Fandom: Originali
Genere: Erotico.
Rating: NC-17.
AVVISI: Slash, Underage, BDSM, Lemon.
- Lo scrittore preferito di Nico è il Dottor B., un ex psicoterapeuta che ha costruito la propria fortuna sui romanzi pornografici a tematica omosessuale coi quali inonda gli scaffali delle librerie di tutta Italia al ritmo sostenuto di una nuova storia ogni sei mesi. Particolarità di questi romanzi (oltre ad essere tremendi): parlare di BDSM in termini più espliciti di quanto chiunque abbia mai osato fare prima, almeno in questo pease. Particolarità che i libri, per la verità, condividono con chi li scrive. Ci mette pochissimo, Nico, a perdere la testa per il Dottor B. Il problema è che ci mette pochissimo anche il Dottor B., a perdere la testa per Nico.
Note: Continuano le storie originali slash che scrivo perché quest'anno va così! XD A questo giro, dopo i calciatori ghei + underage, tocca ad un vecchissimo plot che mi era stato suggerito nel corso della prima Badwrong Week a tema BDSM, e che vede coinvolti uno scrittore e un suo lettore. Più l'underage, ovviamente. Suvvia, ormai avrete capito che io non mi alzo nemmeno dal letto se almeno uno dei due personaggi non è minorenne. Però sto migliorando, visto? Sto usando un sacco di diciassettenni, invece che quattordici/quindicenni. Certo che è un miglioramento, maccosa e.e
Scritta per la quinta settimana del COW-T, Missione 3, a tema - ovviamente - BDSM. Enjoy \o\
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NICO E IL DOTTOR B.

Il primo libro che aveva letto fra i suoi era stato Istinti primordiali, la storia di un giovane studente universitario che scopriva, del tutto casualmente, che il suo professore preferito – quello che, durante le lezioni, sembrava sempre così misurato e posato, con quei suoi pullover smanicati sempre blu o neri sopra la camicia invariabilmente bianca – era in realtà professore di giorno ed uno dei Dom più richiesti nel circuito BDSM della comunità omosessuale di notte. Ai tempi, Nico aveva tredici anni, faceva un sacco di sogni strani, si fermava a guardare i ragazzi in piedi in metropolitana e si vergognava un casino di tutte queste cose. Con la sua paghetta aveva sempre comprato un libro ogni due settimane, ma erano sempre stati romanzetti per bambini. La roba del Battello a Vapore, le Brutte Scienze, i Piccoli Brividi. Qualche Istrice ogni tanto, quando si sentiva particolarmente riflessivo.
Nella sezione dedicata alla letteratura erotica, naturalmente, non si era mai soffermato se non per passare da quella dedicata alla narrativa generalista a quella in cui erano conservati fumetti e manga. Si sentiva in imbarazzo al solo pensiero. Non che spesso, passando là in mezzo, non si sentisse attratto da qualche copertina – tutte esplicite il giusto per attirare l’occhio verso quelle copertine scure, patinate, perlopiù ricoperte di frammenti di corpi nudi o intrecci sensuali di braccia e gambe, ma mai abbastanza da mostrare davvero qualcosa, e sicuramente nessuna delle cose che rendevano confusi e incasinati i suoi sogni ogni notte – ma si rifiutava categoricamente di fermarsi fra quegli scaffali, di esaminarne attentamente il contenuto. Era una paura primordiale, la sensazione atavica di essere sbagliato, di avere qualcosa da nascondere, di non riuscire nemmeno a immaginare cosa sarebbe potuto succedere se qualcuno l’avesse colto con le mani nel sacco mentre era tutto intento a sfogliare uno di quei pesanti volumetti. Il mondo, si diceva, sarebbe sicuramente crollato. Se qualcuno l’avesse visto fare una cosa del genere, sarebbe stato come dare via libera alla rotazione terrestre per invertire il suo senso, e scatenare una catastrofe naturale.
Aveva continuato ad attraversare velocemente quel corridoio, cercando di ignorare la tentazione rappresentata da quei libri e limitandosi a lanciare loro occhiate intense cercando di rubare particolari e dettagli da quelle loro copertine tutte uguali, per poco più di quattro mesi. Poi era cambiato qualcosa.
Era arrivato lui.
Il Dottor Lorenzo B. era uno psicoterapeuta, aveva esercitato la professione per anni, “ascoltando ogni tipo di storia”, diceva, “assistendo ad ogni tipo di repressione autoimposta”, e poi aveva deciso di scrivere un libro. Istinti primordiali, appunto. Non che fosse stato il primo a scrivere un romanzo a tematica BDSM e con protagonisti due omosessuali, naturalmente. La novità derivava più che altro dal tipo di esposizione che si era guadagnato. Prima di pubblicare, infatti, era stato opinionista per quanto riguardava psicologia e sessualità in un certo numero di programmi radiofonici e televisivi, guadagnandosi fin da subito una certa fama anche grazie al suo modo di esprimersi, diretto, schietto, del tutto privo di imbarazzi. “È sbagliato nascondersi dietro alle parole,” aveva detto in una delle lunghe interviste che avevano seguito la pubblicazione del suo primo romanzo, “Le parole dovrebbero esprimere, non mascherare. È il motivo per cui lo stile de miei racconti è così scarno, quasi nudo. Voglio essere onesto, coi miei lettori, non so se mi spiego. Voglio chiamare “cazzo” un cazzo, e “culo” un culo. Perché è quello che sono. Un cazzo e un culo.”
Non che Nico sapesse niente di tutto questo, è ovvio, quando quel giorno aveva attraversato il corridoio della letteratura erotica per fiondarsi nella sezione fumetti e manga per recuperare l’ultimo volumetto di Naruto. Si era fermato istintivamente, perché aveva percepito un cambiamento intorno a sé. Era passato là in mezzo tante di quelle volte che i dettagli del luogo si erano impressi nella sua memoria più per abitudine che perché lui avesse voluto farlo, ed era sicuro che si fosse sempre trattato di un ambiente uniforme, sei scaffali a parete, i libri sempre uguali con le costine piene di titoli evocativi rivolte verso i clienti – Il rapimento dei sensi, Estasi a colazione, Fammi tua – le nuove uscite appoggiate in modo da mostrare le copertine per attirare di più l’attenzione – un insieme di chiavi, lucchetti, catene, manette, “il sesso dev’essere una brutta roba”, pensava Nico ogni volta, “se tutte le immagini che lo richiamano devono far pensare a una prigione”.
Non ricordava ci fossero mai state due sezioni differenti, ospitate fra quegli scaffali. “Letteratura erotica” era la targhetta che identificava la prima, “letteratura omoerotica” la seconda. Una sezione piccolissima, ridotta a un paio di scaffali in basso, il primo occupato da un grande numero di copie dello stesso libro ed il secondo occupato da una serie di copie singole di vari libri tutti di dimensioni e formati diversi, che davano l’impressione di essere stati raccolti ed allineati in fretta e furia giusto per dare un posto a qualcosa che prima non l’aveva e che invece era fondamentale che l’avesse adesso. Il libro che campeggiava imperante sul primo scaffale era quello, Istinti primordiali.
Il nome dell’autore era scritto in un carattere grande quasi quanto quello del titolo, e Nico lo conosceva, aveva sentito suo padre parlarne con sua madre in una di quelle domeniche pomeriggio in cui, mentre lui restava accucciato sul divano in salotto per giocare alla Play, loro restavano seduti dall’altro lato, sua madre tutta intenta a completare la sua settimana enigmistica, suo padre tutto preso dalla lettura del giornale, sprofondato nella sua poltrona preferita. Lo facevano senza badare a ciò che dicevano, agli argomenti di cui parlavano, non come se non si rendessero conto che anche lui era lì e poteva starli a sentire, ma come se fossero profondamente convinti che, anche se lui li avesse ascoltati, non sarebbe riuscito a comprendere di cosa stessero discutendo. Era una convinzione radicata dentro di loro, quella di avere un figlio stupido. Nico immaginava fosse perché, non essendo loro mai stati due pozzi di scienza, davano per scontato che anche il prodotto della loro unione non potesse essere granché brillante. Le convinzioni dei suoi genitori per quanto riguardava genetica ed ereditarietà erano piuttosto nebulose.
Nico ascoltava, comunque. Ascoltava sempre. In quanto esponente della generazione dei nati nella seconda metà degli anni Novanta, il multitasking più che una capacità era un obbligo fisiologico insito nel suo stesso DNA. Non faceva mai una cosa per volta. Studiare e ascoltare musica. Guardare un film e giocare a Candy Crush. Leggere e tirare una palla di gomma contro il muro.
In quell’occasione aveva ascoltato suo padre e sua madre parlare e aveva aiutato 50 Cent a recuperare l’incasso di un concerto rubato sottraendo un anello a forma di teschio tempestato di diamanti a un sordido boss della droga iracheno.
“’Sto frocio,” aveva detto suo padre, “Non è per omofobia, una scelta personale è una scelta personale e non ho niente contro di lui, ma non è che per forza se ti piace una cosa devi sbatterlo in faccia alla gente. Io mica vado in giro a dire ai passanti quanto mi piacciono le donne e cosa ci faccio insieme quando ci vado a letto.”
“Ma dici lo psicologo, quello della tv?” aveva fatto eco sua madre, “Hai ragione. Ma poi, un così bell’uomo. Così distinto. Che spreco.”
“Per me può andare a letto con tutti gli uomini che vuole,” aveva insistito suo padre, “Ma vorrei non ritrovarmelo in prima pagina ogni mattina con qualche nuova rivelazione delle sue esperienze. E poi è diseducativo. È pure uno psicologo: questo vuol dire che un ragazzo che legge certa roba poi magari si convince che è normale. Non dico essere gay, non c’è nulla di male in quello, ma tutto il resto… il modo in cui ne parla… secondo me non dovrebbe avere tutta questa esposizione mediatica.”
Sua madre si era detta d’accordo, e la discussione era morta lì. Nico aveva solo dato una sbirciata al nome sul giornale. Gli era rimasto impresso come gliel’avessero marchiato a fuoco nel cervello. I sogni che faceva ogni notte parlavano più forte del disappunto di suo padre.
Per questo motivo, tutte le cose che pensava ogni volta quando si ritrovava a passare di lì, in quella specifica occasione non gli erano passate neanche per l’anticamera del cervello, e Nico si era fermato. Si era avvicinato agli scaffali, si era accucciato sui talloni per osservare i libri più da vicino e poi aveva preso in mano la novità, scrutando con un certo interesse la copertina, sulla quale due uomini, ritratti dalle spalle in giù, campeggiavano l’uno vicino all’altro. Il più grande dei due, quello col petto più ampio, con le spalle più larghe, aveva una mano nervosa e dalle lunghe dita forti stretta attorno alla cravatta bicolore dal nodo già quasi del tutto disfatto del più giovane, il quale aveva lasciato la giacca della divisa scolastica scivolare lungo le spalle e portava i primi due bottoni della camicia aperti. Nel complesso, niente di sconcertante. Anzi, una roba addirittura pudica, rispetto all’usuale sovrabbondanza di corpi quasi completamente nudi, coperti da un paio di veli in punti strategici, o all’occorrenza da un braccio o una mano, che normalmente vedeva imperare su quei ripiani.
Eppure, gli era subito venuto duro. Così, a fronte soltanto dello stimolo visivo. Era stata quasi una rivelazione, un’esperienza mistica. Aveva voluto quel libro prima ancora di conoscerne la trama, l’aveva voluto a prescindere, l’aveva desiderato in modo estremamente fisico.
Era corso verso le casse coprendone la copertina con la mano bene aperta, cercando di non attirare l’attenzione, e una volta lì, quando la commessa aveva dato un’occhiata al libro prima di passarlo davanti allo scanner, aveva subito chiesto la confezione regalo, per essere certo che lei non pensasse che l’aveva preso per sé. Una mossa puerile, vero, ma sul momento non ci aveva pensato. Aveva solo cercato una via di fuga momentanea, qualcosa che lo aiutasse a non arrossire troppo e non iperventilare, sperando che l’imbarazzo scemasse da sé mentre correva a casa stringendo il libro incartato fra le mani.
Ed era scemato. Nel momento in cui era riuscito a chiudersi a chiave in camera propria e a gettarsi sul letto per scartare il regalo che aveva palesemente fatto a se stesso, si era accorto di non sentirsi più tanto accaldato. Le mani non tremavano più, il respiro si era calmato, perfino quell’eccitazione dolorosa e nervosa che gli aveva tenuto compagnia lungo tutta la strada verso casa si era un po’ ammorbidita, pur senza assopirsi del tutto, come a rassicurarlo, invitandolo a fare con calma, procedendo con i propri tempi.
Aveva tirato fuori il libro dalla confezione, appoggiandolo sul cuscino dopo essersi voltato a pancia in giù sul letto. Aveva lasciato scorrere la mano bene aperta sulla copertina liscia e opaca, sentendone la morbidezza sotto le dita, accarezzando i caratteri in rilievo del titolo e del nome dell’autore. Poi si era concesso di rigirarsi il volumetto fra le mani, osservandolo da ogni lato, controllando il numero di pagine, dando un’occhiata alla biografia dell’autore – poche notizie essenziali, non abbastanza per giudicare lo scrittore, neanche lontanamente sufficienti per giudicare l’uomo – per poi leggere la presentazione del libro sul risvolto della sovraccoperta. Alessandro stima il professor Santieri come fosse un padre, ma una scoperta sconvolgente lo porterà presto a cambiare idea su di lui.
Cinquecento pagine, si era detto, stupito, cinquecento pagine di questa roba? Non avrebbe saputo come andare avanti cinquecento righe, con una trama del genere, figurarsi cinquecento pagine. La sua mente candida di bambino.
Aveva cominciato a leggere dubbioso, perfino prevenuto, quasi incazzato per essersi fatto prendere in giro da quella copertina e da quel titolo così invitanti, buttando via più di quindici euro per una roba simile.
Non era riuscito a staccarsi dalle pagine per tutto il resto del pomeriggio.
Arrivato a pagina cento, l’enormità del numero nell’angolo in basso a destra gli aveva quasi dato il panico, s’era subito voltato a lanciare uno sguardo allarmato verso lo schermo del computer per verificare di non aver passato lì accucciato a leggere l’intero pomeriggio, e quando aveva visto che, da quando era tornato a casa, erano passate non più di un paio d’ore, era rimasto sgomento dalla velocità con la quale quel primo quinto di romanzo era volato via.
Mentre passava da una scena di sesso all’altra in un’escalation di descrizioni sempre più esplicite e particolareggiate, bombardato con una violenza inaspettata – e inaspettatamente eccitante – da parole che lui e i suoi amici pronunciavano in genere solo quando sapevano con certezza che nessun adulto li stava ascoltando, in un tentativo maldestro e un po’ ridicolo di sentirsi grandi mettendosi in bocca termini dei quali non conoscevano la portata – cazzo, culo, scopata, succhiare, pompino, cappella, sperma; per dire i più blandi –, aveva improvvisamente realizzato di avere per le mani quello che sua madre chiamava “quella roba”, e che suo padre definiva, con più proprietà di linguaggio, pornografia. E non si era sentito in colpa.
Non si era sentito in colpa quel pomeriggio, leggendo avidamente fino al capitolo quindici quasi senza mai fermarsi, non si era sentito in colpa nei due giorni successivi che gli erano serviti per arrivare fino alla fine del romanzo, e non si era sentito in colpa quando, conclusa la prima lettura, era tornato immediatamente sui suoi passi, ripercorrendo la strada dall’inizio una seconda volta. Non si era sentito in colpa strusciandosi contro il materasso attraverso i vestiti fermandosi appena in tempo per impedirsi l’orgasmo, non si era sentito in colpa masturbandosi lentamente la notte, gli occhi chiusi e la mente piena di quelle descrizioni così vivide da proiettargli nella mente scene così particolareggiata da sembrare vere.
Aveva sostanzialmente scoperto di godersela un mondo, col porno. Ed era stato Istinti primordiali a spalancare le gabbie, ad abbattere la diga per la prima volta, a lasciare che la marea lo travolgesse impetuosa una volta, e poi un’altra, e poi un’altra.
Erano seguiti i film. Poi i film avevano cominciato a diventare noiosi. Era passato ai video. Svelti, precisi, chirurgici. Ragazzi bellissimi, dai corpi sodi e muscolosi, ammanettati, legati, incatenati, con un cazzo, un dildo o entrambi su per il culo, erezioni enormi piantate fino nelle gole di ragazzini solo di qualche anno più grandi di lui, le loro guance arrossate, il gorgoglio che sfuggiva loro dalla gola, quegli uomini enormi, così possenti, dalle spalle forti e larghissime, uomini che di notte tornavano a visitarlo nel sonno, uomini che gli facevano bisbigliare sì, ancora, più forte, di più, fammi male, mettimelo dentro, sussurri che gemeva contro il cuscino, stringendo la propria erezione fra le dita e masturbandosi velocemente mentre si lasciava scivolare due dita dentro cercando di non sentirle come proprie. O come dita.
I libri erano rimasti la sua cosa preferita, comunque. Lo lasciavano libero di immaginare di più, senza contare il fatto che proponevano una varietà di situazioni decisamente più ampia. Certa roba, lo capiva pure lui che non ne sapeva niente, era del tutto surreale, ma per qualche motivo non era un male che lo fosse. Doveva esserlo, anzi. Il Dottor B., come era affettuosamente – o ironicamente – chiamato dovunque si parlasse di lui, lo affermava esplicitamente, senza vergogna. “Dai, scrivo stronzate,” diceva ridendo agli intervistatori, offrendo loro un sorriso sghembo dall’aria infantile che finiva fin troppo spesso per fare arrossire chiunque lo stesse ascoltando, “Lo so io, lo sa chi mi legge. Il patto è questo. Posso scrivere quello che voglio, finché la gente che mi legge riesce a masturbarcisi sopra. Una specie di sospensione dell’incredulità applicata al porno, per così dire. Quando comincerò a smettere di ricevere mail di gente sconvolta che si introduce con non mi ero mai masturbato leggendo un libro, ma…!, quello sarà il momento in cui capirò di dovermi fermare.”
Non doveva essere successo, visto che ad Istinti primordiali era subito seguito, a distanza di pochi mesi, Oasi nel deserto – cronaca dell’intensa storia d’amore e sottomissione fra un sultano ed il capitano della sua guardia reale, “una sciocchezza di cui avevo il manoscritto pronto già da un po’” nelle parole del Dottor B., un malloppo da seicento pagine talmente intriso di porno da frastornarlo in quelle di Nico –, al quale era poi seguito Telefonare ore pasti – storia di un uomo sposato e delle sue parentesi di infedeltà nel sotterraneo di una villa di campagna agli ordini di un Dom detto Il Conte –, al quale era poi seguito Tuo – storia di due uomini persi in un vortice di passione e gatti a nove code che, nemici giurati all’inizio, finivano per instaurare un rapporto Dom/Sub intorno al terzo capitolo, lasciandone poi circa altri trentacinque di pornografia spinta purissima alla quale ricorrere per riempire ogni momento storto della giornata.
“È la proprietà migliore del porno, sai, Ilaria,” aveva detto il Dottor B., il solito fascinoso sorriso a piegare le belle labbra piene, invitato a parlare della sua ultima fatica (Tempesta di cuori) qualche mese dopo. Per allora, Nico aveva già riservato una parte dell’armadio alla segreta collezione dei suoi volumi, e lo idolatrava già abbastanza da sostituire la sua faccia a quella di qualunque personaggio maschile dominante apparisse nei suoi romanzi. Mentre sostituiva la propria a quella di tutti i loro sub, ovviamente. “La catarsi. Se non puoi masturbarti e poi sentirti meglio, se non puoi scopare e poi sentirti meglio, se non puoi – in sostanza – guardare o leggere un porno e poi pensare che ne sia valsa la pena, che senso ha guardarlo o leggerlo del tutto? È importante che chi legge i miei libri si senta libero di toccarsi leggendone le pagine, se vuole. È importante che sappia di poter leggere qualche ora al pomeriggio e poi stendersi nel proprio letto, da solo o in compagnia, ed utilizzare le fantasie che io gli ho venduto per prendersi dalla vita quel morso di piacere, mi spiego? Non è una transazione onesta, se questo non avviene. Cosa ho venduto al mio lettore? Un volumetto con sovraccoperta e qualche centinaio di pagine? Oppure un paio di centinaia di kilobytes? E cosa dovrebbe farsene? No, non è il fisico né il virtuale che vendo a chi ha la bontà di acquistarmi. Vendo una porzione di fantasia, la possibilità di strappare un morso di piacere alla vita. Commercio in felicità, io. E se i miei lettori sono scontenti di me, li prego di inviarmi le copie fisiche o virtuali dei romanzi che hanno acquistato e provvederò personalmente a risarcirli, dovessi anche perdere così tutto il mio patrimonio.”
Era evidente che suo padre si sbagliava, pensava Nico con convinzione, era evidente che sua madre si sbagliava. Era evidente che qualunque detrattore del Dottor B. non solo non aveva mai assaggiato la felicità della vita, ma si rifiutava perfino di comprendere l’importanza di quello che il Dottor B. scriveva, del messaggio che i suoi romanzi veicolavano.
Aveva cominciato a scrivergli intorno ai quindici anni, quando aveva ritenuto sicuro farlo. Il Dottor B. diffondeva sempre pubblicamente il suo indirizzo mail personale – o almeno quello che diceva essere il suo indirizzo mail personale – e, Nico pensava, mal che vada non riceverò nessuna risposta.
La risposta, in effetti non era arrivata per anni.
Fino a pochi giorni prima.
*
Aveva cominciato a scrivere romanzi per noia. “Noia” era una parola come un’altra per descrivere lo stato di assoluta immobilità fisica e mentale in cui si era ritrovato dopo tutta la faccenda di Robi. Perdere l’abilitazione l’aveva irritato, non tanto per il lavoro in sé, quanto per la generica ingiustizia della situazione. Lui e Roberto avevano avuto un rapporto sano, piacevole. D’accordo, lui era arrivato lì come paziente, ma i motivi per cui era convinto di avere dei problemi mentali erano del tutto surreali, e quando lui era riuscito a farlo ragionare, spiegandogli che in realtà non c’era proprio niente che non andasse in lui, il rapporto fra di loro si era evoluto in modo perfettamente normale. Anzi, era stato molto terapeutico introdurlo all’interno del proprio mondo, spiegargli le innumerevoli attrazioni che il suo giro poteva offrire ad un ragazzo coi suoi appetiti. D’accordo, forse prima di portarlo in giro per locali e cominciare effettivamente una relazione con lui avrebbe dovuto aspettare di non essere più il suo psicoterapeuta. E magari anche che compisse diciott’anni.
Ma erano chiaramente dettagli, dettagli che perdevano ogni importanza di fronte al risultato finale. Al termine della loro conoscenza, Roberto era un ragazzo sano, un ragazzo allegro, un ragazzo sereno. Da quello che Lorenzo era stato in grado capire dalle poche informazioni che era riuscito a recuperare dopo aver saputo che aveva cambiato città, era un ragazzo felice e tranquillo a sufficienza da intraprendere una nuova relazione con un nuovo Dom, altra cosa che aveva contribuito a lanciare Lorenzo in quella situazione di stasi assoluta che l’aveva accompagnato per un paio d’anni dopo la chiusura della sua attività professionale.
Non era stato un guizzo d’orgoglio a riportarlo sul mercato, era stata la noia. Era stato svegliarsi una mattina e rendersi conto di non riuscire più a sopportare l’idea di passare un’altra giornata davanti alla tv, o semi-sdraiato sul divano a leggere con disinteresse il nuovo numero della rivista specializzata che prima riceveva in studio e per la quale non aveva ancora disdetto l’abbonamento.
Doveva tornare a lavorare, ma riprendere l’esercizio era fuori discussione. Se anche fosse riuscito a convincere l’Ordine a riammetterlo, era sicuro che non sarebbe più riuscito a farlo. La psicologia era ancora il suo interesse maggiore, ma era sicuro al cento percento che non sarebbe mai più riuscito ad avere in cura nessuno. Forse, semplicemente, non era mai davvero stata la sua cosa.
Seduto alla scrivania di fronte al portatile e ad una pagina Word aperta e bianca come la paura, si era chiesto “cosa posso fare?” ed aveva stabilito di poter fare quello che tutte le altre persone passate per una débâcle come la sua avevano sempre fatto fin dall’inizio dei tempi: ci avrebbe scritto sopra un libro.
Ci aveva messo quasi nove mesi, era stata un’impresa straziante. Aveva deciso di mettersi a nudo, di raccontare l’emotività, di veicolare il dolore, la sconfitta, il timore, il senso di tradimento, la sensazione di perdita. Settecentocinquantasei pagine di memorie con venti pagine di prefazione e quasi dieci di postfazione e ringraziamenti finali. Conclusa la prima stesura aveva riletto il manoscritto da capo e, giunto alla fine, aveva pianto.
Poi era andato a cercarsi un agente.
Il primo a riceverlo era stato Saturno. Lorenzo era entrato nel suo studio tutto bianco e si era sentito accolto dalla sua mole imponente, dalle sue mani gigantesche, dalla sua lucida e tondissima testa pelata e dalla sgargiante cravatta viola acceso che indossava sulla camicia bianca a righine sottili dal colletto slacciato e dalle maniche rimboccate fino al gomito.
“Lei, lei, mi ricordo di lei,” gli aveva detto Saturno, stringendogli energicamente la mano, “L’ho vista sul giornale, mi ricordo la sua faccia. Non il suo nome, né quello che ha fatto, però.”
Lorenzo gli aveva mostrato il manoscritto. “È tutto qui dentro,” aveva detto con un certo imbarazzo.
“Ah, sì, sì, sicuramente,” aveva annuito Saturno, prendendo il malloppo rilegato e mettendolo via senza degnarlo di uno sguardo, “Lei vuole diventare uno scrittore, giusto, e chi non vuole oggi come oggi? Ma la prego, diamoci del tu, quanti anni avrai, trentacinque?”
“Trentaquattro,” aveva risposto lui, incapace di allontanare lo sguardo dal suo povero manoscritto, dal frutto della sua fatica, messo via come fosse un dettaglio della minima importanza quando si trattava dell’unico motivo per cui si trovasse in quel luogo.
“Fa lo stesso, fa lo stesso,” aveva borbottato Saturno. Aveva l’abitudine di ripetere ogni cosa più e più volte. “Scusami, eh, scusa,” si era giustificato, “Nel mio mestiere uno dev’essere sicuro che la gente abbia capito cos’è che s’è sentita dire, non so se mi spiego, mi spiego? Se ti dico no, e te lo dico due volte, magari capisci l’antifona e non ritorni.”
Lorenzo aveva deglutito a fatica.
“Ma tu non ti preoccupare di questo, non ti preoccupare!” l’aveva rassicurato Saturno con una poderosa pacca sulla spalla, “Mi sono ricordato, alla fine, tu sei quello che è stato a letto col ragazzino, il tuo paziente, no?”
Lorenzo era arrossito di rabbia, ma non aveva negato.
“No, ma ti prego, non sentirti giudicato, a chi non piacciono i minorenni?” aveva detto Saturno con una scrollata di spalle.
“Aveva diciassette anni!” era esploso Lorenzo, “Non era un bambino.”
“E io mica ho detto che ti piacciono i bambini, mio caro, non l’ho detto mica. Stammi sul pezzo, cerchiamo di capirci, okay? È importante capirci.” Poi si era voltato verso il manoscritto, ancora abbandonato in un angolo remoto dell’immensa scrivania di vetro che mangiava via quasi metà della stanza. “È tutto qua dentro, eh? Dev’essere per forza tutto qua dentro, guarda che roba mi hai portato. Quanto pesa, eh? Quanto pesa? Dieci chili? Meno male che sei di queste parti, che se dovevi venire in aereo ti costringevano a imbarcarlo nella stiva, poveraccio,” aveva riso gioviale, “Ma te lo leggo, eh, tranquillo, te lo leggo. Dammi un mesetto, sai com’è, non sei mica l’unico che vuole pubblicare un libro, caro mio, di questi tempi ti sfido a trovare un signor nessuno che non voglia pubblicare un libro, tutti scrittori, in Italia, tutti quanti! Tutti convinti di avere qualcosa di interessante da dire, quando in verità…” aveva lasciato la frase sospesa, lanciandogli un’occhiata significativa.
“…in verità no?” aveva tentato Lorenzo, sentendosi improvvisamente minuscolo di fronte a lui, di fronte alla sua scrivania, di fronte a quella stanza enorme, perfino di fronte al suo stesso manoscritto sovradimensionato.
“Eh, certo,” aveva annuito Saturno con approvazione, “Vedo che viaggiamo già sulla stessa lunghezza d’onda, bene, bene,” aveva aggiunto con un certo compiacimento. “Dunque, caro mio, adesso tu te ne torni a casa alle tue belle occupazioni e poi mi faccio sentire io fra un mesetto circa. Ti prometto che mi faccio sentire, eh, non andare da nessun altro, che mi interessi. Sei uno dei pochi soggetti in Italia che potrebbero davvero avere qualcosa da dire alla gente e pretendo che lavori con me. Vai, caro mio, vai, ti chiamo io.”
La sensazione con la quale Lorenzo aveva lasciato la stanza era che l’uomo non si sarebbe mai fatto risentire, ma un mese dopo, puntuale come Lorenzo non se lo sarebbe mai aspettato, Saturno aveva chiamato.
“Vieni dalle mie parti, caro mio,” gli aveva detto, “Abbiamo un sacco di cose di cui discutere!”
Lorenzo l’aveva preso come un buon segno e, pieno di speranza, era tornato da lui.
“Dunque, dunque,” gli aveva detto Saturno, picchiettando la punta delle dita delle mani giunte sulle labbra alla ricerca delle parole corrette con cui affrontare l’argomento, “Io preferisco la schiettezza. Non so te.”
“Sono tutto là dentro,” aveva detto Lorenzo, come a scusarsene, indicando il manoscritto – immobile nello stesso angolo di scrivania in cui l’aveva lasciato un mese fa, come non fosse nemmeno stato toccato, “Se hai letto quello, ormai mi conosci.”
“Buon Dio, spero di no!” aveva commentato Saturno con una risata tonante, “Spero veramente di no, perché tu, caro mio, sei materiale da pubblicazione, ma questo no,” aveva detto, picchiettando due dita contro il manoscritto, “Questo proprio no, fa schifo. È prolisso, pesante, e poi onestamente chi se ne frega. Ti sei scopato un adolescente, e in che modo!, e questo era un tuo paziente, e tu mi vieni a parlare del tuo dolore esistenziale perché hai perso il lavoro? No, no, caro mio, hai mancato il punto della vicenda.”
Frastornato, Lorenzo era rimasto a boccheggiare come un pesce. “Il punto…?”
“Ma sì, ma sì, il punto!” aveva insistito Saturno, “Il punto! Il ragazzino, com’è, R., l’hai chiamato? Cosa sono questi nomi puntati! I nomi puntati non vanno bene per i romanzi.”
“Quello non è un romanzo,” aveva detto Lorenzo, aggrottando infastidito le sopracciglia, “Quelle sono le mie memorie. Sono cose successe veramente.”
“E infatti, infatti!” aveva annuito Saturno, “È quello il problema, che non interessa a nessuno. Onestamente, dai, quello che hai fatto lo sai. Non esiste una prospettiva sotto la quale puoi mostrarlo al pubblico per fare di te stesso la vittima della vicenda. Bu-huu, sono andato a letto con un ragazzino, l’ho sottomesso e legato alla testiera del letto, l’ho ammanettato, l’ho sculacciato, l’ho scopato durissimo per mesi e la società cattiva e ingiusta mi ha tolto il lavoro per questo! Ma sei matto? Se noi mostriamo alla gente una roba del genere finiamo in galera, figurati.”
“Immagino che la nostra collaborazione possa ritenersi conclusa ancora prima di cominciare, allora,” aveva detto Lorenzo, alzandosi in piedi ed allungando le mani per recuperare il manoscritto.
“Ma cosa, ma cosa!” aveva riso ancora Saturno, invitandolo a sedersi di nuovo con un cenno di entrambe le mani, “Dove credi di andare? Te l’ho detto, questa roba non è materiale da pubblicazione, ma tu, caro mio, tu sì. Metti da parte la tua vicenda. Usala come trampolino, come rampa di lancio, non come soggetto. La vita non è mai un soggetto interessante per i romanzi. Sai cos’è un soggetto interessante per dei romanzi? La fantasia! Eh! Qui noi abbiamo del materiale esplosivo. Non il tuo manoscritto, ovviamente. La tua testa,” aveva specificato, battendo la punta di indice e medio contro la propria tempia, “La tua testa, caro mio! Cosa ti passava per la testa prima di andare a letto con quel ragazzino? Che fantasie ti facevi? Cosa sognavi di potergli fare? Lì dobbiamo andare a scavare noi! Lì!”
“E questo sarebbe più accettabile rispetto a raccontare la mia storia?” aveva domandato lui, con stupore per niente simulato.
“Certo, caro mio, certo,” aveva annuito Saturno, convinto, “Certo che è più accettabile. Perché non sarebbe vero. Non so se mi spiego.”
Si era spiegato. L’aveva rimandato a casa affidandogli un compito per le vacanze. “Siediti davanti al tuo computer, dimenticati che stai male e buttami giù un paio di scenette sulle quali ti masturbi prima di andare a dormire. Poi lavoriamo su quelle.”
Non era stato facile, all’inizio. Per la verità era stato piuttosto imbarazzante. Ma quando aveva mandato la mail a Saturno e la sua risposta entusiasta era arrivata un paio di minuti dopo – “Quella dell’alunno e del professore, caro mio, quella voglio! Fammi una bozza. La voglio sulla mia scrivania fra sessanta giorni a partire da adesso.” – si era sentito subito sollevato. E lasciarsi trascinare da quella vicenda per quei due mesi era stato più entusiasmante di quanto avrebbe mai potuto pensare.
Quando si era presentato in ufficio da Saturno, una settimana dopo avergli inviato la bozza, lui l’aveva accolto con un sorriso che gli attraversava come una mezzaluna tutta la faccia. Gli si leggeva negli occhi una soddisfazione enorme.
“Caro mio,” gli aveva detto, stringendogli la mano, “Te l’avevo detto che viaggiavamo sulla stessa lunghezza d’onda. Tutto questo porno!” aveva commentato entusiasta.
Lorenzo era arrossito appena. “Ho pensato che, visto che stavo scrivendo una fantasia sessuale, tanto valeva…”
“E hai pensato bene,” aveva annuito Saturno, “Ora voglio che tu ti sieda qui davanti a me, così possiamo discutere un po’ cosa tagliare e cosa tenere, e poi voglio che tu mi firmi questa cosa qui,” aveva aggiunto, tirando fuori dal cassetto un contratto già redatto a suo nome, “E poi, caro mio, aspetta l’assegno, perché io questa roba in due mesi te la faccio pubblicare, e sarà solo l’inizio.”
Lorenzo aveva scorso con attenzione il contratto, leggendone il testo con interesse. “È tutto qui?” aveva chiesto titubante.
“Sì,” aveva annuito Saturno, “Cioè, no,” aveva aggiunto poi con una risata, “C’è un’altra piccola clausola di cui dovremmo parlare, ma sul contratto non potevo mettertela.” Aveva sorriso sornione, incrociando le braccia sul tavolo, “Basta ragazzini, da oggi in poi. Farò di te qualcuno. Ma basta ragazzini. Promesso?”
Lorenzo, preso alla sprovvista, si era irrigidito, intimorito dalla sua sfacciataggine. Ma, aveva considerato, se divento qualcuno, non mi servirà nient’altro che me stesso. Ed aveva annuito.
Il primo paio di interviste promozionali era stato un disastro, un’ecatombe, Lorenzo non aveva idea di cosa quella gente volesse da lui né di come presentarsi ai loro occhi. Aveva fatto la figura del cretino, borbottando due stronzate in croce e tornando da Saturno con la coda fra le gambe. Lui era venuto in suo soccorso come al solito, con l’usuale semplicità.
“Senti,” gli aveva chiesto col candore della persona a cui importa veramente, “Ma te cosa pensi dei tuoi romanzi?”
“Che sono stronzate!” aveva risposto lui, irritato.
“E questo può essere vero. Poi?”
“Che non valgono un cazzo.”
“Ah! Qui è l’errore, caro mio, qui è l’errore! Qual è il loro valore per te?”
“Ma che ne so…” aveva sospirato Lorenzo, già stanco, “Sono liberatori. Mi piace scriverli.”
“Giusto! Sono liberatori! Ti piacciono! Come quel ragazzino! Com’era col ragazzino, caro mio?”
“Era sbagliato.”
“Chi se ne frega!”
“Era bellissimo!”
“Ecco!”
“Scopavamo continuamente! Era mio, era tutto mio, e io lo volevo, e me lo sono preso, ed è stato bellissimo perché lo voleva anche lui!”
“Dimmelo! Parlamene!”
“Lo voleva anche lui! E gli piaceva un casino! E tutto il resto sono stronzate, perché io a Roberto non ho mai fatto del male! E poi non capisco, ma che cazzo di problema ha la gente col sesso? Perché non se ne può parlare? Tutti scopano! Tutti scopano e tutti sono luridi mentre lo fanno! Le cose che ho sentito in otto anni di esercizio! Le cose che mi dicevano! E tutti lì a dire ma è sbagliato, ma non sono normale, ma perché? Se c’è il consenso, se c’è il piacere, che problema c’è?!”
Si era fermato all’improvviso, gli occhi fissi in quelli un po’ porcini di Saturno e nel cuore il raggelante timore di aver detto troppo. Lui però aveva sorriso conciliante, allungandosi a martellargli la spalla con una delle sue amate pacche amichevoli. “Allora, visto, caro mio, visto?” gli aveva detto con fare quasi paterno, “Visto che le cose da dire ce le hai? Ora, fai il favore, la prossima volta che ti fisso un’intervista, fai un po’ meno la testa di cazzo e dille.”
Il Dottor B. era stato forgiato così, giorno dopo giorno, dalle amorevoli pacche di Saturno e dalla convinzione profonda che aveva instillato in Lorenzo che non potesse esserci gioia né soddisfazione nella vita se non affrontandola a viso aperto, con la sicurezza dell’uomo che non ha niente da nascondere agli integerrimi occhi del mondo. Il fatto che poi qualcosa da nascondere ci fosse o meno diventava secondario, irrilevante. Stava tutto nell’atteggiamento, un atteggiamento che, fino a quel momento, Lorenzo aveva pensato utilizzabile solo di notte, nei locali, coi ragazzi che portava a casa, e che invece, apparentemente, poteva usare per vendersi anche a chi non doveva poi portarsi a letto. Una scoperta esaltante che gli aveva cambiato la vita.
La cosa della rinuncia ai ragazzini, peraltro, non gli era mai davvero pesata. Roberto non era stato il risultato di una richiesta esplicita, era stato una fatalità. Gli sarebbe piaciuto a trentacinque anni come gli era piaciuto a diciassette, ed era stato l’unico minorenne con cui fosse mai andato a letto. Per di più, Saturno lo incoraggiava a “vivere la notte” – come lo chiamava – come meglio credeva. Non era un problema se i giornalisti lo inseguivano, se i paparazzi lo ricoprivano di foto, se i giornali scandalistici titolavano “Notte brava per il Dottor B.” e corredavano l’articolo con una ventina di foto scure e sfocate nelle quali la sua faccia era sempre e comunque l’unica cosa davvero riconoscibile. “Va tutto bene!” diceva Saturno, “È tutta pubblicità. E poi, caro mio, cos’hai da vergognarti? Me l’hai detto tu stesso, no? Se c’è il consenso, se c’è il piacere, e tutta quella roba là.” Per cui, non viveva una vita di privazioni.
Era sereno, le scopate non gli erano mai mancate, aveva preferito restare alla larga da storie a lungo termine, ma non si era trattato di una scelta dettata dalla sua esperienza con Roberto. Era una semplice conseguenza del nuovo lavoro, delle interviste, delle occasioni alle quali presenziare, delle presentazioni e, ovviamente, della scrittura frenetica e instancabile. “Due libri all’anno, caro mio,” gli aveva detto Saturno nello scorrere il contratto con la casa editrice, “Almeno per i primi cinque anni. Lo so che è faticoso, ma tu vedrai che nel giro di sei mesi, una volta sdoganato il settore, sarà un delirio. Non dobbiamo fare di te una voce, dobbiamo fare di te la voce, e prima che comincino a parlare in troppi. Non so se mi spiego.”
Insomma, ragazzi non ne aveva avuti – compagni, figurarsi –, ma scopate se n’era fatte parecchie. Alcune le ricordava meglio di altre. Certe erano durate più di qualche giorno, ma c’è una linea di demarcazione molto netta fra “una botta e via” e “relazione seria”, una linea che non passa per il numero di minuti trascorsi insieme. Una scopata casuale può durare anche più di una settimana – con le opportune pause. Stava tutto nell’atteggiamento, Saturno questo gliel’aveva spiegato molto chiaramente. “Te, caro mio, devi capire che sei uno che appena andrai in strada dopo il primo libro avrai dietro la coda di gente che ti si vuole portare a letto. Insomma, dico, guardati, con quella faccia, quello che dici e le cose che scrivi. Ti pare? Ma la gente che avrai intorno. E poi ci saranno quelli che ti vorranno sposare, e quelli, caro mio, saranno il problema. Capito? Da quelli devi tenerti lontano. Tutti gli altri, oh, sei stato mogio e triste fino ad ora, divertiti, caro mio, divertiti.”
Poi, un giorno, la prima mail di Nico era arrivata.
Quella per la mail era stata una lotta lunga e sanguinosa, con Saturno. Quando Lorenzo gli aveva detto di volere un indirizzo mail ufficiale e personale da dare ai suoi lettori per potergli scrivere, Saturno si era dimostrato entusiasta, “Genio!”, gli aveva detto, ma quando lui poi aveva aggiunto di voler intrattenere una seria corrispondenza con chiunque scrivesse, o per lo meno con i più interessanti fra loro, Saturno gli aveva dato del pazzo, ed avevano cominciato a litigare. “Tu non ti rendi conto, caro mio,” gli aveva detto Saturno, accigliato, “Non ti posso lasciare libero di iniziare romantici rapporti epistolari con tutti gli psicopatici che ti scriveranno. Non esiste.”
Lorenzo aveva insistito. Saturno gli aveva strappato una copia del contratto davanti al naso. Lorenzo era andato via imbestialito, poi era tornato un paio d’ore dopo, si erano seduti ai due lati opposti della scrivania e, in qualche modo, si erano messi d’accordo. Lorenzo avrebbe potuto ricevere la mail, ma sarebbe stata monitorata da un assistente che Saturno avrebbe assunto allo scopo, e qualsiasi risposta Lorenzo volesse dare a chiunque gli scrivesse sarebbe dovuta passare prima da Saturno tramite il malcapitato assistente, che naturalmente avrebbe risposto a lui, e non a Lorenzo, per qualsiasi errore nella procedura. “È che sai quanto ti amo e te ne approfitti, caro mio,” aveva borbottato Saturno, “Ma hai sopravvalutato il mio amore nei tuoi confronti, eh, perché questa cosa te la metto nel contratto nuovo, quindi preparati a tornare per una firma o due la settimana prossima.”
Quando la prima mail di Nico era arrivata, Lorenzo e Gigi, l’assistente, erano insieme. Gigi aveva una piccola postazione computer installata nello studio di Lorenzo, a casa sua. Lorenzo stava buttando giù un paio di opzioni per uno dei suoi prossimi romanzi, quando il cellulare aveva squillato, notificandogli l’arrivo di una nuova mail che era comparsa nello stesso istante sullo schermo del computer di fronte al quale Gigi si affaccendava da un po’. Ne avevano scorso entrambi il contenuto in silenzio e, quando erano arrivati alla fine, si erano guardati intensamente, senza dire niente, per qualche secondo.
Alla fine, Gigi aveva deglutito. “Questa fingiamo che non sia mai arrivata, eh?” aveva chiesto.
Lorenzo aveva annuito titubante. “Però non cancellarla,” aveva detto, “Non rispondo, ma voglio tenerla.”
Per la verità, era già abbastanza un problema che lui volesse tenerla, una mail simile. Al suo interno, un ragazzino di quindici anni si presentava in maniera piuttosto goffa, diceva di chiamarsi Nico, di andare a scuola e di amare i suoi romanzi. Non aveva mai letto niente di simile, diceva. Le tue storie mi fanno sentire bene, diceva. E Lorenzo si chiedeva se il ragazzino sapesse di cosa stava parlando, e non sapeva se trovava più sconcertante l’idea che non ne avesse capito niente o quella che invece lo sapesse benissimo.
Le mail non si erano fermate. Il ragazzino non era fastidioso, non si aspettava una risposta, semplicemente scriveva. Almeno una volta al mese. Inizialmente era stato molto impacciato, ma col passare del tempo aveva probabilmente finito per abituarsi a quella sorta di conversazione unilaterale, e le sue mail si erano fatte più spigliate. Era andato crescendo, e le sue mail erano cresciute con lui.
Poi aveva mandato una foto. Allarmato, Lorenzo aveva cercato di aprire il file prima di Gigi per verificarne il contenuto prima che potesse accadere qualsiasi cosa, ma fortunatamente era un’immagine del tutto innocua. Il ragazzino – capelli di media lunghezza, lisci e neri, con una frangetta un po’ storta a coprirgli la fronte tutta da un lato, e lineamenti da ragazzino, dritti e lisci, attorno a un paio d’occhi verdi chiarissimi e una bocca piccola, dalle labbra incredibilmente carnose – stava semplicemente in piedi davanti allo specchio del bagno, il cellulare sollevato a mezz’aria per inquadrarsi, vestito come probabilmente si vestiva ogni giorno per andare a scola, una maglietta nera dal collo rotondo e due fasce elastiche dello stesso colore attorno ai polsi. “Questo sono io,” diceva semplicemente la mail, “Visto che io ti vedo sempre, e tu invece non mi vedi mai.”
Gigi l’aveva guardato con occhi pieni di sacro terrore. Aveva taciuto tutta la faccenda delle mail con Saturno, ma qui si stava per salire ad un nuovo livello. “Devo dirlo al signor Guerrieri…” aveva pigolato con smarrimento, “Devo per forza, signor Bernieri.”
“Non sto rispondendo,” aveva risposto lui, come se questo bastasse a giustificarlo.
“Sì, ma…” aveva mugolato Gigi, “La foto, signor Bernieri, la foto no.”
Lorenzo aveva capito l’antifona, l’assistente aveva chiuso un occhio fino ad adesso ma da quel momento in poi non avrebbe più potuto. “D’accordo,” aveva risposto, “Andrò io da Saturno.”
L’assistente era impallidito, pervaso dall’orrore. “Si arrabbierà,” aveva detto, un tremito inconfondibile nella voce.
Saturno si era arrabbiato. “Te l’avevo detto, io, però, te l’avevo detto!” aveva urlato, attraversando la stanza in grandi passi nervosi, le braccia lasciate semi-scoperte dalle maniche arrotolate tutte prese a vorticare per aria, “Gli psicopatici! Te l’avevo detto o no, eh? Te l’avevo detto o no? E questo, poi! Uno psicopatico e un ragazzino! E cosa ti avevo detto io, eh? Cosa, cosa?”
“Niente ragazzini,” aveva risposto Lorenzo, restando seduto composto sulla poltroncina in pelle bianca.
“Appunto!” aveva sbraitato Saturno, fuori dalla grazia di Dio, “E tu giustamente cosa vai a fare? Te lo vai a cercare minorenne! Ma allora lo fai apposta.”
“Non l’ho fatto apposta,” aveva sospirato Lorenzo, “È stato lui a cercare me.”
“A causa di una tua idea!”
“Non potevo sapere che mi avrebbe scritto un ragazzino della sua età. E comunque è quasi maggiorenne.”
“Certo, ignoriamo pure il fatto che ha cominciato a scriverti quando di anni ne aveva quindici!” si era lasciato ricadere sulla propria immensa poltrona girevole con un sospiro pesante, passandosi le mani sull’enorme testa rotonda e lucida. “Va bene,” aveva detto, “Va bene. Riflettiamo. Sei venuto a dirmelo, quindi partirò dal presupposto che vuoi incontrarlo.”
“Non ho mai detto niente del genere,” aveva ribattuto Lorenzo, accigliato.
“Oh, per favore, non prendermi in giro, almeno,” aveva mugolato Saturno, sollevando gli occhi al cielo, “Non puoi almeno aspettare che compia diciott’anni? Tanto, se t’ha seguito fino ad adesso, continuerà anche fino ad allora.”
Lorenzo non aveva risposto. Saturno aveva sospirato.
“No, eh?” aveva chiesto.
“Senti,” aveva cominciato Lorenzo, paziente, “È passato dalle mail alla foto. È già una cosa personale. La prossima cosa che farà sarà presentarsi fuori da casa mia e aspettare l’occasione giusta per incontrarmi mentre esco o rientro. Possiamo aspettare che succeda, o possiamo programmarlo.”
“O possiamo richiedere un’ordinanza restrittiva.”
Lorenzo non aveva detto niente.
“Ma tu vuoi incontrarlo,” aveva piagnucolato Saturno, al limite della sopportazione, “Quindi le chiacchiere stanno a zero. Ho ragione?”
Aveva ragione.
Saturno l’aveva rassicurato, dicendogli che se ne sarebbe occupato lui. Di non rispondere alla mail del ragazzino, percaritàddiddio, di restare semplicemente in attesa, e Saturno avrebbe trovato un modo per portarglielo fino a casa. “Vedi,” gli aveva detto, “Vedi cosa fai di me? Sono diventato il ragazzo delle pizze, all’improvviso. Ne soffro, caro mio. Ne soffro.”
Lorenzo gli aveva promesso tutto e il contrario di tutto. Di starsene buono, di comportarsi bene. “Sarà un incontro breve,” aveva detto, “Voglio solo ringraziarlo per tutte le cose meravigliose che mi ha scritto in questi anni. Lui lo capisce, sai, Saturno? Capisce quello che scrivo.”
“E ‘sti cazzi,” aveva risposto Saturno.
“È solo un piccolo premio,” aveva insistito lui, “Gli regalerò una copia di Catene d’Acciaio e gliene leggerò qualche passo in anteprima.”
“Certo, certo,” aveva borbottato Saturno, “Diamogli una copia del libro in uscita fra tre mesi, vediamo in quanti minuti spunta l’ebook rippato online.”
“È un fan, Saturno,” aveva sospirato lui, “Non farà niente di male.”
“Almeno stai zitto, caro mio, stai zitto.”
Non aveva sentito una parola da lui per i successivi tre giorni. Poi, una mattina, era stato svegliato dallo squillo del cellulare e, ancora mezzo rintontito dal sonno, aveva risposto, solo per sentire la voce cupa e un po’ burbera di Saturno annunciargli di farsi trovare a casa il prossimo sabato sera.
“Un solo incontro,” aveva detto minaccioso, “Quindi togliti tutti gli sfizi che puoi.”
Al solo pensiero, Lorenzo si era sentito correre lungo la schiena un brivido il cui significato credeva di aver dimenticato. Evidentemente si sbagliava.
*
Teso come una corda di violino, Nico suonò il campanello della villa alle nove precise di quel sabato, restando poi immobile sullo zerbino in attesa che qualcosa accadesse. La porta si aprì con uno scatto qualche istante dopo, sulla figura alta e robusta del Dottor B., fermo sulla soglia, le labbra piegate in un sorriso soddisfatto. Era esattamente come l’aveva visto in televisione, ma in qualche modo la sua presenza fisica a così pochi centimetri da lui sembrava renderlo ancora più imponente. Faceva quasi paura – in un modo che riempiva Nico di brividi estremamente piacevoli.
- Nico, immagino? – chiese educatamente, tendendogli la destra. Nico la strinse con imbarazzo, mordendosi un labbro.
- È un piacere conoscerla, Dottore.
- Per favore, - rise l’uomo, senza lasciarlo andare, - Diamoci del tu. Mi sembra di conoscerti da una vita.
Nico arrossì, abbassando velocemente lo sguardo. Non rispose, ma non cercò nemmeno di sottrarsi alla stretta della mano del Dottor B., che in pochi istanti lo condusse all’interno della casa, richiudendosi la porta alle spalle.
- Saturno è stato molto duro, con te? – chiese, dirigendosi speditamente verso il divano e prendendo posto, accavallando le gambe in un gesto rilassato e fluido. Nico rimase in piedi ad osservarlo finché non fu il Dottor B., stesso ad invitarlo ad accomodarsi.
- Mi ha un po’ rimproverato… - rispose, imbarazzato, - E mi ha fatto firmare… delle cose. Non credo che si fidi di me.
- Puoi biasimarlo? – rispose il Dottor B., tagliante, lanciandogli un’occhiata piuttosto dura alla quale Nico rispose tornando a fissarsi la punta delle scarpe.
- So di aver… passato il limite. Signore. – rispose deglutendo.
- Ti ho detto di darmi del tu, no?
Nico rabbrividì all’istante, stringendo la presa delle dita sulle ginocchia.
- Scusa. Non so come chiamarti.
Il Dottor B. sembrò riflettere sul punto per qualche istante, prima di sorridergli.
- Dottor B. andrà bene. – rispose conciliante. – Insomma, dalla tue mail sembreresti un mio fan. – cominciò quindi, stendendo le braccia sul bordo dello schienale del divano.
- Ho letto tutti i tuoi libri. – rispose lui, onestamente, stringendosi nelle spalle, - Non mi era mai capitato di leggere cose simili, prima. Insomma, avevo… intravisto, più che altro. Qualche altra cosa. Qualche… be’, mia madre leggeva gli Harmony, per cui… ma niente del genere.
- Harmony? – rise il Dottor B., scuotendo il capo, - Non proprio il mio genere.
Nico gli sollevò gli occhi addosso, mordendosi il labbro inferiore.
- Neanche il mio. – rispose piano, - A me piace quello che scrivi tu.
Il sorriso del Dottor B. si allargò appena, mentre lui inclinava lievemente il capo nella sua direzione.
- E perché ti piace quello che scrivo io?
- Non è evidente? – ritorse Nico, arrossendo ancora e tornando a guardare in basso.
Il Dottor B. aggrottò le sopracciglia con disappunto.
- Ti ho fatto una domanda. – disse duro, - Rispondi.
Era un gioco pericoloso, quello che stava proponendo al ragazzino. Aspettarsi che ne comprendesse al volo le regole era tanto, il Dottor B. ne era consapevole, ma allo stesso modo era consapevole del fatto che, se non fosse stato esplicito, nelle sue intenzioni, il ragazzino si sarebbe semplicemente mosso assieme a lui, avrebbe seguito i suoi passi senza fiatare e si sarebbe costretto a restare comunque. L’unico modo per essere sicuro che restasse solo se voleva davvero era spaventarlo. E quando Nico gli sollevò lo sguardo addosso, in seguito a quell’affermazione così diretta e provocatoria, il Dottor B. lo vide spaventato, spaventato davvero, ma allo stesso tempo riuscì a leggere chiaramente nei suoi occhi che lo voleva. Voleva restare. Voleva lui. Era come se non avesse mai voluto nient’altro con questa stessa forza.
- Mi piacciono perché sono sexy. – rispose Nico, deglutendo a fatica, - Perché vorrei farlo anch’io. Mi infastidisce non potere, ma a quanto pare finché non compirò diciott’anni non ho speranza di essere ammesso in nessun club, per cui, fino ad allora…
- Fino ad allora sostituisci la realtà con la fantasia? – suggerì il Dottor B., sorridendo incoraggiante.
Nico annuì lentamente.
- Ma non credo che smetterò di leggere, anche quando potrò. – aggiunge poi, torturando l’orlo della maglietta fra le dita, - Ogni tanto ho semplicemente bisogno di… lo sai, no?
- Lo so. – annuì il Dottor B., - Ma voglio che me lo racconti comunque.
Nico gli lanciò un’occhiata allarmata, le guance infiammate, all’improvviso rosse come pomodori maturi.
- … è imbarazzante. – ammise in un pigolio confuso.
Se avessero già cominciato a giocare, il Dottor B. avrebbe ignorato il commento, ed avrebbe insistito. “È imbarazzante”, al pari di “no”, “basta” e “fermati, ti prego” erano comandi del tutto privi di significato, per lui. Quanti bottom aveva sentito lagnarsi in questo stesso modo, senza che mai volessero davvero pronunciare la safeword, senza che mai l’idea fosse loro passata neanche per l’anticamera del cervello.
Ma in una situazione come quella, ancora incerta su quale fosse la destinazione della strada particolarmente accidentata che stavano percorrendo insieme, il Dottor B. preferì sorridere ed annuire.
- Fa niente. – rispose, allungandosi a recuperare la prima copia di stampa di Catene d’Acciaio dal tavolino da caffè. – Sai cos’è questo?
Gli occhi di Nico si illuminarono all’improvviso, mentre raddrizzava la schiena come fosse incerto fra la possibilità di restare seduto composto e quella di lanciarsi a peso morto verso il libro nel tentativo di strapparglielo dalle mani e tenerlo per sé.
- È il tuo nuovo romanzo? – chiese speranzoso. Il Dottor B. annuì, sorridendo affettuosamente.
- Si intitola Catene d’Acciaio, - spiegò, - Pensavo che ti avrebbe fatto piacere se te ne avessi letto un passo in anteprima. Non uscirà che fra tre mesi.
- Lo so. – rispose Nico, la voce tremante di entusiasmo, portando entrambe le mani alle guance per poi farsi aria, - Oddio. Sì, ti prego. Leggimi qualcosa.
Il Dottor B. sorrise, tornando ad appoggiare le spalle contro lo schienale del divano, aprendo il libro ad una pagina segnata con un angolo ripiegato verso la metà.
- Stefano inarcò la schiena, - cominciò a leggere, - succhiando con forza la ball gag che il suo Master gli aveva infilato in bocca. “Sei stato un cattivo bambino,” bisbigliò l’uomo, schiaffeggiandolo forte, mentre lui gemeva disperatamente, “Cosa si fa ai bambini cattivi?” Stefano si premette di scatto su di lui, strofinandosi contro il suo cazzo già duro, dai contorni perfettamente visibili attraverso gli aderenti pantaloni di pelle. “Sta’ fermo,” disse il suo Master, sculacciandolo ancora, “Chi ti ha detto di muoverti?” Stefano piagnucolò ad alta voce, ogni gemito reso più liquido e confuso dalla ball gag, mentre il suo Master si allontanava di qualche centimetro. Lo sentì armeggiare dietro di sé e pensò finalmente, finalmente me lo darà, ed era pronto, era pronto per lui, lo voleva così tanto che, se non avesse avuto la bocca piena e chiusa dalla ball gag, gliel’avrebbe urlato. Sentì qualcosa premere insistentemente contro la sua apertura e credette con sollievo che il momento fosse giunto, ma quanto percepì la sensazione fredda e liscia della plastica capì che il suo Master non aveva alcuna intenzione di darglielo, non ancora, almeno. “I bambini cattivi si puniscono così,” gli sussurrò all’orecchio, mentre la punta rotonda del manganello lo penetrava, subito seguita dall’asta, che si fece strada dentro di lui con una lentezza estrema, dolorosa, insopportabile. Dai fori della ball gag la saliva scivolava giù lungo il suo mento, accompagnata da gemiti rauchi di ogni tipo mentre il suo Master lo fotteva svelto col manganello ricoperto di lubrificante. “Prendilo tutto,” gli disse il Master, scopandolo forte, “Fammi sentire quanto ti piace,” e Stefano gemette ancora, e poi ancora, e poi ancora, andando incontro a quelle spinte col bacino, sentendo l’uccello gonfiarsi fino a fare male, trattenuto e stretto alla base dall’anello d’acciaio collegato alle manette, che tiravano forte, piegandogli le spalle, ogni volta che si muoveva. L’orgasmo lo stordì come uno pugno, improvviso e faticoso e doloroso e così fottutamente piacevole da sconvolgerlo. “Cattivo bambino, chi ti ha dato il permesso di venire?” mormorò il suo Master con disappunto, “Sembra che dovrò insegnarti a rispettare l’autorità in altro modo.”
Il Dottor B. interruppe la lettura alla fine del capitolo dal quale aveva tratto quel brano, e si prese qualche secondo per ripiegare l’angolo della pagina, richiudere il libro ed appoggiarlo nuovamente sul tavolino prima di tornare ad incrociare le gambe e, finalmente, guardare di nuovo Nico. Che era rimasto immobile per tutto il tempo, trattenendo quasi il fiato, in silenzioso e religioso ascolto.
- È… È bellissimo. – disse, deglutendo a fatica.
Il Dottor B. lo guardò a lungo, osservandolo attentamente senza neanche tentare di nasconderlo. Sotto i jeans scuri e stretti, Nico era eccitato. Tentava di coprirsi in maniera impacciata, incrociando le braccia in grembo, ma era troppo evidente per poter essere nascosto.
La voce di Saturno riecheggiò per un momento nella sua testa. Un solo incontro, gli aveva detto. Sarebbe stato un sì o un no, e doveva esserlo adesso.
Si alzò in piedi lentamente, guardandolo fisso. Nico seguì il movimento del suo corpo, aspettando che dicesse qualcosa, il cuore che batteva fortissimo nella cassa toracica, le mani scosse da un brivido ansioso.
- Ti piacerebbe visitare il mio dungeon? – gli chiese a bassa voce, senza distogliere lo sguardo dal suo viso un po’ pallido.
Nico trattenne il respiro e si morse insistentemente il labbro inferiore, prima di alzarsi in piedi.
- Sì. – annuì velocemente, cercando di non fargli capire quanto fosse spaventato. Era una sensazione bellissima, comunque. Aveva come l’impressione che ogni scelta compiuta nella sua vita fino ad allora fosse stata compiuta appositamente in previsione di quel momento. Fermarsi di fronte agli scaffali nella sezione della letteratura erotica, accucciarsi per sfogliarne i libri, leggerli, scrivere quelle mail, scattarsi una foto e mandargliela, presentarsi lì. Ogni singola azione che aveva deciso di compiere, l’aveva compiuta inconsciamente per trovarsi lì, in quel momento. Per dirgli quel sì.
Si lasciò accompagnare lungo una rampa di scale nel sotterraneo della villa, una stanza ampia, illuminata in maniera molto soffusa da lampade dall’aspetto antico, inchiodate alle pareti di roccia nuda e dalla forma molto simile a quella delle vecchie lampade ad olio di cui non si trovavano più esemplari originali in giro, se non nei musei, ormai da decine d’anni. Una stanza arredata con un certo gusto, tutto considerato, al netto dei numerosi strumenti che ne ingombravano lo spazio. Le cinghie pendenti dal soffitto, le rastrelliere sulle quali si avvicendavano ordinatamente strumenti della maggior parte dei quali Nico non avrebbe neanche saputo pronunciare il nome, un Berkley Horse dall’aria piuttosto antica in un angolo, la cavallina nell’angolo opposto e, naturalmente, la croce, proprio in fondo alla stanza, addossata alla parete. Enorme, nera, lucida e bellissima. Nico rabbrividì con tanta forza, nell’osservarla anche così da lontano, da sentirsi mancare il respiro per qualche istante.
- Non avevo mai visto tutte queste cose dal vivo. – disse con un filo di voce, avvicinandosi alla croce con reverenza, - Ne ho solo letto nei romanzi.
- Sono come te le aspettavi? – domandò il Dottor B., osservandolo muoversi con cautela.
Nico attese qualche secondo, prima di rispondere. Abbastanza per avvicinarsi alla croce e sfiorarne la superficie con la mano aperta.
- Meglio. – rispose titubante.
Il Dottor B. chiuse la porta, e Nico si voltò a guardarlo di scatto. Lo trovò intento a sfilare i bottoni dei polsini della camicia dalle loro asole. Prima il destro, poi il sinistro.
- Continuerai a chiamarmi Dottor B., o Dottore. – spiegò, arrotolando prima una manica e poi l’altra fino ai gomiti, - Farai qualsiasi cosa ti ordinerò di fare. Accetterai qualsiasi cosa vorrò fare io a te. Se, per un qualunque motivo, qualcosa supera il tuo limite, la safeword è rosso. – si avvicinò di un passo, sbottonando la camicia fino a metà petto, - Ripetila.
- Rosso. – disse Nico senza fiato, seguendo i suoi movimenti con attenzione e poi guardandolo con aria confusa, le guance arrossate dall’imbarazzo e dal desiderio. Deglutì rumorosamente, stringendo i pugni lungo i fianchi. – Farà male?
Il Dottor B. sorrise.
- Non più di quanto vorrai. – rispose a bassa voce.
Nico si lasciò guidare dalle mani esperte del Dottor B., affidandosi a lui completamente. Obbedì ai suoi ordini quando gli chiese di spogliarsi, sfilando i vestiti nell’ordine che il Dottore gli indicava, fino a restare completamente nudo di fronte a lui. Faceva freddo, nel dungeon, ma non se ne sarebbe mai lamentato.
Il Dottor B. lo condusse fino alla croce, obbligandolo a voltarsi in modo da dargli le spalle e poi stringendogli le cinghie attorno ai polsi. Nico vide le cinghie sciolte ai piedi della croce e capì che, se avesse voluto, l’uomo avrebbe tranquillamente potuto immobilizzarlo totalmente. Eccitato dal pensiero da un lato, ma sollevato dal fatto che non fosse diventato realtà dall’altra, chiuse gli occhi e restò in silenzio.
- Allarga le gambe. – ordinò il Dottore. Nico obbedì senza dire niente. – Parla. – disse allora lui, sculacciandolo.
- Sì— - singhiozzò lui, stupito ed eccitato dallo scroscio delle sue cinque dita contro le proprie natiche, - Sì, Dottore.
- Bravo. – annuì lui, avvicinandosi, - È la prima volta che fai una cosa del genere, vero?
- È la prima volta che faccio qualsiasi cosa. – lo corresse lui, guardando altrove, ricevendo in risposta un altro schiaffo, più forte del primo, in seguito al quale non poté fare a meno di lanciare un gridolino acuto.
- Sì o no. – disse il Dottore, cupo.
- Sì, Dottor B. – rispose lui, stringendo i pugni tremanti. La pelle gli bruciava dove aveva ricevuto il colpo, e quando il Dottore lo sfiorò in quello stesso punto, gentilmente, Nico gemette arreso.
Il Dottore lo colpì di nuovo, qualche istante dopo, con forza ancora maggiore, e Nico urlò.
- Perché?! – gemette, schiacciandosi contro la croce e rabbrividendo per il contatto della pelle nera già tiepida contro la sua, già bollente.
Il Dottore lo schiaffeggiò un’altra volta.
- Quello perché mi andava. – spiegò paziente, - Questo perché hai chiesto.
Nico tremò con forza e poi annuì, nascondendo il volto fra i bracci della croce.
- Chiedi scusa. – ordinò il Dottore, schiaffeggiandolo ancora, sempre nello stesso punto.
- Scusa. – piagnucolò Nico, dimenando il sedere sotto le sue mani, mentre ad un colpo cominciava a seguirne un altro molto più velocemente di quanto non fossero arrivati fino a quel momento, - Scusa… scusa, Dottore, non lo farò più! Obbedirò a tutti i tuoi ordini! Basta, - pigolò, gemendo forte, - Ti prego, basta!
Nei successivi dieci minuti di spanking, il Dottor B. contò dieci basta, quindici no e ventisei per favore. Nemmeno un rosso, però.
Soddisfatto, smise di sculacciarlo, inginocchiandosi dietro di lui. Nico voltò il capo, cercandolo con gli occhi. Era rosso in viso, aveva gli occhi lucidi ed aveva pianto, ma le sue labbra erano rosse e gonfie come non avesse fatto altro che morderle e succhiarle fino a quel momento.
- Sei stato bravo. – disse il Dottore, stringendogli le natiche fra le mani e massaggiandole piano, - Meriti un premio.
- Grazie, Dottor B. – rabbrividì Nico, schiudendo le gambe in un gesto istintivo ed offrendosi a lui, sporgendo il sedere, - Sei così buono con me.
- Sta’ zitto. – disse immediatamente lui, schiaffeggiandolo sull’altra natica per non fargli male. Si avvicinò a lui lentamente, esponendo la sua apertura allargando le sue natiche coi pollici, respirandogli addosso forte abbastanza da permettergli di percepire la carezza del suo fiato caldo e umido contro la pelle. Nico si inarcò in uno scatto quasi violento, mordendosi con forza l’interno di una guancia, cercando disperatamente di trattenersi dal chiedergli esplicitamente di leccarlo.
Non ebbe bisogno di farlo, comunque. Qualche istante dopo, il Dottore stava già premendo la bocca contro di lui, coprendo la sua apertura di baci aperti e bagnati prima di spingere la punta della propria lingua dentro il suo corpo, leccandolo dentro e fuori in movimenti imperiosi e forti, che simulavano il sesso senza vergogna alcuna.
Costretto fra lui e la croce, Nico non poté far altro che seguire i movimenti che quella lingua gli imponeva, spingendosi all’indietro, verso il volto del Dottore, quando lui si allontanava, e poi premendosi in avanti, strofinando la propria erezione durissima e bollente contro la croce imbottita, ogni volta che lui tornava ad affondare dentro al suo corpo. E proprio quando sembrava che potesse raggiungere l’orgasmo così, stimolato da lui e dalla croce insieme, il Dottore si allontanò, alzandosi in piedi.
Come perdendo in un colpo tutta la propria forza, Nico si abbatté contro la croce, appoggiandovisi con tutto il proprio peso e mugolando disperatamente.
- Ti stai forse lamentando? – chiese subito il Dottore, sculacciandolo prima ancora di ricevere una risposta.
- No, Dottore. – rispose lui, stringendo i denti per il bruciore. Quando le sue dita avevano toccato la pelle già ipersensibile della sua natica, era stato come sentirle prendere fuoco. – Mi dispiace, Dottore.
- Meglio così. Perché ho altri progetti, per te. – rispose lui con un sorriso.
Nico si sentì stringere lo stomaco in una morsa di paura ed eccitazione, e rimase immobile ad osservare i suoi movimenti mentre, con gesti netti e sicuri, lo obbligava ad indietreggiare appena, piegandosi lievemente in avanti per esporre meglio la sua apertura ai suoi occhi e ai suoi tocchi.
Lo osservò poi allontanarsi verso un armadietto nero, del tutto anonimo, addossato contro la parete alla sua destra. Lo spalancò senza un’esitazione, estraendone una scatola metallica anch’essa nera che tenne fra le braccia mentre tornava verso di lui. Nico la scrutò con timore e reverenza, osservandola rivelare il proprio contenuto nel momento in cui, dopo averla appoggiata per terra, il Dottore ne rimosse il coperchio.
Conteneva quattro butt plug di varie dimensioni, tutti dello stesso colore e della stessa forma, neri e lucidi, più larghi alla base, più stretti verso la punta.
- Non vuoi sapere cosa intendo fare con questi, Nico? – domandò il Dottore, prendendo il più piccolo dei quattro e recuperando dalla scatola anche un tubetto di lubrificante, del quale provvide a ricoprirlo. Nico deglutì a fatica, annuendo velocemente, incapace di staccargli gli occhi di dosso. – Te li metterò dentro lentamente, piano piano, uno dopo l’altro, fino a quando non ti avrò allargato abbastanza. E poi ti scoperò. Ma ci vorrà un po’ di tempo. Sei pronto?
Nico gemette disperatamente, nascondendo il viso contro la croce.
- Non lo so… - piagnucolò, dimenando il sedere con impazienza.
- Sei pronto o no? – insistette il dottore, appoggiandogli una mano sulla natica ancora bollente dei suoi schiaffi e pizzicandola con forza.
- Sì! – quasi gridò lui, stringendo forte gli occhi, - Sì, Dottore, sono pronto!
- Bene. – annuì il Dottore, avvicinandoglisi. Lo tenne fermo con una mano ben piantata sul fianco mentre lo penetrava lentamente col primo butt plug, lasciando che avanzasse solo di un centimetro o due per volta, e lasciandolo poi uscire da solo quando erano i suoi stessi muscoli a spingere perché lo facesse. Ma per quante volte il suo corpo potesse continuare a rifiutare quell’ingombrante presenza, il Dottore tornava sempre a riproporla, spingendo il primo butt plug finché non fu totalmente sepolto dentro di lui e ripetendo poi la stessa operazione anche col secondo, col terzo e col quarto, in un crescendo di dimensioni, di dolore e di piacere che sembrava amplificare al massimo la capacità di Nico di sentire. Sentire qualsiasi cosa – il tocco caldissimo delle sue dita, il profumo della sua pelle unito a quello del suo dopobarba, i suoni osceni che i butt plug producevano entrando ed uscendo dal suo corpo, passando attraverso la sua apertura resa ormai scivolosissima da tutto il lubrificante che il Dottore aveva usato per rendere la pratica meno dolorosa.
Quando il quarto butt plug scivolò per terra e rotolò lontano da lui, l’apertura di Nico era già così arrossata e aperta che vi si sarebbe potuto guardare dentro. Mentre lui ansimava e gemeva così forte che ogni tanto gli pareva di non riuscire più a respirare normalmente, il Dottore si chinò nuovamente dietro di lui, leccandone i contorni con gentilezza, quasi cercando di lenire un po’ il bruciore e il fastidio che provava.
- Dottore… - piagnucolò Nico, - Dottor B. …
- Dimmi cosa vuoi, Nico. – rispose lui, continuando a tormentarlo con piccoli, svelti tocchi in punta di lingua.
- Voglio che me lo metti dentro, Dottore, - gemette lui, premendosi con forza contro il suo viso, - Voglio che mi scopi, per favore.
Il Dottore si rimise dritto, sorridendo soddisfatto.
- Che bravo bambino sei, - commentò dolcemente, afferrandolo per i fianchi e tenendolo immobile, - Meriti un premio.
- Sì! – quasi urlò Nico, incapace di trattenersi oltre, - Sì, per favore, Dottore!
Il Dottore si allontanò appena, recuperando il portafoglio dalla tasca posteriore dei jeans ed estraendone un preservativo, che si srotolò addosso velocemente, prima di premere la punta delle propria erezione contro l’apertura di Nico.
- Sarò duro e veloce fin da subito. – lo avvertì, - Se piangerai, ti scoperò ancora più forte. Se ti lamenterai, riprenderò a sculacciarti. Se ti sento emettere un solo gemito di piacere, me ne vado e ti lascio qui incatenato da solo per tutta la notte. Sei pronto?
Singhiozzando di voglia, Nico annuì velocemente, aggrappandosi con entrambe le mani alle cinghie che, stringendolo attorno ai polsi, lo legavano alla croce.
Il Dottore entrò dentro di lui in un colpo secco, chirurgico, spingendosi dentro il suo corpo per tutta la propria lunghezza, e nonostante Nico fosse stato già aperto a sufficienza dai butt plug, fece male comunque. Stringendo i denti, mordendosi l’interno della guancia per non gemere, non lamentarsi e non piangere, Nico si schiacciò contro la croce, strusciandovisi contro più velocemente che poteva mentre il Dottore continuava a scoparlo con violenza, facendolo tremare sotto ogni colpo.
Il dolore non faceva che amplificare il piacere, l’impossibilità di emettere un fiato non faceva che amplificare il piacere, lo schiocco delle anche del Dottore contro le sue natiche ogni volta che affondava dentro di lui non faceva che amplificare il piacere. Ogni singolo dettaglio di quell’esperienza lo confondeva, lo sovrastava, sembrava sollevarsi sopra di lui come uno tsunami, pronto ad ingoiarlo. E Nico era venuto parecchie volte, nella sua vita, sempre da solo, ogni tanto facendosi malissimo, ogni tanto semplicemente masturbandosi, ma niente, nessuna di quelle volte era anche solo lontanamente paragonabile col tipo di esperienza che stava vivendo in quel momento. Col tipo di sensazioni che lo sconquassavano da dentro, con la stessa violenza con cui l’erezione del Dottore si scavava un posto dentro di lui, molto più profondo di quanto i butt plug non l’avessero preparato a sopportare.
Venne senza neanche avere bisogno di essere toccato, schizzando di sperma la pelle lucida e nera della croce, obbligandosi a non urlare come avrebbe voluto, anche se, a quel punto, avrebbe anche potuto farlo. Il Dottore continuò a spingersi forte dentro di lui ancora per qualche istante, prima di gemere profondamente e venire a propria volta. Il preservativo impedì a Nico di sentire il suo orgasmo riempirlo e colare fuori da lui, ma probabilmente, anche se non lo avesse indossato, non sarebbe riuscito a sentire niente. Era così indolenzito da non riuscire più nemmeno a capire se provava dolore, piacere o chissà cos’altro.
Il Dottore si allontanò lentamente da lui, chinandosi a baciarlo sulla nuca. Gli accarezzò le braccia e le spalle tese, baciandone ogni centimetro mentre scioglieva le cinghie e lo lasciava libero di muoversi. Quando l’ebbe liberato, per evitare che cadesse a terra a causa del tremore inarrestabile delle sue gambe indebolite dall’orgasmo, dal dolore e dall’emozione della prima volta, lo tenne stretto fra le braccia, accompagnandolo verso un divanetto di pelle sistemato in un angolo, ed aiutandolo a sedervisi sopra.
- Come stai? – gli chiese, quando si fu seduto accanto a lui, - È stato intenso, mh?
- È stato surreale. – rispose lui, sciogliendosi in un singhiozzo liberatorio e piangendo in silenzio. – Scusami. – biascicò, coprendosi il viso con le mani, - Mi sento un cretino.
- È tutto a posto. – rise lui, accarezzandogli il collo con la mano aperta, - È normale. Puoi piangere quanto vuoi. È stato bello. Ne è valsa la pena.
- È stato bellissimo. – annuì freneticamente lui, sempre nascondendosi dietro le proprie stesse mani, - Ma quell’uomo mi ha detto che non potremo vederci più. Una sola volta, ha detto. E mi fa incazzare perché invece io vorrei rivederti ancora.
- Sono sicuro che sarà facilissimo per te trovare qualcun altro con cui fare quello che hai fatto con me stasera. – sorrise conciliante il Dottore, passandogli le dita fra i capelli, - Sei bellissimo, e sei ancora molto giovane. In effetti mi sento un po’ in colpa, sei un po’ troppo giovane per me. – rise, lievemente in imbarazzo.
Nico abbassò le mani, guardandolo da sotto le ciglia rese più spesse e scure dalle lacrime.
- Quindi non ti dispiace neanche un po’, che non potremo più vederci? – domandò con candore, inghiottendo un singhiozzo.
Il Dottore grugnì una mezza risata, passandosi una mano sul volto.
- Se me lo dici così… - biascicò, guardando altrove.
Nico lo guardò in silenzio per qualche secondo, prima di sollevarsi a fatica sulle ginocchia, sporgersi verso di lui e sfilargli il cellulare dalla tasca dei jeans. Lo tenne stretto fra le mani e continuò a guardarlo tutto il tempo, mentre digitava il numero del proprio e lo salvava fra i suoi contatti.
- Non mi aspetterò che chiami. – disse, prima di restituirgli il cellulare ed alzarsi in piedi, - Ma spero che tu lo faccia.
Dopodiché, sorridendogli appena, si chinò per recuperare i propri vestiti. Quando chiese se, per favore, poteva usare il bagno, Lorenzo gli rispose di sì. E mentre ascoltava il rumore che i suoi piedi nudi producevano mentre saliva le scale verso il piano di sopra, rimase immobile a fissare il numero ancora visibile sul display del proprio cellulare, sapendo di non poterlo usare, già rassegnato al fatto che, prima o poi, l’avrebbe usato comunque.
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