Genere: Introspettivo, Triste.
Rating: PG-13
AVVISI: Boy's Love.
- Una spiaggia lunghissima, che si perde nel mare davanti e nella città dietro. Una macchina, due ragazzi. Un amore già finito. Con tanta voglia di scappare.
Commento dell'autrice: …no, guardate, non chiedete XD È stata tutta colpa di quest’immagine qui (cover di You Don’t Care About Us, secondo singolo estratto da Without You I'm Nothing, secondo album di studio dei Placebo). È stata colpa di quell’immagine e, fondamentalmente, di Erisachan, che m’ha spronata a scriverla nonostante non mi convincesse neanche un po’. Stessa cosa dicasi per la Lemmina, che mentre stavo a rotolare nell’indecisione mi ricopriva di complimenti (come al solito immeritati) ridandomi un po’ di coraggio.
Che dire? È una storia incredibilmente lontana dal mio modo di sentire le cose. Anche se forse non poi così tanto. Scrivere di sedicenni è sempre così dannatamente difficile, quando non lo sei più O_O E poi questi due in particolare erano così emo! *piange*
La canzone citata all’inizio è Homecoming di Vienna Teng, e sia questa che l’ultima battuta di Adrian sono le citazioni che mi permettono di partecipare al contest indetto da Harriet sul suo LJ. Il tema del viaggio, invece, accoppiato al tema della non esistenza (spero si intuisca fra le righe di che tipo di non esistenza volevo parlare ._.”), è ciò che mi permette di partecipare al contest indetto da Crimson sulla True Colors community. Evviva i contest XD
Il titolo della storia, invece, viene dalla famosissima ed omonima canzone dei Metallica, che io adoro.
Prima di lasciavi andare, un ulteriore ringraziamento, oltre alle già citate Erisachan e Lem, anche a Nai e Yul, per l’enorme supporto.
Rating: PG-13
AVVISI: Boy's Love.
- Una spiaggia lunghissima, che si perde nel mare davanti e nella città dietro. Una macchina, due ragazzi. Un amore già finito. Con tanta voglia di scappare.
Commento dell'autrice: …no, guardate, non chiedete XD È stata tutta colpa di quest’immagine qui (cover di You Don’t Care About Us, secondo singolo estratto da Without You I'm Nothing, secondo album di studio dei Placebo). È stata colpa di quell’immagine e, fondamentalmente, di Erisachan, che m’ha spronata a scriverla nonostante non mi convincesse neanche un po’. Stessa cosa dicasi per la Lemmina, che mentre stavo a rotolare nell’indecisione mi ricopriva di complimenti (come al solito immeritati) ridandomi un po’ di coraggio.
Che dire? È una storia incredibilmente lontana dal mio modo di sentire le cose. Anche se forse non poi così tanto. Scrivere di sedicenni è sempre così dannatamente difficile, quando non lo sei più O_O E poi questi due in particolare erano così emo! *piange*
La canzone citata all’inizio è Homecoming di Vienna Teng, e sia questa che l’ultima battuta di Adrian sono le citazioni che mi permettono di partecipare al contest indetto da Harriet sul suo LJ. Il tema del viaggio, invece, accoppiato al tema della non esistenza (spero si intuisca fra le righe di che tipo di non esistenza volevo parlare ._.”), è ciò che mi permette di partecipare al contest indetto da Crimson sulla True Colors community. Evviva i contest XD
Il titolo della storia, invece, viene dalla famosissima ed omonima canzone dei Metallica, che io adoro.
Prima di lasciavi andare, un ulteriore ringraziamento, oltre alle già citate Erisachan e Lem, anche a Nai e Yul, per l’enorme supporto.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
NOTHING ELSE MATTERS
#14. Il viaggio
Well we all write our own endings
and we all have our own scars,
but tonight I think I see what it's all about
La spiaggia biancheggiava splendida oltre il guard-rail, e la costa si curvava naturalmente e dolcemente seguendo l’abbraccio del mare, ripiegandosi su se stessa in una piccola baia protetta verso nord e perdendosi nel grigiore dell’autostrada e del porto cittadino verso sud.
Una mano fuori dal finestrino a sfidare coraggiosamente i venti, Mike ne fissava le forme sinuose, quasi femminili, e sorrideva fra sé. Non perché ci fosse effettivamente qualcosa di divertente in ciò che stavano facendo, né perché riuscisse a cogliere una qualche sottile e crudele ironia nell’identificare in una donna qualcosa che amava tanto come la spiaggia, quando in realtà tutto ciò che amava davvero poteva essere tranquillamente ridotto alla curva precisa e virile dello zigomo di Adrian.
Sorrideva perché la sensazione del vento sulla pelle lo ricopriva di brividi piacevoli.
Sorrideva perché la radio stava passando una vecchia canzone dei Placebo e non gli era mai capitato di sentirla se non su CD.
Sorrideva perché Adrian diceva spesso di odiarli – anche se lo diceva solo per irritarlo, dal momento che sapeva a lui invece piacessero tantissimo – ma stava lo stesso canticchiando a bassa voce la melodia, muovendo lievemente il capo a destra e sinistra.
Sorrideva perché era perfettamente consapevole d’essersi imbarcato nella follia più tragica della propria vita.
Sorrideva perché si sentiva uno stupido e gli andava bene così.
Gli idioti sorridono sempre, pensò fra sé, concedendosi anche una risatina un po’ amara, mentre ritirava il braccio e si sporgeva ad alzare il volume della radio sull’inizio della seconda strofa.
- You’re at the wrong place… - canticchiò lievemente, mugolando qualcosa di incomprensibile sulla parte del verso che non ricordava, - You’re in the getaway car…
- Dai, Molko è già abbastanza lagnoso di per sé… - lo riprese Adrian senza guardarlo, continuando a fissare la strada ma regalandogli un sorriso ironico e intenerito.
Lui rispose con una lamentela inarticolata.
- Questa canzone piace anche a te! – commentò, ritirandosi offeso sul proprio sedile, nell’angolino più lontano da lui, schiacciato contro la portiera.
- Stai attento, che la macchina è vecchia… - lo avvertì lui, lanciandogli una breve occhiata ansiosa, - Non mi fido delle sicure.
Mike sospirò e si rimise composto, fissandosi silenzioso le ginocchia.
- Senti… - borbottò poco dopo, tornando ad abbassare il volume sulla pubblicità, - Quand’è che ci fermiamo un po’?
Adrian scrollò le spalle.
- Dopo il confine, penso.
Mike si morse le labbra.
- Allora sei deciso?
Al suo fianco, Adrian sospirò e mise la freccia, rallentando progressivamente fino a fermarsi in una rientranza silenziosa della strada.
- Tu no? – gli chiese, voltandosi finalmente a guardarlo per la prima volta da quando erano partiti.
Si lasciò andare di schiena contro il sedile. Si detestava, davvero, quando indietreggiava così di fronte a lui. Lo metteva in una posizione di vantaggio.
Adrian era sempre in una posizione di vantaggio.
Ti va di andare a bere qualcosa?
Si.
Vuoi salire un po’ da me?
Sì.
Posso darti un bacio?
Sì.
Posso toccarti…?
Sì.
Vuoi venire con me?
Sì, sì, sì. Sempre sì.
Era quasi divertente.
In realtà Adrian non era in una posizione di vantaggio.
Era lì, in alto, sul piedistallo al di sopra del quale lui stesso l’aveva posto.
Poco da fare.
- Non avremo qualche problema? – biascicò incerto, stringendosi nelle spalle.
Adrian sorrise divertito e tornò a guardare la strada, rimettendo in moto la macchina.
- Per ora non m’importa. – rispose distrattamente, guardando indietro prima di rientrare in autostrada. – Vedremo poi.
Mike annuì e tornò a distendersi sul sedile, guardando fuori.
Vedremo poi.
Era sempre stato un po’ il loro cavallo di battaglia, no?
Sì. Per quanto “sempre” potesse essere un termine un po’ azzardato – sei mesi. Sei mesi non sono un “sempre” neanche se ci credi con tutte le tue forze. Sei mesi sono un bruscolino di polvere. Sei mesi sono un battito di ciglia. Uno spasmo muscolare. Sei mesi non sono niente – era comunque stato sempre così che erano riusciti ad andare avanti.
Ma sì.
Siamo due ragazzini, ma ci penseremo poi.
Non eravamo nemmeno omosessuali, fino a ieri, ma ci penseremo poi.
Non ci siamo mai visti prima d’ora, ma che vuoi che sia.
Fa male, ma forse passerà, vedremo.
E quando non sei qui mi sembra di non riuscire a pensare parlare respirare, ma insomma, che problema vuoi che sia, in fondo?, forse passerà, forse no, forse mi piace, forse no, forse nemmeno m’interessa, vedremo poi.
Stringimi soltanto, al resto penseremo poi.
Ed alla fine il poi arriva. Ti sorprende all’improvviso, proprio mentre stavi per rimandare le riflessioni all’ennesima prossima volta. Ti becca con le mani nel vasetto della marmellata. E per quanto dolce sia non riesce mai a distrarti abbastanza da concederti un’altra settimana di spensierata follia.
Il poi possono essere tante cose.
Un amico che ti vede per strada e comincia a pensare.
Un pettegolezzo scomodo che striscia velenoso per i corridoi a scuola.
Un genitore preoccupato che entra in camera e ti chiede “cosa c’è? Sei così cambiato… non ti capisco più”, dimostrandoti invece di aver capito tutto fin troppo perfettamente.
Perfettamente al punto che… cosa puoi fare, oltre a scappare via?
Sì, certo, puoi restare, comportarti da adulto e fronteggiare le conseguenze delle tue azioni.
Ma non se…
Non se…
“Noi abbiamo sedici anni, Mike. Io non intendo farmi rovinare la vita così presto. Non intendo trattenere neanche un insulto. Non intendo subire nemmeno un rimprovero. Non intendo sottostare a nessuna presa per il culo.
Ma non intendo neanche separarmi da te, però.
Dai. Scappiamo insieme. Ti va?
Al resto penseremo poi.”
Sei mesi sono davvero troppo pochi. Lo sono al punto che ogni immagine dei tuoi ricordi è ancora perfetta e immacolata ed assolutamente fedele al momento che ritrae, come una fotografia.
Il suo profilo nettissimo contro le luci intermittenti verde acido della discoteca.
La pressione dolcissima delle sue mani suoi tuoi fianchi mentre, schiacciati contro il muro del corridoio di casa sua, cercate di trattenere le risatine complici e l’eccitazione smaniosa che attraversa i vostri muscoli come una corrente elettrica.
Il suo respiro affannoso sulle labbra, mentre ti si china addosso per sussurrarti “I miei dormono, fai più piano”.
Le sue braccia strette fortissimo attorno alla tua vita mentre cerchi di fargli capire che dovresti andare via e tornartene a casa tua, e lui risponde mugolando che vuole dormire con te e non gl’importa di doversi svegliare l’indomani ad un orario indecente per riaccompagnarti.
E le immagini di sei mesi prima sono perfette come quelle del giorno precedente.
La sporgenza spigolosa del suo gomito contro la carrozzeria grigia e sporca della macchina.
Il suo sorriso beffardo oltre il finestrino semichiuso.
La fascia nera attorno al polso sinistro.
La sua voce di miele. “Che fai ancora fermo lì? Andiamo?”.
Casa tua che si allontana.
La città che svanisce.
Il mare che prende il posto di tutto il resto.
La prima notte passata sul sedile posteriore della macchina, nascosti nel parcheggio di una stazione di servizio perduta nel niente fra la spiaggia e le montagne. Con la paura di sollevare una mano e toccarsi, perché non si sa mai, magari è un sogno e poi scompare. E poi riuscirci ed afferrare un lembo di maglietta fra le dita. Stringerlo forte, fino a farsi male. Fino a convincersi che è vero anche se tutti i sensi sono talmente confusi che non lo si potrebbe mai dire per certo. Sollevarsi appena ed incontrare un paio di labbra calde e lievemente esitanti. Gli occhi chiusi. Il sudore. La saliva. Le carezze. Finalmente.
La fotografia più bella restava comunque l’aver aperto gli occhi, quella mattina, ed aver visto per prima cosa il suo viso. Disteso. Placidamente addormentato. Il petto scosso appena dai respiri che ad ogni movimento si sfregava debolmente contro il suo. Quieto. Morbido. Dolce.
- Sono un po’ stanco…
…e mi bruciano gli occhi.
Tu me lo sai spiegare il perché, Adrian?
Lui sospirò e ridacchiò a bassa voce, scuotendo il capo in segno di falsa rassegnazione.
- L’ho capito che vuoi fermarti. – annuì alla fine, sorridendogli teneramente, - Dormiamo in spiaggia, stanotte. Ti va?
Che domande.
Sì.
Come sempre.
*
Se avesse voluto essere sincero con lui, gli avrebbe detto a chiare lettere ciò che pensava di quello che stavano facendo. Ossia che si trattava di un’assurdità. Di un estremo tentativo di salvataggio destinato al fallimento. Di un gioco al massacro, anche: perché, quando quella follia si fosse conclusa, di loro due non sarebbe rimasto proprio niente.
Purtroppo, però, era innamorato.
Quando sei innamorato, la sincerità entra in gioco molto meno spesso di quanto non dovrebbe.
Per la verità, aveva sempre trovato piuttosto ridicoli i grandi discorsi sull’essere onesti con la persona amata e simili sciocchezze. Si riesce ad essere completamente sinceri solo con le persone di cui non ci interessa un accidenti. Perché non c’importa di ferirli, di farci odiare, di rovinare il rapporto che abbiamo con loro.
Con quelli che ami è tutto più complicato. Di quelli che ami non puoi fare a meno. Il solo pensiero di poter dire o fare qualcosa che potrebbe allontanarli ci spaventa come il pensiero della morte stessa.
Non c’è scampo.
Amava abbastanza Adrian da desiderare di potergli raccontare una bugia dolcissima fino alla fine dei tempi.
La stessa bugia in cui Adrian credeva fermamente: quella per la quale c’è sempre tempo per risolvere i casini. Ma dopo. Solo dopo. Dopo un bacio. Dopo una carezza. Dopo una risatina tenera. Dopo.
Come coppia, loro due stavano già diventando uno squallidissimo niente.
Ci vuole coraggio, per ammettere certe cose, ma sono proprio le cose peggiori quelle delle quali è indispensabile prendere atto.
Le storie molto intense finiscono sempre con l’azzeramento dei contatti. Perché se non falci via dalla tua vita l’altra persona, ciò che è stato, il suo viso ed il suo profumo, come puoi anche solo pensare di ricominciare a vivere decorosamente?
Non puoi. Non ci riesci e non vuoi.
Arrivati a quel punto, era perfino difficile ricordare il motivo per il quale erano scappati.
Per i loro genitori? Perché la situazione si stava facendo pesante? Perché volevano un po’ di tempo da dedicare l’uno all’altro senza interferenze esterne?
…perché sentivano già avvicinarsi le punte taglienti come pezzi di vetro del loro personalissimo finale? Si sentivano già addosso i graffi, le ferite aperte ed i rivoli di sangue a solcare la pelle fino a gettarsi nel vuoto e cadere a terra?
- Stanotte moriremo di freddo. – constatò Adrian, le mani sui fianchi e lo sguardo a scrutare fieramente l’orizzonte, sollevandosi in piedi al suo fianco.
- Colpa tua. – rimarcò Mike, restando accucciato accanto alla macchina che, non senza difficoltà, avevano spinto fino alla spiaggia. – Non hai pensato a portare niente.
E non l’hai pensato perché sei solo molto distratto?
Perché pensavi di poter trovare ciò che ci serviva lungo la strada?
O perché non credevi veramente che ne avremmo avuto bisogno?
Adrian si strinse nelle spalle, accucciandosi sui talloni di fronte a lui.
- Dobbiamo ripararci, in qualche modo. – constatò seriamente, - Aiutami a rovesciare la macchina.
Mike sollevò gli occhi dalla piccola conchiglia violacea che aveva individuato da qualche parte fra le sue scarpe, e lo guardò.
- Come?
- Aiutami a rovesciare la macchina. – ripeté Adrian, rimettendosi in piedi, - Almeno ci proteggerà dal vento.
- …non potremmo dormirci dentro? – suggerì lui, inarcando implorante le sopracciglia.
Adrian scosse il capo.
- Abbiamo deciso di dormire in spiaggia. Dormiremo in spiaggia. – disse. Perfino troppo pacatamente. – Ti piace il mare, vero?
Mike si mordicchiò il labbro inferiore, abbassando lo sguardo.
- Sì. – rispose piano, puntellandosi con le mani sul terreno cedevole per alzarsi a propria volta.
La carrozzeria ed il motore e gli interni e l’enorme peso vuoto del bagagliaio erano quasi insostenibili. Quella vecchia carcassa scricchiolava come un antico maniero diroccato. Le dita strette saldamente proprio sotto lo sportello sporco ed arrugginito, cercò di fare forza sulle gambe per non cadere di schiena all’indietro, mentre Adrian rideva dei suoi sforzi e gli consigliava di aspettare almeno che anche lui cominciasse a spingere, prima di spaccarsi inutilmente in due.
Quando riuscirono a mettere la macchina in equilibrio sul fianco, si abbandonarono entrambi esausti proprio accanto alla carrozzeria. Mike tornò a sedersi per terra, nascondendo lo sguardo fra i granelli di sabbia, ed Adrian si accucciò nuovamente sui talloni, appoggiandosi di schiena al cofano arrugginito e sospirando pesantemente.
- Non è molto stabile. – commentò Mike, allungando una mano a recuperare la conchiglia violacea, sorprendentemente ancora al suo posto, - Scommetto che stanotte ci cadrà addosso, ci schiaccerà e moriremo senza neanche accorgercene.
Adrian sorrise e si concesse uno sbuffo divertito, ma non rispose.
Mike sospirò e si lasciò andare di schiena sulla sabbia, allargando le braccia dietro la testa e cominciando a muoverle come un bambino che gioca a fare gli angeli nella neve.
- Sei fuori stagione. – commentò Adrian, stendendoglisi accanto e poggiando il mento sul palmo della mano, per guardarlo dall’alto. Lui scrollò le spalle ed evitò i suoi occhi, continuando a giocare come non avesse sentito niente. Adrian inarcò le sopracciglia e si chinò sul suo viso. – Non mi vuoi più parlare?
Mike si morse un labbro ed utilizzò il dolore che riuscì a procurarsi come un freno.
Mai dire la verità. Mai, mai, mai.
Adrian non aspettò una sua risposta. Sorrise ed annullò l’esigua distanza che ancora li separava, posando le labbra sulle sue in un bacio molto più tenero che appassionato. Molto più fraterno che innamorato. Molto più simpatetico che complice.
- Mi piaci anche per questo. – gli disse poi ad un centimetro dal suo viso, - Tu non riesci proprio a gestire niente, vero?
Mi piaci.
Non ti amo.
C’erano stati dei ti amo, fra loro, come ce ne sono in tutte le coppie. Mike li ricordava. Ricordava di averci pianto di gioia nel letto, vergognandosi come un ladro perché piangere non è da maschi, nemmeno piangere di gioia, e non lo è soprattutto nel momento in cui lo fai per un altro uomo. I ti amo di Adrian, poi, erano particolarmente indimenticabili. Perché suonavano diversi, Adrian aveva una voce dolce, suonavano più convincenti, Adrian sapeva essere dannatamente persuasivo, o…
…o forse era solo normale che sembrassero così, perché nei ti amo uno non cerca mai la verità, no, nei ti amo uno cerca una bugia rassicurante. Come sempre. Come per tutto ciò che riguarda l’amore.
Ciò che vuoi non è che ti venga detto chiaramente come stanno le cose, perché il modo in cui le cose si mettono non è mai abbastanza comodo da permetterti di adagiarti fra loro come su un divano e poi pensare a risolverle.
Ciò che vuoi è che qualcuno ti dia un bacio, una carezza, un abbraccio. E ti dica che va tutto bene. Che lo faccia sempre. Indipendentemente dallo schifo che ti sta circondando nel frattempo.
Mike sollevò le braccia e strinse Adrian a sé. Vagamente sorpreso, lui si lasciò andare ad uno sbuffo contrariato ma gli permise di trascinarlo verso il basso, fino a nascondere il viso nel suo collo per evitare di finire soffocato dalla sabbia.
- Ci arriveremo davvero al confine, Adrian? – chiese, fissando il rosso quasi scarlatto del cielo al tramonto e cercando di convincersi i suoi occhi stessero bruciando solo per un riflesso del sole morente.
Adrian non rispose immediatamente. Sollevò a propria volta le braccia e lo allacciò alla vita, sospirando fra i suoi capelli e dandogli i brividi lungo tutta la spina dorsale.
- Sei tu che non ci vuoi arrivare. – disse infine, lasciandogli un breve bacio sullo zigomo, - Fosse per me, ti porterei in capo al mondo.
- …non è giusto che tu dica una cosa simile. – si lamentò, stringendo il tessuto della sua maglietta fra le mani.
- No? – rise piano Adrian, strofinando il naso contro la sua pelle, - È falso, per caso?
Mike deglutì e cercò di impedirsi di scoppiare a piangere.
- …no. – ammise infine, tirando su col naso, - Ma fa male.
Adrian ridacchiò e si issò sulle braccia, tornando a guardarlo negli occhi.
- Come sempre. – commentò. – Come tutto, Mike.
- …io non voglio farci l’abitudine…
- Ed io non te lo sto chiedendo. – rise ancora lui, socchiudendo lievemente gli occhi. – I sacrifici non mi piacciono. Odio costringere gli altri ed odio doverli fare io stesso. Fosse per me, - si strinse nelle spalle, sbuffando vago, - nessuno rinuncerebbe mai a nulla.
Mike abbassò lo sguardo e chiuse gli occhi. Probabilmente sfuggì qualche lacrima, ma lui non se ne accorse.
- Dammi ancora un po’ di tempo. – disse la voce dolce di Adrian direttamente al suo orecchio, così vicina da assumere una consistenza fisica, - Un giorno, due giorni. Non di più. Te lo prometto. E dopo ti riporto a casa.
Quando Mike riaprì gli occhi – non potevano essere passati più di un paio di minuti da quando li aveva chiusi – il cielo scarlatto era scomparso per lasciare posto a suo fratello blu cobalto. Non era cambiato niente, rispetto a prima: Adrian lo guardava ancora dall’alto ed aspettava una sua risposta. C’erano i gabbiani che strillavano in lontananza e le onde del mare che facevano a gara per coprire le loro voci accavallandosi fragorosamente l’una sull’altra. La carcassa della macchina accanto a loro scricchiolava e fischiava sotto il peso del vento, ondeggiando pericolosamente.
- Va bene. – rispose a bassa voce, sporgendo il viso per un bacio.
Adrian lo accontentò senza aggiungere una parola.
E sulle sue labbra, mentre ne saggiava per l’ennesima volta la dolcezza e la morbida consistenza, Mike pensò che quello probabilmente non era stato proprio amore. Che era stato troppo breve, troppo strano, troppo disperato per poter essere considerato tale. Che fra vent’anni entrambi l’avrebbero già sepolto da tempo fra i ricordi vecchi e inutili, quelli fra i quali non vai a perderti neppure di tanto in tanto, neppure per la dolcezza della nostalgia in un momento triste. Che era stato perfino esagerato, quasi grottesco nella sua pure breve vita – un incontro casuale, uno sguardo imbarazzato, un bacio esitante, la paura, la fuga, l’esasperazione – per poterlo indicare e dire con certezza “eh, già, quello sì che era proprio amore”.
Forse, anche per queste cose, però, lo era stato davvero.
Con tutto il suo carico di assurdità. E di immotivata tristezza. Di ingiustificata emotività.
Forse sì. Forse era stato amore davvero.