il sedere, salvo poi ricordare il suo rimprovero al bar – Francesco glielo vede proprio passare davanti agli occhi in un lampo, e ne sorride, divertito – e sedersi composto. Fissa la sua pizza, ma non la tocca.
- Volevo scusarmi. – dice, - Sono venuto per questo.
- Mh. – borbotta Dante, addentando una fetta di pizza e tirando fino a che il filamento di mozzarella si rompe.
- È che ho sempre fatto un mucchio di cose senza starci troppo a pensare. – elabora Francesco, afferrando distrattamente forchetta e coltello e tagliando la pizza a spicchi con gesti meccanici che non realizza nemmeno di compiere, - Tipo, questa cosa di Mirko.
- Questa cosa di Mirko, già. – sorride Dante.
- Io mica c’ho mai pensato al fatto che poteva andare fuori controllo. – sospira Francesco, - L’ho fatta e basta, perché la volevo fare. Oppure tu.
- Io. – ride Dante.
- Eh. Anche te ti ho fatto perché ti volevo fare. Cioè.
- Ho capito. – ride ancora lui.
- Grazie. Poi arrivo qui e ti trovo col ginocchio gonfio come un transatlantico e il ghiaccio, che mi dici “domani mi passa” come se fosse una cosa da nulla. Non è una cosa da nulla.
- Ma sì che è una cosa da nulla. – cerca di rassicurarlo lui, - Lo sai quante volte mi è capitato di camminare o correre troppo e ritrovarmi in queste condizioni?
- Sì, ma stavolta è diverso perché le altre volte è stata una tua scelta. – ribatte Francesco, - Stavolta te l’ho chiesto io.
- Me l’hai chiesto, - risponde lui, - Ma sono venuto perché volevo. Non fare l’errore di considerarti causa scatenante di tutti i mali del mondo. Non sei neanche lontanamente così importante, nell’ordine naturale delle cose. – ride.
Francesco aggrotta le sopracciglia, piegando le labbra in un broncio offeso.
- Dicono di me che sono odioso, ma anche tu non scherzi. – commenta.
- E che ti devo dire? – ride ancora Dante, - Ci siamo trovati.
Francesco schiude le labbra e poi lo guarda stupito come avesse appena pronunciato una parola magica.
Poi si alza in piedi, gira attorno al tavolo e si ferma accanto a lui. La prima cosa che fa è togliersi le scarpe.
- E la tua pizza? – ride Dante, ma sta già trascinando indietro la sedia per lasciare un po’ di spazio fra se stesso e il tavolo. Francesco coglie l’invito e gli si siede addosso a cavalcioni, stringendo le gambe lungo i suoi fianchi e chiudendogli le braccia attorno al collo, abbracciandolo stretto.
Dante lo sente sorridere contro la sua pelle, e sorride a propria volta.
- Grazie. – sussurra Francesco, - Cazzo quanto mi piacciono gli abbracci. – aggiunge, stringendolo un altro po’, - A te no?
- Sì, mi piacciono, mi piacciono. – sorride Dante, paziente, allacciandogli le braccia attorno alla vita.
- Mi sento subito meglio, dopo un abbraccio. – continua Francesco. Poi il suo tono di voce si fa più incerto, mentre si allontana appena da lui per guardarlo negli occhi. – Quindi non ce l’hai con me? – domanda, per essere sicuro.
Dante scuote il capo.
- Non ce l’ho con te.
- E allenerai la squadra?
- Adesso. – Dante ride, premendogli una mano contro il volto per allontanarlo, ma lasciandola subito ricadere, - Non esageriamo. Vedremo. Prima trovami davvero altri due giocatori.
- Okay. – risponde Francesco. Poi sorride, guardandolo da sotto le ciglia lunghe. Ha dei begli occhi scuri, Francesco, dallo sguardo morbido. Dante si ritrova a sporgersi verso di lui, schiudendo le labbra con largo anticipo, ansioso di baciarlo. Francesco se lo stringe contro, accarezza la sua lingua con la propria e scivola più in alto lungo le sue gambe, strofinandosi appena contro di lui.
Dante interrompe il bacio con una risata senza fiato.
- Sul serio? – chiede.
- Perché no? – domanda Francesco, ridendo divertito, - Non ti è piaciuto, stanotte?
- Certo che mi è piaciuto. – Dante lo bacia ancora, le labbra bagnate che schioccano con ogni bacio. ¬– Non so se ce la faccio, però.
- Posso fare tutto io. – ride Francesco.
- Sì? Anche portarmi a letto? – lo prende in giro lui con un sorriso a metà.
- No, possiamo rimanere qui. – risponde il ragazzino, strofinando il naso contro il suo.
Dante lo bacia ancora, più profondamente, giocando con la sua lingua e poi lasciandosi rincorrere finché non è Francesco a dovergli andare incontro.
Lascia scivolare le mani sotto la sua maglietta, incontrando subito la pelle tiepida. Gli strofina il pollice contro un fianco in un movimento lento, circolare, e poi apre gli occhi per guardare in basso, per cercare il profilo della stella e tracciarlo con la punta del dito.
- Questo tatuaggio è la cosa più gay che abbia mai visto. – commenta in una mezza risata.
- No. – sorride Francesco, appoggiandosi con la schiena al bordo del tavolo ed aggrappandosi con entrambe le mani alla spalliera della sedia sulla quale Dante è seduto, per poi strusciarglisi lentamente addosso, muovendosi piano avanti e indietro. – Questa è la cosa più gay che tu abbia mai visto. – commenta ridendo.
Dante non può che ammettere che ha ragione.
*
Naturalmente accetta, e non solo perché in realtà dire di no a Francesco si rivela essere un’impresa più ardua del previsto – il ragazzino ha un talento particolare per costringerlo a dire sì senza neanche farglielo pesare –, ma soprattutto perché in realtà, anche se Dante non lo sapeva fin dall’inizio, rifiutare è sempre stato fuori discussione.
Giorno dopo giorno, comincia a preferire la strada lunga consigliata dai vecchi piuttosto che quella breve che gli ha insegnato Emi. Parte di buon’ora da casa, calzoncini corti, calzettoni al ginocchio, maglietta di cotone e scarpe da tennis, e scende lungo il fianco dolce della collina, passa in piazza e compra una confezione da sei di bottigliette d’acqua naturale, poi s’inerpica per il sentiero in mezzo all’agrumeto e passeggia svelto, un piede davanti all’altro, fermandosi quando il ginocchio glielo chiede, seguendo il ritmo naturale del suo corpo. È straordinariamente piacevole camminare all’ombra degli alberi altissimi e carichi di frutta dal profumo penetrante. Sotto quella volta così fitta, il calore del sole quasi non arriva, e il terreno è morbido e cedevole sotto i suoi piedi, quasi come il terreno sabbioso su cui ha corso spesso durante la riabilitazione.
Quando arriva li trova sempre tutti già là, i gemelli che corrono insieme, Emi che stende le gambe lunghissime lasciate scoperte dai pantaloncini corti mentre fa stretching a bordocampo, Francesco che gioca con Mirko, Mirko che lo prende a legnate di santa ragione, e Francesco che ride, ride sempre, di ogni cosa. Una volta che ti ci abitui, è un suono incredibilmente piacevole.
Comincia pensando che non potrà essere chissà che impresa allenare una squadra di imbecilli minorenni, e se Perez, che ai tempi aveva già sessantacinque anni suonati, è stato in grado di portare alla vittoria della Champions League una squadra di imbecilli maggiorenni allora lui può di certo raggiungere un obbiettivo di gran lunga minore, anche se si è messo alla guida di bambini che, di essere guidati, non hanno proprio la benché minima intenzione. Giocano, più che allenarsi, e quando Dante capisce come funziona, quando capisce che ha molto più senso portare loro l’acqua piuttosto che arrabbiarsi perché non ci hanno pensato da sé, quando capisce che ha molto più senso trasformare il loro gioco confuso in qualcosa da cui possano trarre beneficio a livello atletico piuttosto che cercare di forzarli ad una lunga serie di esercizi di cui non vogliono neanche sentire parlare, quando capisce da che lato prenderli, insomma, diventa tutto molto più facile. Anche se Mirko continua ad odiarlo – nella maniera tipica in cui ti odiano i bambini quando li privi del loro giocattolo preferito, mettendo il muso lungo e guardandoti in cagnesco da lontano ma sentendosi in colpa per la loro stupidità quando ti vedono agire da adulto responsabile –, anche se Francesco è ingestibile – e quando Dante comincia a volerlo allenare sul serio cominciano anche a litigare furiosamente, perché a Francesco piace muoversi, è vero, ma solo quando e come dice lui –, anche se può solo pregare che nessuno si faccia male per davvero perché il cugino Alessio è veramente un disastro con la palla tra i piedi.
Si tiene stretto Emi, chiaramente l’unica mente ragionevole in tutto il gruppo, e quando non riesce a far passare un concetto parlando si lascia aiutare da lui, lo fa passare tramite la sua voce, i suoi sorrisi pazienti e quel modo pratico e semplice che ha di spiegare le cose agli altri, che lo ascoltano a prescindere, come fosse un’autorità più importante di Dante stesso, perché è grande abbastanza da ispirare un senso generico di ammirazione e rispetto, ma non vecchio abbastanza da ispirare anche antipatia e fastidio a corollario delle sue buone qualità.
Il fratello di Francesco, Ivan, arriva una decina di giorni dopo, quando ormai la scuola è finita da un pezzo e, in risposta a questo, Francesco passa l’interezza delle sue giornate appiccicato a Dante. È in ritardo sui tempi – cosa che chiaramente mette Francesco in uno stato di profonda agitazione che si diffonde come non fosse mai esistito quando lui finalmente arriva. Ne parlano, una sera, distesi sotto gli aranci, tutti sporchi di terra dopo essersi fermati a metà strada fra il campetto e la casa in collina per scambiarsi qualche bacio premuti contro il tronco degli alberi, ed essere finiti a scambiarsi qualcosa di più carponi sulla terra umida e scura dell’agrumeto.
- Hai cambiato faccia, da quando è tornato tuo fratello. – commenta Dante, sorridendo divertito.
Francesco ride, il petto che si alza e si abbassa al ritmo dei suoi respiri, la pancia lasciata scoperta dalla maglietta arrotolata attorno ai fianchi, il tatuaggio in bella mostra.
- Sono più felice, quando c’è. – risponde con un sorriso.
- Siete molto attaccati? – domanda Dante, voltandosi su un fianco a guardarlo. Baciata dal sole in questo principio di tramonto reso ancora più aranciato dai frutti rotondi fra i rami degli alberi e sparpagliati per terra intorno a loro, la pelle abbronzata di Francesco sembra quasi dorata. C’è qualcosa in lui che va oltre la semplice bellezza. La salute, la forma fisica, l’età, se anche Francesco non fosse bello quanto è bello, sembrerebbe bellissimo comunque. La forza e la giovinezza di ogni suo lineamento, di ogni muscolo in rilievo, della pelle perfettamente tesa e soda, compenserebbero per qualsiasi difetto.
- Sì. – annuisce lui, - È la persona migliore che conosco. E poi è riuscito ad andarsene. Per me, è un eroe.
Dante non indaga oltre, quel pomeriggio, ma gli sembra di intravedere una crepa, nel sorriso sereno di Francesco, una sorta di frattura che per la maggior parte del tempo resta nascosta dietro quel suo incrollabile buonumore, ma che ogni tanto emerge nei momenti più impensati, quando si sente in colpa per qualcosa, o quando qualcosa che aveva pianificato nel dettaglio finisce per andare diversamente da come lui l’aveva pensata. In quei momenti, quando il sorriso di Francesco si fa più vago, quando i suoi occhi si fanno sfuggenti e quando comincia a cercare il contatto fisico per poter smettere di parlare, Dante ha come l’impressione di vedere la sua parte nascosta emergere in quei dettagli, e gli sembra di potergli stare più vicino.
Ivan ci tiene a farsi una chiacchierata solo con lui, quando finalmente Francesco li presenta, cosa che avviene al campetto, ovviamente.
- Wow. – ride, arrivando assieme a suo fratello, - È ancora in piedi, questa roba oscena?
Si guarda intorno, osservando il campo dalle linee storte e sbilenche, le porte tirate su con vecchie assi di legno verniciate di un bianco ormai sbeccato, le reti consunte, la panca tutta cigolii e scricchiolii. Dalle sue parole non si direbbe, ma guardandolo negli occhi Dante capisce che conserva un certo affetto, per quel posto.
Dopo aver mandato Francesco a riscaldarsi con gli altri, Dante si presenta. Ivan gli stringe la mano, guardandolo con la stessa aria spavalda che Dante ha ormai imparato a riconoscere come uno dei tratti distintivi di Francesco, e che quindi, a questo punto, immagina debba essere una cosa di famiglia.
- Non volevo crederci, quando Francesco me l’ha detto. – ride divertito, - Ma sei davvero tu.
- Già. – risponde Dante, abbozzando un mezzo sorriso incerto, - Piacere di conoscerti.
- Piacere mio. – annuisce Ivan, - Come stai? Il ginocchio?
- Meglio. – scrolla le spalle lui, - Per quanto meglio possa andare.
- Ti fa faticare, eh? – ride Ivan, accennando col capo al fratello che corre all’indietro un paio di metri avanti ad Emi, tutto intento a raccontargli qualcosa che, evidentemente, non può aspettare la fine dei trenta giri di campo previsti per essere raccontata.
- Cosa? – Dante si volta a guardarlo, gli occhi spalancati, e si ritrova ad arrossire come un deficiente.
Ivan ride ancora. La sua risata fa lo stesso suono di quella di Francesco, e mentre la ascolta Dante capisce che è il suono di una risata libera, la risata di qualcuno che ha sempre riso tanto, bene e spesso, che si è sempre sentito libero di farlo, che ha sempre saputo di avere il diritto di farlo. Il diritto di ridere.
È quello che Dante vuole. Lo realizza in quel momento, mentre Ivan lo prende serenamente in giro per una cosa per cui qualunque altro essere umano dotato di appena più buonsenso lo rimprovererebbe aspramente. Vuole il diritto di ridere. Il diritto di essere felice ancora. E non gli interessa più che non possa essere la stessa felicità stupida, irriverente e assoluta che provava da ragazzo sui campi della Serie A, sui campi di tutta Europa. Non gli interessa che non possa più essere quella felicità totale e senza imbarazzi che lo faceva sentire orgoglioso di se stesso quando segnava, non importa che quella particolare sensazione specifica che lo faceva svegliare ogni mattina contento di sé sia ormai persa per sempre. Ne vuole un’altra. Vuole tutta la felicità che può avere, tutta quella che gli resta.
- Gli devo tutto. – dice. Se lo lascia scivolare fra le labbra in un bisbiglio che Ivan capta solo perché sono molto vicini.
Dante resta in silenzio mentre Ivan lo scruta con aria perfino incuriosita per qualche secondo, e poi si scioglie in un sorriso comprensivo.
- Sta’ tranquillo, - gli risponde, - Lui ti deve altrettanto. Sarebbe impazzito se non gli avessi dato qualcosa da fare per il resto dell’estate. Ed è un bene che sia stato proprio questo, tutto considerato. A parte il fatto che è riuscito a riunire praticamente tutto ciò che ama in un posto solo. – ride divertito, - È un bene perché è un primo passo verso quello che vuole, immagino.
Dante aggrotta le sopracciglia, piegando appena il capo.
- Che intendi?
Ivan gli lancia un’occhiata un po’ sorpresa, sbattendo le ciglia un paio di volte, e poi sorride ancora.
- Non hai mai chiesto a mio fratello cos’è che vuole fare da grande? – domanda. Dante risponde scuotendo il capo, ed Ivan ride. – Chiediglielo, allora.
*
Nel corso dell’ultimo mese, fra un allenamento e una visita a casa, a un certo punto Francesco gli ha rubato le chiavi. Non che l’abbia fatto di nascosto, ovviamente. Semplicemente un giorno, prima di andare via dopo aver passato la notte da lui, se l’è fatte scivolare in tasca. Gli ha detto “te le riporto domani”, e in effetti l’indomani è tornato per tenere fede alla propria promessa. In più, gli ha mostrato il doppione che ha fatto fare per sé. “Era inutile che continuassi a non averle, no?” gli ha detto, con una semplicità disturbante, come fosse una cosa ovvia. Non lo era, naturalmente, ma un sacco di cose che prima non erano ovvie adesso che lui e Francesco si frequentano con una certa stabilità lo sono diventate. Dormire abbracciato a qualcuno, per esempio. Non mangiare più da solo. Guardare la televisione commentando con qualcuno quello che si sta vedendo. O cercare di resistere alle sue mani che si infilano nei pantaloni quando si vuole davvero tanto guardare un film che lui trova insopportabilmente noioso.
Non è che stiano proprio insieme, sarebbe una cosa ridicola. Non è che convivano, sarebbe una cosa ancora più ridicola. Dividono gli spazi, però. Tutti, non solo quelli fisici. Dividono pezzi via via sempre più consistenti delle loro vite, e Dante non ha idea di cosa ci sia alla fine della via che stanno percorrendo. Alla fine della via che percorre ogni giorno quando esce di casa c’è un campetto tutto storto con cinque ragazzini più due uomini quasi adulti che tornano bambini per le tre ore in cui si allenano sotto la sua guida. Se la destinazione ultima della strada che percorre con Francesco è bella anche meno della metà di questa, è a posto.
Francesco entra con le sue chiavi, alle quali ha appeso il portachiavi della sua squadra del cuore, che è la stessa per la quale Dante giocava prima dell’infortunio. Domani partono per il torneo, e lui non dovrebbe essere qui, adesso.
- Dovresti essere a casa a preparare la borsa. – lo rimprovera pigramente Dante, senza alzare lo sguardo dal sudoku che l’ha tenuto impegnato per gli ultimi venti minuti circa. Prima che Francesco entrasse nella sua vita, passare il tempo così era la norma. Passava intere giornate di fronte alla settimana enigmistica, perché non aveva nient’altro da fare, ed il fatto di non avere nient’altro da fare rendeva il passatempo odioso, per quanto necessario per evitare la tentazione di saltare giù da uno sgabello con qualche metro di corda grezza annodato attorno alla gola. Adesso avere cinque minuti liberi per riuscire effettivamente a portare a termine un cruciverba è un evento talmente raro che Dante sta lentamente reimparando a trovarlo piacevole.
La borsa nera di Francesco, chiaramente piena, atterra sul divano accanto a lui con un tonfo sordo.
- Ah. – ride lui, - Come non detto.
- Sono nervoso. – borbotta Francesco, planandogli addosso, - Distraimi.
- Non sono un’odalisca e questo non è un harem. – protesta lui, ma quando Francesco preme le sue labbra contro le proprie non si tira indietro, e lo bacia piano, avvolgendogli le braccia attorno alla vita. – Perché sei nervoso? – gli chiede quando si separano.
Francesco lo abbraccia stretto, disegnando ghirigori senza senso sulla sua nuca con la punta dell’indice.
- Boh, la competizione mi mette ansia. – risponde, - Non voglio perdere.
- Se anche perdessimo alla prima partita, non sarebbe una tragedia. – lo rassicura lui, - D’altronde ci siamo allenati poco. Possiamo sempre riprovarci, non sarà mica l’ultimo torneo di calcetto della storia.
- Sì, lo so… - sospira Francesco, allontanandosi solo per baciarlo ancora, - Ma lo stesso. È una cosa importante, capisci?
Potrebbe chiedergli perché, ma dubita che Francesco risponderebbe in maniera chiara e onesta. Le domande complesse lo confondono, è sempre portato a cercare di evitarle.
Dante ripensa ad Ivan, al loro colloquio a due quando si sono conosciuti.
- Cosa vuoi fare da grande, Fra’? – gli domanda a bruciapelo, guardandolo dritto negli occhi.
Francesco trattiene il fiato per un paio di secondi. Poi risponde.
- Il calciatore.
- Perché?
- Perché sono bravo a giocare a calcio. E voglio andarmene di qui. E non sono come Ivan, non la prenderò mai una borsa di studio. Che poi nemmeno la voglio, non mi ci vedo all’università. Non è cosa per me.
Dante ride, annuendo.
- È vero. – conferma.
- Non mi prendere in giro. – protesta Francesco, schiaffeggiandogli lievemente la nuca. Poi sorride, stendendosi contro il bracciolo. – È una cosa importante. È quello che ho sempre voluto fin da piccolo. È il mio biglietto di sola andata, capisci? E questo è il primo passo. – si ferma a riflettere per un po’ in silenzio, e il suo sorriso si allarga. – È il primo passo che faccio, capisci?
Dante sorride, guardandolo teneramente. Può già vederlo, fra cinque anni. Lo stadio che si spalanca di fronte a lui all’uscita dal tunnel, i tifosi che esplodono in un boato al solo vederlo, le esultanze esagerate dopo i gol. Sì, Francesco è decisamente uno che dopo aver segnato esulterebbe tantissimo.
- Capisco. – dice quindi, annuendo, - Ma se segui questo stesso ragionamento, allora non importa tanto che questo torneo si vinca o si perda. Intendo, stai facendo un passo in quella direzione. Che t’importa se dopo averlo fatto cadi? Cadi sempre un passo avanti, mica un passo indietro.
Francesco schiude le labbra, guardandolo con stupore non simulato. È evidente che non ci aveva pensato, ma l’idea gli piace.
Sorride annuendo.
- Resto qui, stanotte. – annuncia poi, sollevandosi a sedere sulle sue ginocchia per stampargli un bacio asciutto sulle labbra prima di rotolare lontano da lui, giù dal divano, e trotterellare sereno verso la cucina.
- E quando mai. – sospira Dante, abbattendosi contro lo schienale.
- Come hai detto?
- Ho detto fai come se fossi a casa tua. – mente lui, sorridendo. Francesco lo sa e, la testa ficcata dentro il frigorifero in cerca di qualcosa di commestibile, ride.
Dante mette via il sudoku.
Quello che non ho è quel che non mi manca.
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