Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico.
Pairing: Davide/Mario.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Het, Lemon, Lime, What If?, Slash.
- Mario Balotelli passa sempre le vacanze in Sicilia, quando può, e anche quest'anno non intende fare eccezione. Stavolta, però, porta con sé anche Davide Santon - per il mondo, il suo migliore amico, ma fra i due le cose sono alquanto diverse - e questo dà il via ad una serie di malumori da parte del giovane Davide, il quale non capisce il perché di questa differenza rispetto agli altri anni e non è poi tanto sicuro del fatto che Mario lo voglia lì perché lo vuole lì e basta. Il guaio è che ha ragione.
Nella cornice del golfo di Mondello, due ragazzi troppo giovani alle prese con problemi troppo stupidi e troppo grandi, imparano a crescere, ad accettarsi esattamente per come sono ed anche che la parola "famiglia" ha un significato molto più specifico di quanto non si possa normalmente pensare.
Note: Scrivere questa storia mi ha emozionata per un motivo talmente stupido che dirlo sarebbe ridicolo XD Spero che questo spaccato di vita siciliana di due ragazzi che hanno un mucchio di problemi e non l’hanno ancora capito possa essere stato di vostro gradimento :)
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LET’S PRETEND IT DIDN’T HURT


- Questo viaggio è maledetto. – borbotta Davide, dondolandosi lentamente sul proprio trolley e fissando con aria triste il nastro trasportatore in lento scorrimento di fronte a sé, - Il borsone ancora non si vede.
Mario ride, piegandosi sulle ginocchia e molleggiando un po’ per sciogliere i muscoli tesi e stanchi dal viaggio.
- Superstizione. Guarda che sono io il terrone, dovrei essere io quello che ha paura di passare sotto le scale, mica tu.
- Non sono superstizioso! – si lamenta Davide, incrociando le braccia sul petto, - Constato i fatti! Saliamo sull’aereo, e quello prende tipo fuoco! Ne prendiamo un altro, arriviamo a Palermo e mi perdono il borsone! Scusami se mi viene il sospetto che la sfiga incomba su di noi!
Mario ride ancora, guardandolo divertito.
- Non è la sfiga, è Palermo il problema. – risponde con una scrollatina di spalle, - Nessuno vuole venirci.
- Che è il motivo per cui mi chiedo perché invece noi abbiamo voluto. – borbotta ancora il più giovane, guardando risentito altrove.
- Be’, io ho voluto. – gli fa notare l’altro, inarcando un sopracciglio, - Tu hai voluto solo seguirmi. Se ti dispiaceva tanto, perché non-
Scusami tanto – sibila Davide, sferzandolo con un’occhiataccia offesa, - se ho pensato di voler passare un po’ di tempo con te, dopo che abbiamo passato separati tutto l’ultimo mese!
Mario ride un’altra volta, rimettendosi in piedi e scompigliandogli teneramente i capelli – il massimo che possano permettersi in un luogo pubblico senza farsi ridere dietro o additare come una coppia di giovani gay in vacanza, cosa che peraltro rispecchia la verità dei fatti, o peggio ancora essere riconosciuti.
- Sei stato carino. – dice infine, tirandogli una mezza spallata giocosa, - Potevi andare alle Hawaii o alle Maldive.
Davide scrolla le spalle.
- Non ci saresti stato tu. Non sarebbe stata una bella vacanza. – si ferma un secondo, rimettendosi in piedi e controllando che almeno il trolley sia a posto, il lucchetto ancora chiuso e le cerniere serrate. – Mario, perché siamo qui? – chiede alla fine, vagamente a disagio.
Mario scrolla le spalle e sospira un po’.
- Il mare è bello. L’hai mai visto?
- No. – risponde secco Davide, - E non prendermi per il culo. – poi sospira a propria volta, avvicinandoglisi impercettibilmente, - Quando ci siamo messi insieme, Mario, io ti ho chiesto una sola cosa.
Mario gli regala un sorriso storto, mentre il nastro trasportatore si ferma, confermando ad entrambi che sì, il borsone di Davide è andato perduto e gli toccherà sporgere denuncia.
- Sincerità. – risponde, come fosse una cosa della minima importanza.
- Esatto. – annuisce Davide, - Non fedeltà, non serietà, non ti ho chiesto neanche di essere veramente innamorato di me. Ti ho chiesto solo di essere sincero. Tu invece non lo sei mai.
Mario sorride ancora e si china su di lui, sfiorandolo appena, quasi senza farsi sentire.
- Però sono tutto il resto.
Davide arrossisce, cercando nel luogo pubblico in cui si trovano una scusa per allontanarsi repentinamente da lui.
- Stai buono. – borbotta irritato, guardandosi circospetto intorno, - Senti, possiamo dire a qualcuno del mio dannato borsone e andarcene? Sono stanco.
Mario annuisce, conducendolo verso lo sportello bagagli smarriti. Davide si lascia mettere una mano sulla spalla e sospira di sollievo a quel contatto, raccontandosi che quella mano, lì dov’è, gli serve per non perdersi in un posto che ha visto solo qualche volta, solo di sfuggita e solo perché obbligato da esigenze di campionato. La realtà è ben diversa e, come sempre, ben più sfaccettata: tanto per cominciare, Mario è strano; Mario è quasi sempre un coglione con l’irritazione facile e lo sclero ricorrente, e osservarlo così rilassato sicuro tranquillo a suo agio è disturbante. In genere è lui, quello pacato. Vedere Mario così gli fa venire voglia di compensare lo squilibrio con una potente dose di isteria – e non può farlo, non sarebbe da lui, non saprebbe neanche da dove cominciare.
Tanto per continuare, poi, Mario l’ha sfiorato con le labbra, poco prima, ed ora il corpo di Davide sembra di fuoco. Quando suo padre, preso da un improvviso desiderio di istruirlo sui fatti della vita, gli aveva parlato del Vero Amore come di una cosa che ti brucia dentro e fuori, una cosa intensa, quasi dolorosa, quasi spiacevole, Davide non gli aveva creduto. S’era innamorato di qualche ragazzina, prima di quel momento, o almeno così gli era parso, e nessuno dei sentimenti che aveva provato in quelle occasioni gli sembrava riconducibile a ciò che suo padre gli stava raccontando, perciò s’era ritrovato costretto a concludere che suo padre fosse un pazzo – oppure che sua madre fosse una bomba a letto, cosa che non voleva assolutamente verificare e, ew, alla quale non voleva nemmeno pensare.
Poi era arrivato Mario. Mario aveva preso tutte le sue convinzioni, tutte le sue abitudini e tutto il suo intero modo di essere, aveva gettato ogni cosa disordinatamente per terra e poi c’era passato sopra come un carro armato, lasciando solo macerie e devastazione. Mario aveva quel potere lì, il potere di farlo bruciare dentro e fuori, Mario era intenso sempre, qualsiasi cosa facesse, Mario gli faceva male – desiderarlo, litigare con lui, stargli lontano o anche stargli troppo vicino, erano tutte cose stupende e terribili, addirittura spiacevoli, sì.
Quando Mario era entrato nella sua vita, Davide aveva semplicemente capito di averlo trovato. Quello giusto. E, a ripensarci col senno di poi, s’era sentito un idiota per non aver creduto a suo padre: era semplicemente logico che l’amore, quello vero, facesse tanto male; è quello che provi quando capisci che saresti capace di incatenarti volontariamente per sempre ad un’altra persona, correndo il rischio di finire ucciso per una ferita troppo profonda nel momento in cui quella si fosse sentita in diritto di allontanarsi, tranciandoti le mani per liberarsi dalle manette che la legavano a te. Una consapevolezza del genere non può che essere devastante – questa la conclusione alla quale Davide era arrivato – perché cose del genere ti cambiano la vita, e i cambiamenti di questo tipo non sono mai indolori.
Denunciano lo smarrimento in pochi minuti, lasciano all’impiegato tutti gli indirizzi e i numeri di telefono del caso e saltano sul primo taxi che incontrano appena usciti dall’aeroporto. Il sole splende in maniera fastidiosamente bruciante sulla costa palermitana, e Mario si schiaccia in testa il cappello bianco, tirando fuori un berretto a caso dal proprio zaino per poi calcarlo sulla testa di Davide in un gesto rude ma affettuoso.
- Non ho bisogno di una balia. – borbotta il ragazzo, sistemando il cappellino perché penda esattamente dal lato che ha deciso lui. Mario gli risponde con un sospiro stanco.
- Dà, hai voglia di litigare? – chiede a mezza voce, infilandosi nel taxi e stendendo le gambe sul tappetino di fronte al sedile posteriore, - Io per niente, sai? Fa troppo caldo.
- Non voglio litigare. – continua Davide con tono lamentoso, - È solo che sei strano.
- Fino a prova contraria, - dice Mario, sorseggiando un po’ d’acqua da una bottiglietta di plastica, prima di passarla a Davide, - sei tu quello che sta piantando grane da quando abbiamo messo piede a terra. Io sono tranquillissimo.
Davide scrolla le spalle.
- Appunto. – biascica, e Mario ride.
- È tutto ok. – lo rassicura, e visto che non può chinarsi a baciarlo distrattamente sulle labbra come fa sempre quando vuole dargli a bere che non ci sia proprio nulla che non va in tutto il mondo, si limita ad allungare una mano e passarla in una carezza altrettanto distratta sul suo ginocchio, seguendone la linea tonda fino a stringerlo tutto fra le dita con affetto nient’affatto simulato.
Davide lascia andare un sospiro rassegnato.
- Ho capito, okay. – annuisce, stendendosi contro lo schienale del sedile per stare più comodo, - Come vuoi.

*

La villa in cui si sistemano non è molto grande. Sì, d’accordo, si sviluppa su due piani e mezzo, ha un giardino delizioso tutto intorno e nell’unica parte esposta all’ombra almeno per qualche ora del giorno c’è anche una terrazza piuttosto ampia, ma tutto sommato la casa in sé non è molto grande, e a camminare lentamente fra le stanze, cercando di prenderne le misure, Davide ha come l’impressione che perfino casa dei suoi sia più spaziosa.
In compenso, comunque, è bellissima, e molto centrale. Fuori non c’è molto spazio, il giardino più che ad un vero giardino somiglia ad un cortile con qualche pianta, ma nel momento in cui, semplicemente affacciandoti, puoi vedere una distesa di mare e sabbia che si perde sulla punta più lontana dell’isola, non ti serve davvero un giardino grande con una piscina e tutto il resto, puoi decisamente farne a meno.
- Wow. – esala Davide, lasciando ricadere la valigia per terra quando entra in camera da letto, al primo piano, e vede il letto, - È… wow.
- Piace? – chiede retorico Mario, con un sorrisino compiaciuto, abbracciandolo da dietro e sfiorandogli la nuca con le labbra.
- Non ho mai dormito in un letto così grande. – commenta Davide, ancora rapito da quel materasso enorme. Saranno almeno tre piazze, non l’ha mai nemmeno visto, un letto così, figurarsi averci dormito dentro.
- Non lo farai neanche stavolta. – lo prende in giro Mario, infilando una mano sotto la sua maglietta ed accarezzandolo lievemente sulla pancia, giocando con un dito attorno al suo ombelico. Davide lascia andare un mugolio sollevato, perché aspetta questo momento da quando sono partiti, e piega un po’ il capo per lasciare alle labbra di Mario tutto lo spazio che vogliono per risalire il suo collo in una scia di baci umidi.
- Non mi sono nemmeno fatto una doccia… - borbotta incerto, sollevando un braccio per allacciarlo al collo. Mario ride sulla sua pelle, e l’ultimo bacio, proprio sotto il suo orecchio, riecheggia con uno schiocco nella stanza silenziosa.
- Dade, abbiamo scopato non so quante volte dopo gli allenamenti e prima di una qualsiasi doccia, ti pare che possa lasciarmi spaventare dal tuo sudore? – Davide gli tira uno scappellotto risentito sulla nuca, aggrottando le sopracciglia, e Mario ride ancora, sollevando un braccio per posare una mano sulla sua, intrecciando le loro dita. – Ascoltami… - gli sussurra piano, dondolando un po’, - domani questa villa si riempirà di amici che non vedo da un sacco di tempo, e che verranno da ogni parte d’Italia per passare un po’ di tempo tutti insieme. – gli spiega. Davide mugugna: non si aspettava di passare tutta l’estate da solo con lui, naturalmente, ma neanche di doverlo condividere con chissà quante decine di persone. – Perciò non fare la lagna, stasera, okay? – continua a sussurrare Mario in una richiesta perfino accorata, che riempie Davide di brividi lungo la schiena. – Per favore, fa’ il bravo. – chiede ancora, sollevandogli la maglietta fino a scoprirgli la pancia e parte del petto, - Dio, tu non hai idea di quanto mi sei mancato.
- Me l’hai già detto – sospira Davide, lasciando andare un mugolio più incerto quando Mario si spinge con forza contro il suo corpo, sospingendolo dolcemente verso il letto un secondo dopo, - quando ci siamo rivisti.
- Davvero? – ridacchia Mario, aiutandolo a gattonare sul letto e seguendolo nel movimento, tenendolo saldamente per i fianchi e strusciandosi contro di lui in movimenti talmente impercettibili da sembrare del tutto casuali, dettati giusto dal bisogno di trovare una posizione più comoda per stare tranquilli e rimanere comunque appiccicati l’uno all’altro, mentre Davide sa che sono gesti precisi e calcolati, misurati apposta sulla geometria dei loro corpi – una materia che Mario conosce alla perfezione – per farlo impazzire. – Non me lo ricordo.
- Avrai bisogno di una cura di fosforo. – ansima Davide, stringendo i pugni contro il copriletto in raso. La sensazione della stoffa liscia, lucida e fresca sotto i polpastrelli, lo costringe a rabbrividire per il contrasto violento che oppone al calore ruvido della pelle di Mario, che gli scivola addosso in carezze lentissime, così vicino da soffocarlo. – Tanto pesce. – riesce a mormorare, gli occhi socchiusi e il volto per metà nascosto contro il cuscino.
- È per questo che siamo qui, - ironizza Mario, sorridendogli addosso mentre segue con le labbra la linea curva della sua spina dorsale, - Per il pesce.
Davide schiude gli occhi e si volta a guardarlo come può, sollevandosi appena sui gomiti.
- Perché siamo qui, Mario? – chiede, la voce un po’ impastata di voglia e stanchezza, gli occhi pesanti, le palpebre che scendono a coprirli quasi per metà e le ciglia lunghe e chiare che sembrano trattenere a stento la voglia di stare sveglio.
Mario deglutisce e lo guarda a lungo, ma si morde un labbro e poi si sporge a baciarlo con maggiore convinzione, perché non intende rispondergli e non intende nemmeno lasciarlo insistere. Davide lo capisce dall’intensità del bacio, dal movimento frenetico della sua lingua contro la propria e dalla forza con la quale le labbra di Mario si chiudono sulle sue, come una trappola, come fossero intenzionate a non lasciargli scampo. Si lascia maneggiare come una bambola, il corpo pesante di sonno ed eccitazione che diventa leggerissimo e flessibile fra le dita di Mario, che lo conoscono, sanno come risvegliarlo. Ansima con forza quando una sua mano si chiude attorno alla sua erezione e comincia a strofinarla piano, seguendo diligentemente le spinte con le quali lo stuzzica fra le natiche – Mario odia usare le dita, Mario vuole farsi sentire, Davide lo sa ed è per questo che si mette seduto, mugolando come un ragazzino e stropicciandosi gli occhi, umettandosi appena le labbra prima di chinarsi e prenderlo in bocca fin quasi alla base, trattenendo il respiro per lasciargli tutto lo spazio di cui ha bisogno per crescere ancora di più fra le sue labbra.
- Cristo- - geme Mario, poggiandogli una mano sulla nuca senza però azzardarsi a spingerselo contro. È Davide che avanza ancora, si ferma solo quando lo sente troppo invadente, cerca di non lasciare andare rumori troppo fastidiosi e succhia con forza, la lingua che gioca su e giù sulla pelle sensibilissima e tesa, e Mario getta indietro il capo, affonda le dita fra i suoi capelli e tira tanto da fargli male, ma solo per un secondo, solo lo stretto indispensabile per costringerlo ad allontanarsi.
Quando Davide riprende a respirare e solleva gli occhi su di lui, lo trova quasi assorto, gli occhi chiusi e il respiro pesante.
- Mario…? – lo chiama piano. E Mario torna a guardarlo e lo spinge contro il materasso, insinuandosi fra le sue gambe e sollevandole abbastanza da permettergli di incastrarle fra le sue spalle e il suo collo. Si avvicina, costringendolo a tirarle su e restare lì, esposto e completamente nudo, che esplode di voglia come se il suo cazzo – le sue labbra le sue mani il suo corpo lui lui lui – fosse l’unica cosa veramente importante in tutto l’universo. – Mario! – lo chiama ancora, mordendosi un labbro, e Mario lascia un bacio su quello stesso labbro ancora caldo della pressione dei suoi denti, ed è dentro di lui il secondo dopo, spinge con forza e la schiena di Davide si inarca mentre lui geme il suo nome, incomprensibile fra le sue labbra, e si aggrappa con entrambe le mani alla sua nuca, con una forza tale da lasciare il segno delle unghie sulla sua pelle scura e ruvida.
Le mani di Mario scivolano in una carezza umida di sudore lungo le sue cosce e i suoi fianchi, e questa – assieme al martellare insistente della sua erezione dentro di lui – è l’unica pressione che può dire di riuscire a sentire alla perfezione, almeno fino a quando a tutti quei tocchi non si aggiungono quelli brevi dei baci di Mario sulle sue labbra, sul suo collo, sulla punta del suo naso, sulla sua fronte. Davide sorride, e il suo sorriso si scioglie in un gemito più forte degli altri quando viene fra le sue dita e poi si rilassa fra le sue braccia, continuando ad accogliere i suoi assalti sempre più concitati finché anche lui non viene dentro il suo corpo, accasciandosi stremato sul suo petto econtinuando comunque a baciarlo ovunque. Gli accarezza piano la nuca, e quando prende un respiro più profondo per chiedergli ancora una volta “perché siamo qui, Mario?”, lui si solleva e gli tappa la bocca con l’ennesimo bacio.
- Basta, per oggi. – gli dice, tornando a sistemarsi sul suo petto. Davide annuisce, e ricomincia ad accarezzarlo.

*

Il sole gli brucia sulla pelle come fosse a due centimetri dal suo corpo e non a chissà quanti anni luce come invece è, ma il caldo di Palermo è più piacevole di quello di Milano. È ugualmente asfissiante e umido, si appiccica alla pelle trattenuto nelle goccioline di sudore che gli imperlano la fronte e scivolano giù lungo le tempie, inumidendogli le punte dei capelli e schiacciandogliele sul collo e sulla nuca, ma è mitigato dalla brezza che risale dolce e fresca dal mare, e sa di sale e di creme protettive. Davide ha quasi l’impressione che, a tirare fuori la lingua, potrebbe sentirne sulla punta il sapore dolciastro, ma si rende anche conto di quanto ridicolo sarebbe tirare fuori la lingua nel mezzo della spiaggia in quel momento – così come in qualsiasi altro – perciò lascia perdere e resta lì, steso sul telo di spugna, a lasciarsi scivolare la sabbia fra le dita. È calda e sottilissima, gli si appiccica ai palmi e sui polpastrelli, dandogli il solletico. Trattiene a stento un sorriso divertito quando un venditore ambulante passa a pochi metri da lui strillando pollanche!, non ha nemmeno idea di cosa siano, le pollanche, la sola parola lo diverte più di quanto dovrebbe essere consentito per legge.
Palermo gli piace, gli mette allegria in qualche modo contorto probabilmente riconducibile al fatto che non somiglia a nessuno dei luoghi in cui è stato abituato a vivere. C’è il sole, la gente è rumorosa e litiga di continuo per motivi allucinanti, e poi è capacissima di salutare sconosciuti all’angolo della strada sollevando una mano e gridando “Forza Palermo!” come se questo potesse bastare a mettere a tacere tutti i vecchi rancori ed anche il buonsenso che ti porterebbe ad ignorare la gente che non conosci, piuttosto che assillarla.
E poi ci sono le granite, che sono palesemente una delle invenzioni migliori che possa vantare la razza umana. E qui le fanno con sciroppi che hanno sapori migliori rispetto alle schifezze che svendono per tali al nord. A Mario le granite non piacciono, per dire, e quando gliel’ha detto Davide c’è rimasto malissimo. Perché insomma, ci sei nato a Palermo, e non ti piacciono le granite? No, a lui piace il gelato. “Mi piace il cioccolato!”, ride Mario a mo’ di giustificazione, “Non ci sono mica, le granite al cioccolato”. Davide solleva una mano e lo manda a cagare, e lo farebbe anche adesso, se potesse: ma non può, perché Mario è sparito chissà dove con quei suoi amici che sono arrivati in mattinata, dei quali lui non conosce nessuno e che per poco non li hanno beccati a letto insieme ancora stretti come un nodo. “È meglio se tu resti qui,” gli ha detto Mario alzandosi in piedi e calcandosi quell’enorme cappello bianco sulla testa al preciso scopo di attirare l’attenzione di tutto l’universo sulla propria persona, “va bene se mi vengono dietro, ma se ci vedono qui insieme è la fine, per non parlare del fatto che il mister ci voleva un po’ lontani, mi pare”, ha aggiunto con una mezza risata, mentre la sua corte di amici e modelle si alzava tutta intorno a lui, facendogli in qualche modo da scudo. Davide ha scrollato le spalle mentre la voce di Mourinho riecheggiava nella sua mente formando parole che ricorda solo a metà “un periodo di pausa potrebbe farvi bene, siete troppo appiccicati, mh?, passi sempre a lui sia in allenamento che in partita, stai cominciando a diventare prevedibile, forse è per questo che Lippi non vi vuole entrambi in Nazionale”, ma chissenefrega?, pensa lui, i passaggi che fa a Mario sono i più riusciti di sempre, sono in grado di passarsi la palla da un lato all’altro del campo con una precisione millimetrica, neanche stessero a due centimetri di distanza l’uno dall’altro, e invece sono decine di metri – ed è quello che succede sempre fra loro, in fondo, riescono ad allontanarsi fino a distanze incomprensibilmente vaste e riescono comunque a ritrovarsi con una semplicità spaventosa nel giro di due secondi netti, se solo lo vogliono.
“È che stavolta Mario non vuole”, pensa Davide con un certo astio, sfilando gli occhiali da sole e restando ancora un po’ con gli occhi chiusi a godersi la carezza del sole di luglio, adesso più debole di quanto non fosse verso le due. Saranno ormai quasi le sei, e qualcuno ride al suo fianco.
- Sei tornato. – mormora con una certa difficoltà, la voce arrochita dallo scarso utilizzo delle ultime ore.
- Da una mezz’oretta abbondante. – risponde Mario, voltandosi a pancia sotto al suo fianco e puntellando i gomiti sul telo, - Non volevo disturbarti.
Davide scrolla le spalle.
- Ti sei divertito? – chiede, - Dove sono gli altri?
- Tornati in villa. – risponde con un sorrisetto furbo. Davide non ha ancora aperto gli occhi, non può vederlo, ma intuirlo con gli occhi della mente, ricostruirlo memoria su memoria, è più che abbastanza per sentirselo scivolare sulla pelle come un bacio. – Sono tanti e volevano tutti fare una doccia, giustamente.
- Si preannuncia serata di festa? – chiede ancora, incapace di trattenere un certo fastidio. E stavolta gli occhi li apre anche, perché vuole osservarlo, Mario, mentre gli conferma che non passerà con lui neanche uno dei giorni che restano di vacanza.
Mario sorride, si allunga a recuperare il cappello bianco e glielo schiaccia sul viso. Davide neanche ci prova, a ribellarsi. Potrebbe agitare le braccia, strapparsi quel cappello di dosso e scalciare fino ad allontanare Mario dal suo corpo il più possibile, che voglia o no, ma resta immobile, inspira il suo profumo intrappolato nella paglia strettamente intrecciata e lascia come al solito che Mario faccia esattamente quello che vuole, anche quando scosta il cappello e si china a sfiorargli le labbra con le proprie.
- Sei geloso. – gli sussurra, ancora vicinissimo. Non è una domanda, perché Mario non ha bisogno di chiedere.
Davide aggrotta le sopracciglia, non sa perché questa sua spavalderia in questo momento lo offenda tanto. Forse perché si sente incredibilmente trasparente, quando invece Mario è così criptico che non riesce più a vedere niente oltre l’ombra scura delle sue ciglia, sensualmente socchiuse sui suoi occhi castani sempre troppo pieni per riuscire a districarcisi all’interno.
- Perché siamo qui? – chiede a bruciapelo, - Perché cazzo siamo venuti fino a qui, me lo spieghi? Come hai pagato a questi tuoi cosiddetti amici il biglietto per raggiungerti in culo allo stivale, potevi pagare anche per convincerli a raggiungerti in Costa Smeralda o alle fottute Hawaii. – sputa astioso, ed osserva gli occhi di Mario farsi sempre più cupi, mentre aggrotta le sopracciglia e stringe le labbra fino a renderle sottili come due linee.
Il cappello gli finisce di nuovo schiacciato sul viso, con una forza nuova e decisamente più infastidita, senza che lui possa capire esattamente né come né perché.
- Non siamo in culo allo stivale. – risponde Mario in un ringhio sommesso, - È la pietra su cui lo stivale inciampa, questa. Forse è per questo che ti dà tanto fastidio. Ma tu non sei meno fastidioso. – butta lì, prima di lasciarlo del tutto solo in mezzo alla spiaggia, costringendolo a raccogliere le proprie cose come un qualsiasi turista del cazzo, e perfino a ricordarsi come esattamente si torni alla villa, visto che in tutto questo muoversi di persone festanti non ha nemmeno avuto modo di memorizzare correttamente la strada.
Quando riesce a tornare, Mario è appena uscito dalla doccia. Gira avvolto in un accappatoio annodato malamente in vita, mentre due ragazze semplicemente bellissime lo inseguono come cagnette in calore, ed ha in mano una lattina di Coca Cola che sembra tenere più per bellezza che per vera e propria sete.
- Datti una sciacquata. – butta lì seccamente, passandogli accanto come lo vedesse appena, - Ti aspettiamo per andare al Charleston.

*

Mario è l’anima della festa. Ride e scherza con tutti, prende in mano le redini di ogni discorso e lo porta sempre a compimento con qualche battuta brillantissima per la quale tutti ridono. È, pare, tanto felice da scoppiare, e sembra si diverta un mondo. Davide lo guarda e lo odia – vorrebbe prenderlo a calci. Così come avrebbe voluto prendere a calci le sedie e rovesciare i tavoli e poi prendere a calci anche il cibo nel poco tempo – giusto quello per consumare velocemente la cena – che hanno passato al Charleston. E gli dispiace – gli dispiacerà, quando tornerà a Milano – portarsi dietro un ricordo tanto brutto di quel luogo così bello, un palazzo che sembra incantato, illuminato dai fari gialli la cui luce si riflette sulle acque del golfo in bagliori azzurrognoli e verdastri, spaccando il cielo scuro e stagliandosi sul profilo della costa come qualcosa di magico e incredibile, sospeso sul mare come un’isola a sé, e gli interni, poi, così ricchi, sfarzosi, il rosso del velluto della fodera delle sedie, gli ori delle rifiniture delle porte e delle pareti, i lampadari ricchi di cristalli, e tutto quel brillare quasi esasperato che si riflette negli occhi di Mario, che brillano anche loro, come si sentisse finalmente a casa – e non lo vede mai brillare così a Milano – e tutto ciò che Davide riesce a pensare, in tutto questo, è lo sto perdendo, lo sto perdendo e non so perché, lo sto perdendo e lui non me lo vuole dire, lo sto perdendo e non so come fare a riportarlo indietro.
Palermo gli piace, è un bel posto – in realtà non l’ha vista per niente, tutto ciò che ha visto è il mare, il sole, le spiagge, le ampie ville di Mondello, tutto il suo verde, le palme lungo il corso principale, come in California, la gente che cammina in costume o in prendisole, le ombre fresche dei vialoni e il sole spaccapietre delle piazze, ma sì, quello che ha visto gli piace, ed odia odiarla solo per quel che rappresenta, ma sono due giorni che tutto ciò che riesce a realizzare, quando pensa alle vacanze, è “quando finiscono?”. E spera che sia prima di perdere Mario del tutto in un posto sconosciuto all’interno dei labirinti del quale non saprebbe ritrovarlo.
Lo stesso sentimento quasi violento lo prova adesso che sente la morbidezza dei divani del privè del Country sotto i polpastrelli. Le due piste circolari al centro, cariche di ragazzi e ragazze che si strusciano gli uni contro le altre, agitandosi a ritmo di musica, sono talmente lontane che a lui paiono due universi paralleli. Mario è seduto al suo fianco, ma è agitato, di tanto in tanto tortura coi denti qualche pellicina sulle dita e continua a incrociare le gambe, muovendosi sul posto come si sentisse scomodo.
I suoi amici stanno quasi tutti ballando. Glieli vede riflessi negli occhi, assieme alla voglia di raggiungerli.
Davide aggrotta le sopracciglia, stringendo con forza fra le dita la propria bottiglia di birra. Non ne ha ancora toccato neanche un sorso.
- Senti, se dev’essere questo gran sacrificio, restare qui accanto a me, allora alzati e vai. – sbotta velenoso, guardando altrove. Mario si volta a cercare i suoi occhi, e quando non li trova sbuffa di frustrazione.
- Se sto qui, è perché voglio stare qui. – risponde seccamente, mandando giù un sorso del proprio cocktail.
- No, se stai qui, - ribatte Davide, voltandosi di scatto verso di lui e parlando quasi in un ringhio, - è perché ti sentiresti in colpa a mollarmi da solo in una città che non è la mia e dove non conosco nessuno. Tutto qua. Ma sai che ti dico? Che non ho bisogno della tua pietà e nemmeno della tua gentilezza, se la tiri fuori dal cappello in momenti inopportuni e poi mi tratti a pesci in faccia quando ti faccio una semplice domanda!
- Quella domanda, - ringhia a propria volta Mario, sbattendo il bicchiere ormai vuoto contro la superficie del tavolino basso poco distante dal divano sul quale stanno entrambi seduti, - è quella domanda che mi irrita oltremodo, non tu in quanto te!
- Be’, ma sono io a portela, e sei tu che ti rifiuti di rispondere, quindi il problema non ce l’hai solo con la domanda, ma anche col sottoscritto.
- Perché ti ostini a chiedermelo!
- Perché evidentemente per me è importante! – conclude lui, alzando ulteriormente la voce, e deve ringraziare la loro relativa solitudine ai margini del privè, così come la musica troppo alta che rimbomba nel centro della sala condita appena dalle risate dei ragazzi che ballano, se nessuno si volta a guardarlo con aria sconvolta. Ma bastano gli occhi di Mario, in realtà, per farlo sentire un cretino fuori luogo anche più di quanto non si sentisse già, perciò serra le labbra e deglutisce a fatica, incapace di staccargli gli occhi di dosso perché troppo spaventato dall’incertezza che gli dà il non sapere come potrebbe reagire lui adesso.
Dovrebbe conoscerlo a memoria come conosce a memoria ogni angolo ed ogni curva del suo corpo, la consistenza precisa dei muscoli delle braccia, delle spalle, del petto e delle gambe, il sapore della sua lingua, l’odore della sua pelle, le note della sua voce, tutte queste cose lui le conosce perfettamente. Mario è la cosa che conosce di più in assoluto, e non riuscire a prevedere le sue reazioni lo terrorizza. Non lo sto perdendo, l’ho già perso. L’ho già perso.
Mario si alza in piedi, guardandolo dall’alto con occhi indecifrabili. Non c’è rabbia nel suo sguardo, Davide non riesce a leggervi dentro neanche tristezza o delusione. Troppo scuro, troppo cupo, troppo denso. Non riesce a capire cosa voglia da lui, non riesce a capire cosa l’abbia portato con sé a fare, non riesce a capire se lo voglia ancora intorno.
- Bevi. – gli suggerisce Mario, indicandogli la bottiglia di birra con un cenno del capo prima di allontanarsi verso la pista, - Magari ti migliora l’umore.
Davide abbassa lo sguardo e non lo osserva andare via. Si morde un labbro fino a farsi male e poi, stizzito, mormora un “come vuoi”, e ci si impegna davvero a mandare giù tutto il contenuto della bottiglia di birra il più rapidamente possibile, solo per sollevare immediatamente una mano e richiamare l’attenzione di un cameriere subito dopo, ordinandone un’altra. Quello gli regala un’occhiata dubbiosa e Davide risponde a muso duro, sporgendo il mento e inarcando le sopracciglia come a chiedergli che cazzo voglia da lui e perché non gli ha già portato quello che gli ha chiesto. Il cameriere lascia perdere e meno di un minuto dopo c’è una Moretti Rossa con un sapore buonissimo, leggermente amara, che va giù con una difficoltà perfino comica e gli scalda il corpo fino a farlo sudare. Sorride, quando le ultime gocce di birra gli scivolano giù per la gola, e solleva ancora una mano. La seconda Moretti Rossa non tarda ad arrivare e presto ne segue una terza. È a metà della quarta quando sente una voce femminile ridere a pochissimi centimetri da lui.
Si volta a guardare la bionda seduta al suo fianco. È bella ma sembra fatta con lo stampino, fisico standard da modella vorrei-ma-non-posso, seni troppo gonfi per entrare davvero nelle trentotto che sfilano in passerella, fianchi troppo larghi, viso tondo carico di trucco, quasi lucido, sa di finto. I capelli scivolano in una cascata liscia, lucida e morbidissima lungo la sua schiena e le sue spalle, le punte si fermano al seno conducendo lo sguardo verso l’amplissima scollatura del vestitino corto e ricoperto di strass che riflettono le luci della discoteca, confondendo i pensieri.
- Non ti farà male tutta quella birra? – è uguale a mille altre, le donne – quando te ne passano sotto le mani abbastanza – sembrano tutte le une identiche alle altre. Stesse morbidezze negli stessi punti, stesso profumo, stessi gesti, stessa voce, stesso modo di gemere a letto, teatrale, fastidioso, neanche scopare fosse uno show. Davide le odia tutte, lo realizza solo in questo momento, o forse è solo troppo ubriaco e arrabbiato per pensare lucidamente alle cose, e se odia le ragazze non è colpa delle ragazze, ma solo del fatto che lui non ne ami nemmeno una, perché l’unica persona in grado di togliergli il sonno e il senno e il sorriso è uno stronzo che di femminile non ha proprio niente e si diverte a trattarlo come una pezza da piedi quando l’unica cosa che vorrebbe lui è capire cos’ha nella testa, se stia male e perché.
- No. – risponde seccamente, stendendosi contro lo schienale del divano e continuando a guardarla fissa esattamente dove vuole essere guardata, occhi bocca tette culo, - Come ti chiami?
- Cristina. – sorride lei, piegandosi un po’ nella sua direzione, - E tu?
Davide non risponde, sorride e la accarezza ancora con lo sguardo. Pensa stupidamente “Cristina! Come la sorella di Mario!”, solo per un attimo, prima di rispedire il pensiero dov’è giusto che stia – nell’angolo più remoto e dimenticato sul fondo della sua testa – per poi sistemarsi comodamente sul divano e voltarsi verso di lei, in modo da poterla guardare senza dover girare il capo.
- E da dove salti fuori, Cristina? – chiede ancora, stendendo il braccio lungo il bordo superiore dello schienale, le dita che quasi le sfiorano una spalla, se solo le muove appena di qualche centimetro. Lei non si dimostra stupita dal suo silenzioso rifiuto di presentarsi, e sorride sensuale, le labbra piene dipinte di rosa glitterato che si stendono sul suo volto, illuminandolo piacevolmente. – Sei di queste parti o…? – chiede, accennando col capo al gruppo degli amici di Mario che si scatena in pista.
- Di queste parti. – risponde lei, cogliendo l’allusione, - So che non lo sei tu, però. – aggiunge in una risatina divertita, chinandosi nella sua direzione e guardandolo da sotto in su come una gattina maliziosa, - E non solo per il tuo accento. Ti ho riconosciuto.
Davide sorride ancora, e invece di ritrarsi si avvicina. Li separano così pochi centimetri da poterle sfiorare il naso col proprio.
- Quindi è solo al mio nome che devo tutte queste attenzioni? – chiede a bassa voce, allungando una mano ad accarezzarle la coscia, sollevando appena l’orlo del vestito. Lei sorride soddisfatta, abbassando le lunghe ciglia sugli occhi scuri e stendendo la gamba verso di lui, fino a sfiorargli un fianco col ginocchio.
- Ti importa davvero? – gli chiede sulle labbra, e Davide non risponde perché in realtà, a voler essere completamente sincero, la risposta dovrebbe essere sì. Dovrebbe essere “sì, m’importa, perché tutte quelle che mi sono scopato le ho scopate perché ero Davide Santon, il calciatore, e nient’altro. Perché perfino Sofia mi è passata fra le mani solo per quel motivo, io nemmeno le piacevo, e d’altronde non è veramente possibile che una ragazza, dopo aver avuto Mario, possa passare a qualcos’altro di così  palesemente meno bello, se non per un motivo forte come la fama. Ed io so esattamente di cosa sto parlando, perché se non fossi spinto da un motivo forte come la tristezza non potrei mai accontentarmi di avere te, dopo aver avuto lui. E sai perché? Perché lui non l’ho avuto perché ero Davide Santon. Lui l’ho avuto per i pomeriggi passati insieme in Pinetina ad allenarci sotto la pioggia, per le notti insonni in stanza insieme torturati dall’emozione perché non potevamo credere di partire da titolari il giorno dopo, per i pranzi e le cene divise in due non per necessità ma per semplice voglia di farlo, per le telefonate tristi alle due del mattino per dire ‘mi manchi’, per tutte le volte che quelle telefonate si sono chiuse con un singhiozzo ed anche per tutte le volte che si sono chiuse con un gemito, per i festeggiamenti idioti dopo un gol in mezzo al campo, per i vestiti scambiati, per i posti in cui mi ha accompagnato senza avere nessun altro motivo che non fosse stare insieme e per quelli in cui l’ho seguito per la stessa identica ragione, per l’appartamento diviso in centro a Milano, perché sono venuto a patti con la sua incapacità di strizzare il tubetto del dentifricio dal fondo, perché lui è venuto a patti col mio mangiare quasi esclusivamente dolci o cibi senza sale, perché lui sa tutto di me da prima ancora che io diventassi quello che sono adesso e perché io so tutto di lui da prima ancora che lo diventasse lui. È per questo che m’importa dove metti le mani e anche perché lo fai, Cristina, ed è per questo che è cosìpatetico che io te lo lasci fare”, ed è questo che vorrebbe dire, tutto in un fiato, non una parola di più e non una parola di meno, ma è troppo stanco, troppo amareggiato, troppo triste e troppo confuso per concedersi davvero uno sfogo simile: le labbra di Cristina sono più semplici, il suo corpo morbido pressato contro il suo è più piacevole, il movimento lento del suo bacino quando gli si sistema in grembo e prende a strusciarsi dondolando avanti e indietro, allacciando le gambe dietro la sua schiena e le braccia dietro la sua nuca, è più appagante; Davide lascia scivolare una mano fra le sue cosce dischiuse e lei geme quando lui sfiora il cotone già bagnato delle mutandine, pressando appena con l’indice e poi percorrendo con lo stesso dito l’orlo in pizzo, scostandolo appena per godersi la sensazione umida e calda della pelle al di sotto, un’ombra di piacere sui polpastrelli e i suoi baci bagnati contro il collo, e dura veramente il tempo di un battito di ciglia, perché Davide chiude gli occhi e il profumo di Cristina è ancora lì, e quando li riapre di quello stesso profumo non resta che una traccia, così come è solo una sensazione ciò che resta del suo peso addosso, mentre Cristina è davanti a lui, in piedi, incerta sulle gambe, e due mani scure la reggono saldamente per la vita, stringendo con una certa violenza, mentre da dietro il suo corpo fa capolino quello diversissimo di Mario, che ha gli occhi aperti e le sopracciglia aggrottate e le labbra serrate al punto da sembrare invisibili nel contrasto fra buio e luce che disegna i contorni degli interni del locale.
- Levati dalle palle. – ringhia Mario, stringendola ai fianchi con forza ancora maggiore, e se non fosse troppo assurdo pensarlo Davide potrebbe perfino dire che si sta riferendo a lui: perché i suoi occhi non lo mollano neanche per un istante.
- Ah! – si lamenta la ragazza, - Ma che cazzo- - ma non ha modo di concludere, perché Mario la scaraventa letteralmente dall’altro lato della stanza, mandandola a rotolare goffamente su un divanetto un po’ defilato e interrompendo due ragazzi intenti a baciarsi teneramente, in un concitato intrecciarsi di grida acute e lamentele di ogni genere che Davide fatica perfino a percepire, preso com’è dall’osservazione dei lineamenti di Mario, così rigidi e furiosi da terrorizzarlo.
- Alza il culo. – ringhia ancora lui, e stavolta Davide sa con certezza a chi Mario si sta rivolgendo.
- No. – risponde, ma la voce gli trema, - Mi stavo divertendo.
- Io no, per niente. – gli fa notare Mario, stringendo i pugni lungo i fianchi.
- Non mi interessa! – ribatte Davide, lo stesso tono lagnoso del suo fratellino quando non si vede accordato un capriccio, un tono che, se fosse solo un po’ meno ubriaco di com’è, lo porterebbe a provare vergogna e pena per se stesso.
- Non mi interessa che non ti interessi! – tuona la voce di Mario, che per un secondo, fosse anche solo nella sua mente, sovrasta il rombo della musica che riempie l’ambiente assieme alle risate della gente, e gli riecheggia nella testa facendogliela dolere. – Davide. – lo richiama Mario, tornando a stringere i pugni come a voler riacquistare, tramite quel gesto, il controllo di se stesso, - Non costringermi ad una piazzata pubblica. Ti ho trovato con le mani nelle mutandine di un’altra. Per favore. Alzati e andiamo via.
Le sue parole, per la prima volta, gli danno la misura della gravità dei suoi gesti. Non sono abbastanza da risvegliarlo del tutto – e infatti, quando si muove, lo fa accompagnato da una sorta di torpore che gli dà l’impressione di non riuscire a reggersi bene sulle gambe e potere perciò cascare in terra da un momento all’altro – ma sono sufficienti a riscuoterlo tanto da obbligarlo ad alzarsi in piedi e restare fermo accanto a lui, lo sguardo basso e le mani dietro la schiena come un bambino in punizione, fino a quando non lo sente muoversi ad ampie falcate verso l’uscita.
Lo segue docile, abbandonandosi sul sedile del passeggero quando lui apre la portiera per invitarlo ad entrare in macchina, e resta semisdraiato lì, il capo reclinato sulla spalla e gli occhi socchiusi, desiderando di trovarsi altrove per tutto il tragitto fino alla villa. Guarda le strade illuminate e piene di gente sfilare oltre il finestrino, le persone sono felici, sorridono, è estate e sono in vacanza in un posto bellissimo, e lui sta rovinando tutto. Forse Mario non vuole dare una risposta alla sua domanda perché quella risposta è semplicissima e si aspetta che sia lui a capirla da solo. Perché siamo qui, Mario?, perché mi hai portato fino a qui? Perché è un posto bellissimo che chiama felicità, e voleva condividerlo con lui. Forse è per questo, solo per questo che ha buttato lì quel “sto per andare in Sicilia, magari potresti venire con me” al quale Davide s’è aggrappato come ad uno scoglio in mezzo alla tempesta. E lui sta mandando tutto a puttane. Senza un motivo.
Quando la macchina si ferma nel cortile della villa, Davide tira su le gambe e si rannicchia sul sedile, stringendo le ginocchia al petto ed affondando il viso negli avambracci. La portiera accanto a lui si apre, e nel silenzio del viale, interrotto solo dal frinire dei grilli e dalla lontana eco delle onde del mare contro il bagnasciuga del lido, può sentire Mario sospirare profondamente, come un genitore alle prese con un bambino particolarmente problematico.
- Davide, scendi, su.
- No. – si lagna lui, nascondendo il viso con maggiore ostinazione, - Mi vergogno. – spiega quindi in un piagnucolio sommesso. Mario sospira ancora, ed allunga entrambe le braccia a circondarlo in una stretta tenera e rassicurante. Lo culla per qualche secondo e Davide si scioglie sotto i suoi tocchi dolcissimi, quasi timorosi. Mario prende un suo braccio e se lo fa passare sopra le spalle, aiutandolo a scendere dalla macchina, e Davide si lascia manipolare come fosse privo di vita, tenendo gli occhi socchiusi e puntati sul vialetto di ghiaia che porta all’entrata della villa.
- Non sono arrabbiato. – gli sussurra, sfiorandogli un orecchio con le labbra mentre, faticosamente, salgono al piano di sopra.
- Dovresti. – singhiozza appena Davide, scuotendo il capo per cercare di scacciar via le lacrime.
- E invece non lo sono. – insiste Mario, lasciandogli un bacio lievissimo su una tempia. – Sei ubriaco. Non l’avresti mai fatto, da sobrio. Non hai colpe, ti ho detto io di bere. – conclude, lasciandolo andare solo dopo averlo steso sul materasso. Davide si copre il volto con entrambe le mani, vagamente confortato dal fresco accogliente delle lenzuola e del cuscino sotto il suo corpo.
- Non dire così… - cerca di fermarlo, mentre Mario gli sfila le scarpe, abbandonandole a casaccio ai piedi del letto, - Non è colpa tua.
- Come preferisci. – scrolla le spalle Mario, slacciandogli anche i pantaloni e cercando di tirarli via senza peraltro riuscirci, dato che Davide si sente troppo debole perfino per agevolarlo sollevando il bacino, motivo per il quale alla fine rinuncia, lasciandoglieli addosso. – Ehi. – richiama la sua attenzione quindi, e quando Davide apre gli occhi lo trova in ginocchio sul pavimento, accanto a lui, una mano sollevata e due dita a seguire il profilo del suo viso. – Mi dispiace di non averti detto perché ti volevo qui, piccolo. – cerca di sorridere quindi, - Non ero pronto a dirtelo.
Il respiro di Davide si ferma, mentre il cuore prende a martellargli nel petto tanto forte da spaventarlo.
- Cosa…?
- I miei genitori – si inumidisce le labbra Mario, a disagio, - loro mi hanno chiamato, vogliono vedermi. E io non- io non ce la facevo a venire ad incontrarli da solo.
- I tuoi genitori… - boccheggia Davide, mettendosi seduto di scatto. Mario resta in ginocchio, e Davide non può che fissarlo sgomento dall’alto in basso. – Intendi i tuoi genitori naturali?
Mario annuisce, inspirando ed espirando profondamente.
- Mi dispiace non avertelo detto prima. Ho bisogno di te per incontrarli, quindi pensavo che-
- Io non voglio incontrare quella gente! – strilla Davide, stringendo con forza i pugni attorno al lenzuolo sotto di sé, - Io non- io non ho idea di chi siano, tu- tu mi avevi detto di non- io pensavo… pensavo che fosse solo una vacanza, Mario!
- Lo so! – annuisce Mario, sporgendosi verso di lui, - Lo so, e mi dispiace, piccolo, davvero, detesto prenderti in giro, ma non ho trovato il coraggio di dirtelo. – e sospira, allungando una mano a cercare la sua, - Spero solo che-
- No. – insiste Davide, ritraendo la mano, - No, io non… tu non puoi trattarmi come mi hai trattato negli ultimi due giorni e poi dirmi che hai bisogno di me per incontrare i tuoi genitori naturali! No! Non mi sta bene, Mario. Non verrò.
Mario resta in ginocchio al suo fianco ancora per qualche secondo. Lo guarda come a chiedersi se abbia proprio sentito bene, se davvero Davide abbia intenzione di  abbandonarlo adesso che ha tanto bisogno di lui, ma nulla nell’espressione di Davide cambia, e non abbassa nemmeno lo sguardo, perciò, dopo un po’, Mario si alza da terra e si allontana verso la porta, senza mai voltargli le spalle.
- Penso che sia il caso che io non dorma con te, stanotte. – dice soltanto, prima di girarsi e lasciarlo da solo. Davide fissa a lungo la porta, dopo averlo osservato andare via. Si lascia andare disteso sul letto solo quando cominciano a fargli male i polsi, ed anche allora non riesce a prendere sonno.

*

Quando si sveglia, il giorno dopo, non ha neanche idea di che ore siano. La villa è silenziosa – e vuota, anche, o almeno questo è quello che scopre quando trova il coraggio di mettere il naso fuori dalla camera da letto ed esplorare un po’ in giro. In cucina, il lavello è pieno di tazze e tazzine sporche. La caffettiera è sul fornello spento, si avvicina e solleva il coperchio per sbirciare dentro. È vuota, ma è stata usata. In frigo c’è un fondo di latte nell’ultimo cartone, e quando richiude lo sportello, dopo aver bevuto, trova un post-it appiccicato vicino alla maniglia. “Spesa:”, recita, ed è la calligrafia fluida ed elegante di Mario, perciò sorride quando, scorrendo la lista, trova esattamente le stesse cose che in genere trova scritte su post-it molto simili a questo, attaccati allo sportello del loro frigorifero, nel loro appartamento, su a Milano. “Coca Cola, Cioccolato, Biscotti, Latte, Zucchero” e si interrompe all’improvviso, perché in genere in coda alle liste di Mario c’è sempre la dicitura “roba che Dade non mangerebbe mai”, che comprende alternativamente insaccati vari, condimenti precotti per la pasta, scatolette di tonno e carne in gelatina. Nel loro gergo familiare, “roba che Dade non mangerebbe mai” basta a descrivere tutte queste cose, ma in questo post-it, sul frigorifero di una villa a Mondello, quell’espressione non basta. E quindi c’è scritto “prosciutto, salame, tonno e Simmenthal”.
Resta un po’ in contemplazione della lista come a volerne tirare fuori una qualche soluzione, ma – quando i suoi pensieri cominciano a rimbombare sia nel vuoto della villa che nel vuoto della sua testa – si riscuote, strappa via il post-it dallo sportello del frigorifero e se lo infila velocemente in tasca. È ancora vestito come la sera prima, sale al piano di sopra e pensa fugacemente che dovrebbe probabilmente darsi una sciacquata e cambiarsi, prima di uscire, ma poi lascia perdere, infila le scarpe da tennis e passa appena davanti allo specchio per cercare di dare un senso alla massa informe di capelli che si ritrova sulla testa, salvo poi fallire nell’impresa e lasciar perdere con una scrollata di spalle.
Il viale principale di Mondello lo accoglie in un fragore di automobili e risate. Il mare è tutto sommato calmo, oggi, ma c’è troppa gente in acqua perché possa essere anche silenzioso, e Davide si lascia cullare dallo sciabordio delle onde lievissime che accarezzano la spiaggia, e dal fragore degli schizzi che nascono quando qualcuno si tuffa dalla riva o da un pedalò, mentre percorre il marciapiede guardandosi distrattamente intorno alla ricerca di un supermercato.
Arrivato in piazza, ha già percorso tutto il lido fino alla fine, e di supermercati nemmeno l’ombra. Si chiede se tutti quelli che abitano a Mondello prendano la macchina e vadano fino in città per andare a fare la spesa, e mentre rimugina si avvicina a quella che potrebbe sembrare qualcosa di simile ad una panineria. Chiede alla proprietaria se ci sia un supermercato da quelle parti, lei annuisce e sorride. “Dassutta”, risponde, e di fronte alla sua espressione confusa ride sguaiatamente.
- Che sei, straniero sei? – lo prende in giro, - Pulintuni?
Davide non è certo di cogliere il senso specifico del discorso, ma di sicuro ha compreso quello generale.
- Sono qui in vacanza. – risponde con un mezzo sorriso imbarazzato.
- Sei con la ragazza, ah, sei con la ragazza? – chiede quella, ammiccando pure un po’. Davide ride.
- Una cosa del genere, sì. – annuisce con una scrollatina di spalle, - Siamo rimasti senza niente da mangiare in casa, perciò-
Talè, un masculiddu chi fa ‘a spisa! E com’è ca’ un ti spusasti, ancora?
- Eh, non è tanto semplice… - ride ancora Davide, grattandosi la nuca.
- Vabbe’, vabbe’. – taglia corto lei, agitando una mano come a voler scacciar via il discorso, - U’ supermarket è là. – dice, indicando il fondo della strada, - Tu vai sempre drittu e vidi ca’ u’ trovi.
Il supermercato c’è davvero, proprio in fondo alla strada. È grande e pieno di gente, e questa cosa lo stupisce, contando che quello è un paesino veramente minuscolo. Le commesse sorridono, dentro c’è di tutto – reparto panificio, reparto macelleria, reparto pescivendolo, reparto ortofrutticolo – e mentre gira da un bancone all’altro spuntando le voci della lista e concedendosi qualcosa di buono anche per sé, di tanto in tanto, Davide sorride e si chiede perché dovrebbe avere paura, perché dovrebbe essere arrabbiato, perché dovrebbe sentirsi triste. Stare lontano da Mario per tutto quel tempo, a causa degli impegni in Nazionale, gli ha fatto più male che bene, ha demolito tutte le sue certezze – ed erano parecchie – e questo non può che significare una sola cosa: checché possa dirne Mourinho, la lontananza a loro due non fa bene. Probabilmente sono ancora troppo piccoli ed immaturi per tirarne fuori un qualche insegnamento positivo come invece dovrebbero fare, ma hanno davanti a loro tutta la vita per trarre dalla solitudine e dalla nostalgia tutti gli insegnamenti che vorranno. Al momento tutto ciò che riesce a pensare, uscendo dal supermercato con due buste di plastica colme di roba per mano, è che ha voglia di vedere Mario. Di chiedergli scusa. E soprattutto di dirgli che va bene, lo accompagnerà dove vuole, se è ciò di cui ha bisogno.
Quando riesce a ritrovare la strada di casa – non prima di essere passato di nuovo davanti al bancone della signora, che l’ha richiamato indicandolo al figlio “vidi, Totò, u’ picciriddu ca’ ti dissi prima”, “mamma, ma quello èSanton!” con annessa mini-sessione di autografi e fotografie – la villa s’è già riempita di gente. Becca un ragazzo a caso che sgranocchia patatine e gli chiede come mai siano già tornati tutti. Quello scrolla le spalle e dice “ci sono stati problemi in spiaggia, c’era qualche tifoso un po’ troppo insistente... in genere Mario non si lagna, ma stavolta era scazzato”. Davide deglutisce ed annuisce, sistema tutta la roba che ha comprato fra frigorifero e stipetti vari e poi, prima di raggiungere Mario dove sa di trovarlo, gli prepara un panino col prosciutto, al quale aggiunge un bicchiere del latte al cioccolato che ha trovato al banco frigo. Non è del tutto sicuro che la combinazione dei due cibi non sia letale, ma il panino col prosciutto è energetico e il latte al cioccolato fa felice Mario, perciò non può andare così male. E poi lo stomaco di Mario è foderato in alluminio, se riesce a mangiare quell’aborto di cibo che lì chiamano stigghiole senza per questo morire dolorosamente.
Mario è in camera, esattamente come si aspettava. Davide non ha bussato prima di entrare, e non chiede permesso neanche adesso che avanza verso di lui cercando di tenere il pranzo improvvisato in bilico fra le braccia mentre tenta contemporaneamente di chiudersi la porta alle spalle.
- Ehi. – lo saluta, lasciandosi ricadere morbidamente sul letto dopo aver posato tutto sul comodino, sotto lo sguardo di Mario, indifferente ma velato da un certo fastidio, - Come va?
Gli occhi di Mario si spostano su di lui, dubbiosi.
- Dovrei domandarlo io a te. – ritorce acido, - Ieri eri più di là che di qua.
- Ho bevuto tanto? – chiede, abbassando lo sguardo, imbarazzato, - Ricordo tutto, tranne quanto ho bevuto.
- Lasciamo perdere. – rotea gli occhi Mario in un sospiro stremato. – Cosa sono questi? – chiede poi, indicando il panino e il bicchiere di latte, - Offerte di pace?
Davide inarca le sopracciglia verso il basso, stringendosi nelle spalle.
- Una specie… - mugola, - In realtà sì. – e sospira a propria volta, chiudendo gli occhi e cercando di farsi coraggio. – Senti, ci ho pensato su. – Mario sorride, Davide sbotta un mugolio deluso e gli tira un pugno contro una spalla, - Ma non sorridere di già! Dammi almeno modo di dirtelo! Ti odio quando fai così.
- Quando faccio cosa? – ride Mario, sollevando un braccio e stringendoselo contro, - Quando riesco a prevedere il momento in cui stai per chiedermi scusa e dirmi “d’accordo”?
- Esatto. – biascica Davide, fingendo di non sentirsi al settimo cielo per quell’abbraccio.
Mario ride ancora, baciandolo dolcemente su una guancia.
- Bugiardo. – gli sussurra all’orecchio. E Davide non protesta, perché farlo ora significherebbe mentire ancora.

*

I giorni scorrono perfino pigri, dal successivo in poi. Il mare di Mondello resta sempre la solita enorme massa di acqua trasparente, chiarissima in riva, blu notte man mano che ci si allontana verso il largo, e le spiagge restano sempre le solite enormi masse di sabbia dorata e sottilissima, fresca quando le si passeggia addosso alle sette del mattino, bollente quando si ripete lo stesso rituale a mezzogiorno, e poi di nuovo fresca verso le sei, liscia in alcuni punti, curva in altri, e proprio quando stai pensando che assomiglia a un corpo umano, che puoi quasi paragonare fianchi e spalle a dune e conche, ecco qualche maceria di un castello di sabbia ormai semidistrutto dalle onde e dai piedi dei bambini, e ti viene quasi da ridere perché ehi, stavi per paragonare la spiaggia a un corpo, ed è una cosa ridicola e anche un po’ stupida, perché insomma, cosa c’è di più diverso?, e ringrazi il castello monco di una torre o del suo ponte levatoio per averti ricordato che è idiota paragonare qualsiasi cosa a qualsiasi altra cosa che sia diversa da se stessa. C’è un motivo per cui la spiaggia è la spiaggia e il corpo umano è il corpo umano, c’è un motivo per cui la spiaggia non è un corpo umano e c’è un motivo per cui un corpo umano non è la spiaggia. È c’è un motivo per cui lui si trova a Mondello in quel momento, e quel motivo è Mario, e lui può paragonare Mario a tutto ciò che vuole – un fuoco, una catastrofe naturale, l’Amore, quello con la A maiuscola, o un semplice pezzo del suo cuore – ma farlo non avrebbe senso. Mario è Mario ed è Mario il motivo per cui lui si trova lì.
Mario che lo dondola un po’ davanti allo specchio, cullandolo come fosse un bambino, ondeggiando a destra e poi a sinistra in uno strusciamento dolce che non conserva neanche una punta della sensualità affamata con la quale si stava strofinando contro di lui poco prima, a letto, mentre facevano l’amore.
- Stai bene con la camicia. – dice, e Davide ride.
- Bugiardo. – si lamenta, tirandogli una mezza gomitata nello stomaco. Mario ride a propria volta, massaggiando distrattamente il punto dolente.
- Cercavo di essere carino. – si giustifica con una linguaccia, mentre gli sistema il colletto, e Davide sospira e sbuffa come una teiera.
- Sei più carino quando sei sincero. – gli fa notare. Mario risponde con un’occhiata fin troppo furba, e lascia scivolare due dita sopra i primi bottoni della camicia, che la tengono chiusa quasi fino al collo.
- Stai meglio – gli sussurra all’orecchio, sciogliendo il primo bottone, - senza. – conclude, sciogliendo anche il secondo e poi rimirando l’opera compiuta allo specchio. – Ma anche così sei molto più che guardabile. – annuisce compiaciuto, - Magari la tiriamo fuori dai pantaloni, mh? – continua, tirando la camicia fino a lasciarne scivolare gli orli lungo i suoi fianchi, spianandoli con le mani, - Ma chi ti ha insegnato a vestirti, l’ha fatto col preciso scopo di fare in modo che ogni volta tu dovessi andare in giro come un boy scout? No, perché-
- Mario. – lo interrompe Davide, voltandosi abbastanza da poterlo guardare negli occhi, - Sei nervoso?
Lui non scosta lo sguardo, anzi, ricambia l’occhiata a lungo, prima di sospirare pesantemente ed abbandonarsi contro di lui, poggiando la fronte sulla sua spalla.
- Si nota molto? – chiede, stringendolo attorno alle spalle e tornando ad ondeggiare, stavolta più per cullare se stesso che lui.
- Parli a macchinetta, non lo fai mai… - riflette Davide, sollevando entrambe le mani e poggiandole su quelle di Mario, intrecciate proprio all’altezza del suo petto, - Direi che si nota, sì. – Mario ride, strusciando un po’ la fronte contro la manica della camicia e poi risalendo fino a lasciargli un bacio sulla nuca. – Perché? – chiede Davide, guardandolo negli occhi attraverso il riflesso dello specchio, - Hai paura?
Mario esita, prima di rispondere. Scioglie un po’ la stretta attorno alle sue spalle, però, e Davide si rigira fra le sue braccia per poterlo guardare più direttamente. Resta in silenzio, in attesa di una sua qualsiasi mossa, come ha sempre fatto – è stato Mario ad avvicinarsi per primo quando l’ha riconosciuto il suo primo giorno di allenamento con la prima squadra, è stato Mario il primo a dirgli “presto o tardi, noi due dovremo parlare”, quando il loro rapporto stava cominciando a farsi molto più intimo e complice di quanto entrambi non si sarebbero mai aspettati, ed infine è stato sempre Mario a farsi avanti quella notte in cui stavano guardando un film insieme in Pinetina, svaccati sul suo letto, e all’improvviso era mancata la luce e tutto ciò che erano stati in grado di sentire erano stati i loro stessi respiri, lontani, vicini e poi vicinissimi, direttamente sulle labbra. Attende anche questa volta, ed anche questa volta non deve aspettare poi così a lungo.
Mario stringe una delle sue mani fra le proprie, e la solleva fino all’altezza del petto, contro il quale la stringe, pressando con forza.
- Senti niente? – gli chiede quindi, in un sussurro appena udibile.
Davide socchiude gli occhi ed allarga le dita, per sentire sotto i polpastrelli il calore del suo corpo, attraverso il tessuto leggero della maglia che Mario indossa.
- Il tuo cuore. – risponde, tornando a guardarlo. Mario annuisce.
- E ti sembra che batta forte? – chiede ancora, stringendo la presa sulla sua mano.
Davide si inumidisce le labbra ed aggrotta le sopracciglia, cominciando ad intuire dove Mario voglia andare a parare.
- …no. – risponde sinceramente, - Mi sembri tranquillo. – e Mario annuisce ancora.
- Perché lo sono. – spiega, la voce sempre più flebile, quasi incerta, - Non sono agitato, non ho paura. Non sono neanche felice né emozionato, però. Non sento niente. – e stringe la presa fin quasi a fargli male, ma Davide non si lamenta. – Non sento niente di niente. – precisa, stringendo ancora un po’, prima di lasciarlo andare. – Non capisco cosa significa. Ed è questo a rendermi nervoso. – conclude, dandogli le spalle ed andando alla ricerca delle scarpe lasciate chissà dove all’interno della stanza.
Davide massaggia piano la propria mano con due dita, sentendo quasi le ossa scricchiolare e tornare al loro posto sotto la sua leggera pressione. Ma non sa che dire, e quindi tace, aspettando che Mario sia pronto per uscire e raggiungere il luogo dove, dopo chissà quanto tempo, incontrerà nuovamente i suoi genitori naturali.

*

La prima cosa che Davide è in grado di pensare, dopo quella che gli sembra un’ora di silenzio assoluto – non all’esterno, naturalmente, Mario sorride, o almeno si sforza di farlo, e chiacchiera educatamente, come gli è stato insegnato dai suoi genitori, quelli veri, ed i due sconosciuti che stanno seduti davanti a loro rispondono entusiasti, raccontando episodi della loro vita ed informandosi su quelli della vita di Mario, avidi di notizie e di partecipazione un po’ tardiva, e comunque tutto il ristorante a due passi dal molo risuona delle risate e del chiacchiericcio confuso e divertito delle persone che riempiono la sala piccola ma accogliente sul retro del locale, quindi no, di silenzio non si può proprio parlare, ma nella testa di Davide c’è stato solo questo, e non gli era mai capitato di non essere in grado di formulare neanche un singolo pensiero, logico o illogico che fosse, non gli era mai capitato di sentire il cervello come atrofizzato; e lo sente risvegliarsi solo in quel momento, mentre affonda la forchetta nel risotto coi gamberetti e poi la solleva fino alle labbra, assaggiando appena: la signora Rose non è per niente una bella donna. Nemmeno il signor Thomas, a dire la verità, è un bell’uomo, ed entrambi, a voler essere del tutto onesti, sono quanto di più dissimile da Mario abbia mai visto, nonostante il colore della pelle.
Semmai, per quanto questo possa sembrare assurdo, Mario assomiglia più al signor Franco – ha lo stesso modo improvviso e infantile di scoppiare a ridere anche senza un motivo evidente – ed alla signora Silvia – ha negli occhi la sua stessa indulgenza, la sua stessa gentilezza, e mentre Davide, lasciando scorrere gli occhi sui genitori naturali di Mario, nota tutte queste cose apparentemente minuscole e insignificanti, si ripete con sempre maggior convinzione che, nonostante sia felice di essere accanto a Mario in questo momento, non capisce che bisogno ci fosse, da parte di queste due persone, di organizzare un incontro simile.
Mario parla con loro con la stessa pacatezza con la quale in genere discute con gli estranei per strada, quando lo fermano per un autografo. Rose e Thomas chiedono dei suoi gol, di come si trovi in squadra, di chi siano i suoi migliori amici, e lo fanno con calore, come fossero solo due genitori che non vedono il figlio da tempo perché è andato a lavorare all’estero, ma non chiedono della sua famiglia, delle persone che l’hanno cresciuto, dei suoi fratelli – e, quando Mario accenna ad uno qualsiasi dei Balotelli, Rose e Thomas cambiano argomento quasi si sentissero perfino offesi. Pur non avendone il diritto.
La cena si conclude senza momenti di nervosismo particolari. I signori Barwuah insistono per pagare il conto, ma Mario sorride – quasi timidamente – e senza neanche chiedere il permesso mette mano al portafogli, pagando prima di loro. La signora Rose è in imbarazzo, ma non dice niente. Il signor Thomas sorride e ringrazia, ed è allora che il suo tono cambia e per la prima volta Davide ha l’impressione che quell’uomo stia per dire qualcosa di importante.
- So che vieni spesso in Sicilia, in vacanza. – comincia quasi casualmente, - Ti piace?
- Molto. – annuisce Mario, giungendo le mani sul tavolo, davanti a sé, - È un bel posto per-
- Mario. – lo interrompe Thomas, quasi con difficoltà, - Io e tua madre – comincia, e Davide osserva le sopracciglia di Mario inarcarsi e poi aggrottarsi istintivamente di fronte a quel termine evidentemente improprio, - ci chiedevamo se incontri come questo potessero ripetersi. Se non ti andasse, magari l’anno prossimo, di tornare e rivederci. Così potresti conoscere i tuoi fratelli, magari fermarti a dormire da noi. – ipotizza, e poi si ferma, restando in attesa di una qualche reazione di Mario, che però si limita a guardarlo come non l’avesse mai visto prima, le labbra dischiuse e gli occhi persi fissi su di lui. - …siamo brave persone, Mario. – sospira pesantemente Thomas, abbassando lo sguardo, - Ci dispiace per tutto quello che è successo, ma vorremmo veramente provare a riallacciare questo rapporto. Se tu vuoi.
Mario batte le ciglia un paio di volte, come non potesse credere ai propri occhi. Si alza lentamente, piantando le mani sul tavolo e lasciando che la sedia strisci contro il parquet nel movimento.
- Mi dispiace. – dice, apparentemente glaciale, ma Davide può vedere la tempesta agitarsi dentro i suoi occhi scuri, - Non credo sia il caso. Mi dispiace davvero, ma… io non credo che vi rivedrò ancora. – deglutisce.
Davide, ancora seduto, non può che spalancare gli occhi e boccheggiare, e i signori Barwuah fanno lo stesso, mentre osservano Mario voltarsi ed uscire dal locale fra gli sguardi un po’ curiosi della gente che prima si chiede chi sia il ragazzino, e poi, dopo averlo riconosciuto, si chiede cosa ci faccia proprio lì. E la sala, mentre esce, si riempie di bisbigli, attraverso i quali lui passa come stesse fendendo la nebbia, a viso fiero, dritto sulle gambe, col petto in fuori e la testa alta.
- Scusatemi. – mormora confusamente Davide, alzandosi a propria volta, impacciato, e seguendolo fuori. Coglie solo di sfuggita la signora Rose passarsi una mano sugli occhi, mentre il marito solleva una mano ad accarezzarle una spalla, e poi l’aria calda e umida della sera di Mondello lo colpisce dritto in faccia, infastidendolo un po’. Il molo è illuminato per tutta la sua lunghezza, e il lido pullula di bancarelle colorate come fosse festa. I palloncini si dibattono in aria, trattenuti a stento dai loro fili di spago, e puntano la testa al cielo scurissimo punteggiato di stelle, che sono così tante da sembrare finte.
Mario  non è da nessuna parte.
Davide gira la piazza, la gira quasi tutta, fa lo slalom fra le motociclette dei centauri assiepate dietro la fontana, si allontana lungo la strada senza lampioni, verso il parcheggio, poi torna indietro, passa davanti alla friggitoria della signora che continua a chiamarlo picciriddu ogni volta che lo vede e si aggira circospetto di fronte alle due gelaterie più grandi; e poi si volta, posa di nuovo gli occhi sulla fontana – “è la Sirenetta di Mondello”, gli ha raccontato Mario; “Ma ha due gambe con due pinne al posto dei piedi,” ha protestato lui, “non assomiglia a una Sirenetta”, e Mario ha riso – e Mario è lì, seduto sui gradini un po’ umidi che circondano la fontana. Non sembra turbato, fissa dritto davanti a sé, la schiena rilassata contro la ringhiera e le mani abbandonate in grembo, inerti.
Gli si avvicina quasi con timore, sedendosi al suo fianco e restando in silenzio, prendendosi il tempo sufficiente per guardarlo bene da ogni lato, come volesse assicurarsi sia ancora tutto a posto. Poi, facendosi coraggio, deglutisce e schiude le labbra.
Mario lo batte sul tempo.
- Sto bene. – lo rassicura con un mezzo sorriso. – Sto bene. – ripete, e Davide ha la sgradevole sensazione che lo stia facendo più per convincersene che perché è vero.
Annuisce, avvicinandosi ancora un po’.
- Sei stanco? – chiede quindi, sfiorandogli un braccio con la punta delle dita in una carezza discreta, quasi illusoria, - Vuoi che torniamo subito alla villa? Per me non-
- Sono un cattivo figlio? – chiede all’improvviso Mario. Non lo guarda, la sua voce non cambia tono. È sempre tranquilla e pacata, e contrasta con le sue parole con tanta forza che Davide si sente stridere le orecchie. – Loro mi hanno messo al mondo, dopotutto. – riflette, gli occhi che danzano lenti dalle luci del borgo ai loro stessi riflessi sul mare a pochi metri, - Dovrei essere più riconoscente, forse. Non mi hanno neanche chiesto tanto, solo di rivederci. Non è una richiesta così assurda. Non è che mi vogliono obbligare ad andare a vivere con loro o chissà che. Solo vederci. Una volta all’anno. – si interrompe ed inspira profondamente, trattenendo a lungo l’aria nei polmoni prima di lasciarla finalmente andare. Si volta a guardarlo, i suoi occhi sono cupi e persi. – Sono un cattivo figlio? – chiede, e a Davide si stringe il cuore. – Sono una cattiva persona?
Davide agisce senza pensarci – ed in realtà non sente nemmeno il bisogno di farlo: si solleva sulle ginocchia ed allunga le braccia verso di lui. Lo stringe a sé non come un amico, non come un compagno e non come un amante. Si sente un padre una madre un fratello, si sente famiglia, e quando sussurra “ti amo”, direttamente sulla pelle caldissima della sua tempia, è la dichiarazione d’amore più universale del mondo.
Mario lo stringe in vita, nascondendo il volto contro il suo petto.
- Grazie. – risponde, - Anch’io. – ma è un bisbiglio talmente sottile che si perde nello scrosciare dell’acqua lungo il corpo di bronzo della Sirenetta immobile a guardare Mondello.

*

- Se prende di nuovo fuoco, - borbotta Davide, allacciando stretta la cintura in vita mentre le assistenti di volo invitano gli altri passeggeri a fare lo stesso, - giuro che qui non ci torniamo più.
Mario ride, perfettamente rilassato contro lo schienale del sedile, ed allunga una mano a scompigliargli i capelli, fra le sue proteste risentite e sempre uguali – “Mario, ci ho messo un’ora a sistemarli per bene! Perché devi sempre scombinarmi fino a farmi sembrare appena uscito dal letto?!” e Mario non si azzarda nemmeno a dirgli “Perché così sei più carino”, tanto è una cosa talmente ovvia che, se Davide non ci arriva, non ha nemmeno il diritto di sentirselo dire.
- Invece, - propone, sorridendo tranquillo mentre si china a recuperare il giornale di oggi dalla tasca cucita sul sedile di fronte a lui, - l’anno prossimo torniamo. – Davide si volta a guardarlo con disappunto, e lui ride. – Solo io e te. Prendiamo un appartamentino piccolo, vicino alla spiaggia. E restiamo due settimane intere.
Davide sbuffa, scrolla le spalle, guarda fuori dall’oblò e scoppia di gioia, anche se non vuole darlo a vedere. Mario scuote il capo, intimamente divertito. E medita su cosa ordinare per pranzo.
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