Genere: Introspettivo.
Pairing: MattxBrian (se proprio si vuole vedere... ma in realtà neanche tanto O.ò)
Rating: PG
AVVISI: Nessuno.
- Nella notte che segue gli EMA del 2004, Brian Molko vaga per una Roma cristallizzata nel freddo e riflette...
Commento dell'autrice: Scritta in due orette circa, intesa come regalo di San Valentino nei confronti della mia adorata Nai, che mi ha fatto un regalo stupendo e quindi si meritava una ricompensa adeguata. Ora, io non so se il risultato soddisfi le aspettative, ma so che a questa storia ci teneva tanto quanto me XD Perciò è per lei. Anche perché l’ho scritta praticamente a suo gusto :D
Anyway, il motivo per cui ho scritto questa storia – oltre quanto detto all’inizio – risiede nel “molto bello” in italiano di Brian. Nella cronaca di cui vi parlavo nelle note iniziali (e che potete trovare qui), viene riportato proprio questo episodio – quello delle fan con Brian, intendo – esattamente come l’ho descritto. L’unica cosa che non corrisponde a verità è l’incontro con Matthew XD Almeno credo: perché se un gruppo di fan è riuscito ad incontrarli entrambi nella stessa sera, non vedo per quale motivo non avrebbero potuto incontrarsi anche loro due :D
PS: Mi sa che Bono non c’era proprio, nel 2004. Mi prendo una licenza, perché Robert Smith, che invece c’era eccome, non sarebbe stato la stessa cosa e non mi avrebbe permesso la battuta col riferimento sessuale XD
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MOLTO BELLO

“Ovviamente ti accompagnerò”.
Stef era stato molto carino a dirgli una cosa come quella. Non se n’era stupito, perché Stef faceva della gentilezza un po’ la propria politica generale, però non è che gli avesse fatto molto piacere, in realtà.
Era stato invitato a premiare il vincitore nella categoria Best Alternative Act agli European Music Awards di quell’anno. E non ci voleva esattamente un genio per capire che, col fantastilione di copie di Absolution vendute in tutta Europa, ad aggiudicarsi l’ambito globo molleggiato in finto argento sarebbero stati i Muse.
Avrebbe tranquillamente potuto rifiutarsi. Se gli idioti dell’organizzazioni avessero chiesto una motivazione per quel rifiuto, avrebbe potuto inventare una scusa qualsiasi. Una bronchite – lo sapevano tutti che ci soffriva – impegni lavorativi – sapevano tutti anche che, se c’era una cosa che non gli mancava mai, quella era il lavoro – problemi familiari, qualsiasi cosa. Steve e Stef l’avrebbero senz’altro sostenuto, ed anche Alex non avrebbe fatto grandi storie al pensiero di risparmiare al proprio pupillo un’umiliazione in diretta in mondovisione.
Avrebbe potuto rifiutare, ma non l’aveva fatto.
E non l’aveva fatto per un semplice motivo. Lo stesso, semplicissimo motivo che gli impediva di essere felice per l’offerta di aiuto da parte di Stefan.
Ovvero: aveva trent’anni suonati, cazzo. Era offensivo che ci si preoccupasse ancora delle sue possibili reazioni di fronte a quella che era una realtà conclamata da un pezzo. Una realtà che, peraltro, non aveva neanche a che fare principalmente coi Muse stessi, ma con un pensiero ben più ampio – e, per questo motivo, anche ben più accettabile.
I Placebo piacevano agli adolescenti – quelli che non avevano ancora la corteccia cerebrale intaccata da dosi troppo massicce di metallo, almeno – ed a qualche trentenne in vena di revival degli anni d’oro. Punto.
Sì, c’era stato un periodo della sua vita in cui s’era illuso di qualcosa. Delle stesse cose sulle quali si illudono tutti, probabilmente. Di essere universalmente amato – o universalmente odiato, potevano essere soddisfacenti entrambe le ipotesi – di restare un mito incrollabile nei decenni, un’icona assoluta, uno di quelli che poi, in vecchiaia, vengono chiamati ad insegnare la tecnica della musica nei conservatori.
Non era arrivato a questo livello – ed era ancora troppo giovane per verificare l’ipotesi del conservatorio – ma non era neanche il primo idiota sulla piazza. Nel suo piccolo, aveva raggiunto dei risultati consistenti. Lo riconoscevano per strada, era ricco, era stimato da gran parte della “gente che contava” – ed odiato da tutti gli altri, cosa che sì, era molto soddisfacente – e non doveva andare svendendo biglietti per fare il tutto esaurito negli stati più importanti d’Europa.
Per certi versi, era perfino motivo d’orgoglio essere stato chiamato a premiare il gruppo vincitore in quella categoria. Significava, in un certo qual modo, che lui era ritenuto un’autorità in quell’ambito.
Ciò detto, era perfettamente in grado di controllare le crisi. Aveva sempre controllato ogni crisi, sia nella vita pubblica che nella vita privata. Non c’era motivo di lasciare che un gruppo di eterni adolescenti recentemente promossi a ruolo di idoli delle masse riuscissero a mettere in discussione la sua lapalissiana capacità di gestirsi.
Perciò, sarebbe andato a premiare Matthew Bellamy e i suoi amichetti d’infanzia. E sarebbe stato grandioso. Anche da solo.
Era per questo che aveva gentilmente declinato l’invito di Stefan e, un paio di giorni dopo, era partito per Roma.
“Ma sei sicuro di essere pronto?”, gli aveva chiesto il bassista, sinceramente preoccupato, inarcando un sopracciglio inquisitore. Lui aveva candidamente risposto che non c’era niente per cui prepararsi. E doveva essere stato abbastanza convincente, perché Stef non aveva insistito oltre.
Era per tutti questi motivi che in quel momento, arricciato su una scomoda poltroncina dell’affollata hall dell’albergo in cui l’organizzazione l’aveva sistemato, all’una e mezzo del mattino, non riusciva a capacitarsi dell’orribile congestione di sensazioni confuse che si aggrovigliava nel suo petto, all’altezza dei polmoni, rendendogli difficoltosa perfino la respirazione.
La premiazione era terminata da un’oretta. Lui aveva fatto la propria brava figura di merda – sembrava non ci fosse niente che andasse per il verso giusto, quella sera: Amy Lee che sbagliava l’ordine delle tre parole in croce che doveva dire, il suo microfono che decideva per uno sciopero non autorizzato proprio nel momento in cui lui doveva usarlo, gli obiettivi delle telecamere che rimandavano al mondo intero l’immagine della sua smorfia di falsissimo stupore mentre i Muse scendevano dalla platea per raggiungerlo sul palco e gli abbracci impacciatissimi che aveva seminato a destra e a manca, compreso quell’idiota di Bellamy che gli si scagliava addosso neanche fosse il suo migliore amico giusto per sillabargli un velenosissimo grazie mille direttamente all’orecchio – e poi aveva capito che continuare a darsi per vivo in giro per la città non avrebbe di certo giovato alla sua immagine, né tantomeno l’avrebbe aiutato a recuperare i punti persi durante lo spettacolo.
Aveva rifiutato pacatamente ma con fermezza le insistenti avance di Bono Vox – l’unico uomo in grado di far sembrare un invito ammiccante anche un “andiamo a sfondarci di birra da qualche parte!” – e s’era rintanato in albergo, abbandonandosi su quella poltroncina in attesa che arrivasse l’ispirazione giusta per decidere se andare a dormire o dedicarsi allo svuotamento coatto dei banconi del bar accanto al ristorante.
Fuori dall’hotel, oltre le ampie vetrate che separavano l’ingresso dal mondo esterno, Bellamy e compagnia erano appena scesi da un enorme bus argentato. Intabarrati in una quantità indefinibile di cappotti, sciarpe e cappelli, trascinavano stancamente le loro valige e cercavano di tenere in equilibrio i premi ricevuti sulle mani libere – ma non sembravano neanche tenerci troppo, dopotutto.
Sbuffò un grugnito di disapprovazione per tanto infantile disinteresse, e sollevò le spalle, incrociando le braccia sul petto quasi fino a nascondercisi dietro, continuando ad osservare la scena.
Eccoli che si allontanavano dal veicolo, eccoli che si fermavano un secondo per aiutare il cantante a capire come portarsi dietro tre valige utilizzando le uniche due mani che aveva a disposizione per uno stupido scherzo della Natura – la cui grave mancanza era stata non avere previsto che lui potesse nascere umano, sì, ma anche patologicamente narcisista – e poi voltarsi d’improvviso verso un gruppo di ragazzine saltellanti che sì, davano decisamente l’idea di essere molto felici dell’inaspettato colpo di fortuna.
Sui visi del batterista e del bassista – ai quali, alla fine, erano toccate le valige in eccedenza – si poteva chiaramente leggere un’ombra di stanchezza neanche tanto discreta, ma Bellamy sembrava ancora fresco come una rosa, e si intratteneva a parlottare con le fan, dispensando sorrisi, autografi e fotografie.
Non c’era niente di umano, in quel comportamento. La Natura avrebbe dovuto farlo nascere scimmia.
Frattanto, l’ispirazione non arrivava. Non restava molto altro da fare, se non afferrare il cappotto abbandonato sul bracciolo della poltrona, avvolgercisi dentro, nascondersi dietro un paio di occhiali da sole ed un cappello ed approfittare della momentanea baraonda per allontanarsi da quel luogo, andare alla ricerca di Bono e chiedere direttamente a lui se l’invito fosse ancora valido o meno.
Roma era avvolta in una coltre di gelo, e la totale assenza di persone per strada la faceva sembrare abbandonata, molto più simile ad una riproduzione in ghiaccio in scala reale che non ad un vero e proprio centro abitato.
Lui adorava quella città. Era così elegante ed austera… gli ricordava incredibilmente l’enorme villa nella quale aveva vissuto da piccolo, in Lussemburgo. C’erano davvero pochissimi ricordi piacevoli gli restassero di quel periodo della sua vita, principalmente a causa di suo padre, doveva ammetterlo, ma c’era anche da dire che, in quella villa, suo padre, ai tempi ancora tremendamente impegnato col proprio lavoro, aveva trascorso davvero pochissimo tempo. E questo aveva dato modo a lui di godersi un sacco di tempo a saltellare dalle coccole della propria madre, alla servile gentilezza delle numerose tate, fino all’affetto giocoso che da sempre l’aveva legato a suo fratello Barry. Il tutto mentre correva spensierato per corridoi giganteschi tappezzati di moquette rossa che sembrava non dover finire mai, ed altissimi scaloni in marmo fiancheggiati da corrimano lucidissimi sui quali lasciarsi scivolare fra le urla isteriche delle cameriere.
Roma era ancora così, per lui, nonostante le numerose volte in cui vi si era trovato – per vacanza e per lavoro – avessero ormai cancellato del tutto l’alone di mistica novità che l’aveva ammantata la prima volta che l’aveva vista.
Per omaggiare quella stranissima e romantica nostalgia che lo stava invadendo, nonostante tutte le cattive sensazioni delle quali si sentiva ancora, suo malgrado, ripieno, si concesse un giretto per il centro. Sostò a lungo di fronte al Colosseo, perdendosi estasiato nei propri pensieri e nelle suggestive immagini che fornivano le luci dei lampioni tutti intorno, passando attraverso le volte in pietra ora integre, ora irrimediabilmente corrotte, dandogli l’idea di trovarsi immerso in un oceano di luce, a guardare dal basso un antichissimo ponte fatato.
Erano tutte stupidaggini, ma gli facevano compagnia e lo consolavano.
C’era anche molto freddo, però, perciò fu quasi naturale, passate più di due ore, cominciare a ritornare verso la civiltà e fare un giretto nella zona più animata – quella ripiena dei pub all’interno dei quali, lo sapeva, erano stati organizzati i vari after-party.
Entrò in un locale che l’aveva attirato per via della luce rossa e calda che si irradiava dalle finestre che davano sulla strada, sperando di essere fortunato e trovarci dentro Bono. Ma di lui nessuna traccia.
Sospirò, afferrando uno sgabello e sedendosi al bancone del bar, per poi afferrare distrattamente un menu e cercare di capire cosa ordinare dal mucchio. Non si sentiva granché in vena di alcolici pesanti, sinceramente. Aveva già bevuto abbastanza durante la premiazione, era già quasi completamente afono – e girovagare per una Roma mai così incredibilmente invernale non doveva aver giovato, in quel senso – e non aveva alcuna voglia di ritrovarsi il giorno dopo con l’ennesima bronchite e le urla di Alex nell’orecchio, mentre cercava di contrastare l’organizzazione di MTV che gli spiegava che non poteva certo pagare il suo alloggio in albergo finché non fosse guarito, “non siamo mica la Caritas, signor Molko”.
Stava comunque per cedere alle lusinghe del brandy e della crema al cioccolato bianco, ordinando un Alexander, quando qualcuno si avvicinò alle sue spalle, prese possesso dello sgabello affianco al suo ed ordinò per entrambi una birra italiana.
La voce affannata e profondissima, in grado di disintegrare, nella complicata operazione del parlare, fino a tre parole su quattro, non aveva bisogno di presentazioni.
Matthew Bellamy sedeva accanto a lui e sorrideva serenamente, agitando una mano a mezz’aria in segno di silenzioso saluto.
- Buonasera anche a te. – disse sarcastico, incrociando le braccia sul bancone, - Se capisci la mia lingua. O devo esprimermi a gesti?
Matthew rise apertamente, strizzando gli occhi e sbottonando con disinvoltura il cappotto, per poi appoggiarlo senza la benché minima cura sul bancone, disinteressandosi totalmente delle macchie di bagnato che insozzavano il marmo verde che lo rivestiva.
- Mi fa piacere vederti qui! – disse l’inglese, entusiasta, battendogli una mano sulla spalla, - Credevo che non avremmo avuto occasione per parlare, oggi!
Lui sorrise vago, inarcando le sopracciglia.
- Congratulazioni. – concesse, osservando quasi con soddisfazione l’enorme sorriso che si aprì sul volto dell’altro uomo nel sentire quelle poche lettere, - Vi è andata piuttosto bene.
- Mai visti tanti premi tutti assieme in vita mia! – esultò Bellamy, sinceramente stupito, stringendosi nelle spalle, - E dire che fino al duemilauno sembravamo destinati a restare un fenomeno di nicchia!
- Ognuno passa il proprio momento di gloria. – commentò lui, ringraziando il barista con un cenno quando portò loro le birre ghiacciate, - Che ci fai già qui? Potrei giurare di averti visto arrivare in albergo non più di…
- …saran passate tre ore. – si stupì lui, spalancando gli occhi di un celeste così genuinamente limpido da sembrare vuoto, - Non dirmi che sono arrivato troppo tardi e sei già ubriaco!
- No, sono appena arrivato anche io. – lo rassicurò Brian, sollevando la bottiglia per un brindisi, che Matthew concesse lasciandola tintinnare contro la propria senza neanche chiedere il motivo.
- Dì un po’… - riprese, dopo aver sorseggiato un po’ di birra, - Non ti sarai mica offeso?
- Mh? – chiese lui, incapace di trovare un solo motivo che fosse valido per il quale avrebbe dovuto essere irritato, quella sera.
- Be’, per quando ti ho ringraziato, sul palco. Dom mi ha fatto notare che il mio comportamento è stato un po’ irruento. Sai, l’abbraccio e tutto. Ad Amy Lee abbiamo appena stretto la mano, ecco. – si prese un secondo per ragionare, mordicchiandosi l’interno della guancia e guardando altrove, come stesse cercando di ricordare esattamente le parole del proprio batterista, - Insomma, lui ha detto che siccome è notorio che fra le nostre due band non corra buon sangue, forse sono stato un po’ troppo espansivo. E ha detto anche che questo avrebbe potuto essere interpretato come una presa in giro. E che quindi forse tu ti eri offeso.
Ascoltò il monologo fino alla fine, limitandosi a mostrare un’espressione incerta e vagamente incuriosita.
Era stato irritato dal comportamento di quei tre, sì, ma più che offeso s’era sentito quasi invaso. Sì, invaso rendeva bene. Invaso da un entusiasmo, il loro, che non avrebbe affatto dovuto appartenergli, ma che pure sembrava così spontaneo da risultare contagioso. E poi era vero che ad Amy Lee avevano appena stretto la mano, e che diamine. Perché a lui erano toccati gli abbracci? Cos’era lui, la donna del gruppo?
- Figurati. – rispose in un soffio, ben cosciente di non poter esternare nessuno dei pensieri che gli stavano attraversando la mente.
Frattanto, Matthew aveva annuito come non l’avesse nemmeno ascoltato, ed aveva ripreso a parlare.
- Sapevo che non potevi essere così infantile. – aveva commentato, dimostrando invece di averlo ascoltato perfettamente, - L’avevo detto io, a Dom. Peraltro, anche questo fatto del cattivo rapporto fra le nostre band, non è che mi sia tanto chiaro. Insomma, io l’ho sempre detto che i Placebo mi piacciono. Quando ho sentito che avevi parlato male di noi, mi sono messo a cercare sul web, ma non ho trovato nulla…
- Una volta… - deglutì lui, disorientato dalla valanga di parole dell’inglese, - ho detto che mi sarebbe piaciuto bruciare un vostro album.
- Che?! – strillò Matthew, spalancando gli occhi ed arricciando le labbra in un mezzo sorriso sconvolto, - Perché?!
Lui fece spallucce.
- Sembrava esattamente quello che il conduttore si aspettava. – rispose, a mo’ di spiegazione sensata, - Insomma, era lì che mi chiedeva “che ne pensi di questo, che ne pensi di quest’altro”… quando ho detto qualcosa di poco carino nei confronti di Ville Valo s’è entusiasmato parecchio, perciò ho pensato fosse quello “lo scopo del gioco”…
- …che modo fantastico di dirlo! – rise Matthew, stringendosi il ventre fra le braccia, - Se non ti piacciamo puoi dirlo, non mi offendo mica.
- Ho ascoltato solo i singoli. – sbuffò lui, sorseggiando la birra, - Non sono solito farmi opinioni musicali per così poco.
Matthew rise ancora, imitandolo nel bere.
- Allora non ti è servita un’opinione per spalancare occhi e bocca sul palco, mentre Amy Lee annunciava la nostra vittoria, prima!
- …coreografico, eh?
- Sì! E ridicolo, anche! – lo prese in giro, - Sembravi un po’ un pesce, se devo dire la verità.
Brian fece una smorfia, indietreggiando di qualche centimetro e stringendosi nelle spalle.
Sembrava andare tutto bene. Peccato. Avrebbe dovuto ricordare prima che stava avendo a che fare con un ragazzo che stava vedendo il successo – quello vero – per la prima volta, e che quindi si sentiva in diritto di trattare con malcelata sufficienza tutto il resto del mondo.
- Potevi anche risparmiarti la sincerità. – rispose duramente, poggiando la birra sul bancone con uno scatto secco.
Matthew ebbe un momento d’esitazione, che impiegò facendo oscillare la bottiglia sul ripiano, reggendola per il beccuccio.
- Mi dispiace, non volevo offenderti. – si scusò poco dopo. – Tra l’altro, quando sono sceso dalla platea e ti ho visto a pochi metri da me, non ho più pensato che mi sembravi ridicolo.
- Ah, no? – insistette Brian, guardandolo con indifferenza.
Matthew scosse il capo, tornando a sorridere sinceramente.
- Ti ho trovato bello. – disse a bassa voce. E poi sorrise più apertamente, ed aggiunse qualcosa in italiano. – Molto bello.
Lui riconobbe la lingua ed anche l’espressione, non era la prima volta che la sentiva. Ma era stanco – tremendamente stanco – brillo – ormai quasi ubriaco – ed anche abbastanza triste, e non la connesse ad alcun significato che gli fosse familiare.
- Sarebbe a dire? – chiese, vagamente imbarazzato per via del complimento che aveva comunque intuito fra le parole di Matthew.
- Sarebbe a dire che mi piaci molto. – aggiunse lui, perfettamente a proprio agio. – Sei elegante, quando ti muovi… intendo, quando non fai il buffone. – sbuffò una risatina che Brian si ritrovò ad inseguire con la propria vocetta malandata, suo malgrado, - E hai dei lineamenti incredibilmente affascinanti. – sorrise ancora, arrossendo lievemente, - Scommetto che sei bellissimo anche senza trucco. – sussurrò, sollevando una mano fin quasi a sfiorargli una guancia. Ma poi si fermò, abbassando repentinamente lo sguardo. – Ed io invece devo essere completamente ubriaco, per dire cose simili. – concluse, tornando a nascondersi dietro la bottiglia di birra, come se quanto aveva appena detto fosse stata solo un’illusione.
Brian deglutì, cercando di riprendere a respirare normalmente.
- Grazie. – disse incerto, per quanto si rendesse conto quella fosse una risposta abbastanza stupida, nonostante fosse anche l’unica possibile. – Forse adesso è meglio che vada.
Matthew annuì comprensivo.
- Scusa. – aggiunse, - Non volevo metterti in imbarazzo.
Brian scosse il capo ed agitò una mano, ma non disse una parola perché sì, era davvero in imbarazzo.
Saltò giù dallo sgabello, facendo per infilare le mani in tasca e tirar fuori il portafogli, per pagare la propria metà di conto, ma Matt lo fermò con un gesto deciso, si alzò in piedi al suo fianco e lo salutò con un abbraccio identico a quello che s’erano scambiati sul palco degli EMA, ma molto più caldo, lungo e, per certi versi, intimo.
Brian ebbe tutto il tempo di girare attorno uno sguardo confuso, alla ricerca di un qualche motivo per sentirsi ancora più in imbarazzo di quanto già non fosse – come qualcuno che li stesse spiando e stesse ridendo di loro, per esempio – ma tutti gli avventori, compresi i pochi volti noti, tra i quali anche Bono Vox, che doveva essere arrivato da poco, sembravano impegnati a ridere e scherzare per conto proprio, e non badavano affatto a loro due, che continuavano a stringersi in maniera un po’ impacciata proprio davanti all’affollato bancone del locale.
- Mi piacerebbe rivederti, se per te non è un problema. – gli sussurrò velocemente Matthew. Il suo fiato caldo gli sfiorò il collo, ed a Brian non sembrò niente di particolarmente velenoso. Al punto che fu obbligato a chiedersi se quello che aveva sentito sul palco, invece, lo fosse, o se fosse stato tutto un parto del proprio risentimento.
Si separò da lui. Sorrise ma non rispose, e Matthew non sembrò stupirsene particolarmente.
Si salutarono con un altro cenno della mano e lui uscì dal locale, immettendosi nuovamente nell’aria gelida della città di notte, che gli raffreddò le gote e la punta del naso fino a dargli l’esatta misura di quanto l’abbraccio di Matt l’avesse imbarazzato.
Almeno, aveva risolto il problema dell’ispirazione: la sua musa non faceva che ripetergli fosse decisamente il caso andasse a dormire, una buona volta.
Tutte le sue buone intenzioni, però, vennero sabotate da un gruppetto di fan che, nel suo comprensibile stupore, lo circondarono all’improvviso, cominciando a tirare fuori dagli zainetti le macchine fotografiche ed i diari da farsi autografare.
- Niente foto, per favore. – riuscì a malapena a rantolare, cercando di schiarirsi la voce con risultati poco soddisfacenti. Poteva solo immaginare lo stato pietoso in cui doveva trovarsi, e decisamente quello non era un ricordo di sé che volesse lasciare ai posteri, neanche se si trattava dei nipotini dei suoi fan.
Una delle ragazze che componevano il gruppo se ne separò, avvicinandosi a lui un po’ titubante. Stringeva fra le braccia un involtino di pezze bianche, lievemente macchiate di tempera nera, ed era rossa come un pomodoro, nonostante il freddo.
Quando stese le braccia, tendendogli l’involto, lui lo prese con una lieve esitazione, e ne denudò il contenuto: un suo ritratto. Fatto a mano.
Sconvolto, tornò a guardarla, boccheggiando.
- È fantastico! – disse in inglese, cercando di farsi capire più coi gesti che con le parole, viste le condizioni ormai disastrose in cui versava la sua voce, - Davvero, è uno dei regali più belli che mi abbiano mai fatto!
La ragazza sorrise ed annuì incerta. Non sembrava averne capito molto, e d’altronde erano quasi le quattro del mattino e sembravano un po’ tutti rintontiti dal sonno. Lui compreso.
Lanciò un’occhiata all’interno del locale, dove ancora Matthew sorseggiava la propria birra, ormai solo, e poi tornò a guardare la ragazza, cercando di sorridere serenamente.
- Molto bello. – ripeté in italiano. E quando la ragazza spalancò gli occhi e, commossa, si lanciò in un’infinita serie di ringraziamenti in un inglese impacciato ed abbastanza cacofonico da risultare perfino carino, seppe di aver fatto centro.
Nessuno scattò foto. In compenso, concesse una quantità inenarrabile di autografi.
Dopodichè, la musa insistette fosse proprio il caso di tornare in albergo. E lui si sentì in un momento talmente soddisfatto che ubbidì senza pensarci troppo.
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