Fandom: Originali
Genere: Romantico/Introspettivo/Sexy
Rating: PG13
- Di come perdere l'innocenza... senza saper più come ritrovarla...
AVVERTIMENTI: Angst, Het, Lemon, Song-fic.
Commento dell'autrice: Allora... premettiamo subito che di questo racconto sono estremamente orgogliosa, sebbene mi renda conto sia un po' troppo affrettato ed incredibilmente poco verosimile... Insomma, io *amo* quella canzone. Ed *amo* Fabrizio De André. E - concorso o non concorso - *dovevo* scriverci qualcosa sopra. Leggete, vi prego ;_;
Nota: Questa storia ha partecipato alla nona edizione del concorso dell'EFP, classificandosi seconda ^_^
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Leggenda di Natale

Basata sull’omonima canzone di Fabrizio De Andrè


Parlavi alla luna giocavi coi fiori
avevi l'età che non porta dolori


La ragazza si strinse nel cappotto rosso. Era un cappotto un po’ infantile, presto ne avrebbe comprato un altro. Magari quello nero che aveva visto qualche giorno prima in quel negozio stratosferico nel centro città, costava un po’, vero, ma avrebbe fatto un sacrificio. Magari non sarebbe partita con la scuola, quest’anno, avrebbe usato i soldi in banca per comprarlo. Che cappotto, accidenti.
Quando aveva espresso il desiderio, parlando con sua madre, la donna le aveva chiesto come mai il cappotto comprato appena un anno prima non le piacesse più.
“Ma è rosso, è il tuo colore preferito! La zia te l’ha regalato con tanto affetto! È ancora nuovo, come puoi volerne un altro?”
“E’ passato di moda, mamy…”
Aveva risposto con noncuranza. Ma era una risposta che non aveva formulato davvero. La realtà era che fino all’anno prima non *pensava* nella maniera in cui invece pensava adesso che aveva compiuto quindici anni. Normale. Era semplicemente… cresciuta. O almeno così credeva. Perché per molte cose non si sentiva ancora *grande* e comprendeva che le faceva molto comodo come situazione. Per esempio, nessuno le chiedeva mai di preparare il pranzo. O di stendere la roba appena uscita dalla lavatrice. O di stirare. O di pagare le bollette. Insomma, nulla di questo tipo. E si beava di non venir considerata un’adulta, da questo punto di vista.
Solo che, improvvisamente, quando c’era da uscire il sabato sera chiedeva di rientrare a mezzanotte anziché alle dieci e mezza, perché “mamma, sono cresciuta!”, infondo. Sua madre chiudeva gli occhi ed annuiva con un sorriso amaro, ma lasciava correre, la lasciava fare. Supponeva fosse perché è normale per le madri cercare di mantenere i figli in un’età indefinibile che permettesse di considerarli ancora piccoli ma con i quali si potesse conversare con parole reali piuttosto che dittonghi gutturali o acuti senza senso. Pochi mesi dopo avrebbe scoperto che, semplicemente, sua madre non aveva mai avuto la forza di opporsi a nulla. Proprio nulla. Ma questo, circondata dai venti gelidi dell’inverno e dalla neve che cadeva in fiocchi tutto intorno, poggiandosi con grazia su tutto ed imbiancando il mondo con una purezza esasperante, non lo sapeva, lo ignorava. Almeno non ci pensava.

e il vento era un mago, la rugiada una dea,
nel bosco incantato di ogni tua idea


Era stupendo come tutto, nella sua vita, potesse improvvisamente diventare meraviglioso. Bastava un nulla.
Per esempio, pochi giorni prima la sua gatta aveva avuto i cuccioli. Suo padre si era messo le mani ai capelli ed aveva cercato un posto dove piazzarli per *due* giorni, e lei, che avrebbe dovuto essere quantomeno impensierita dalla moltitudine di gattini spelacchiati minuscoli e miagolanti, non faceva altro che sorridere come un’idiota ogni qual volta li vedeva rotolarsi sulla schiena o giocare dandosi piccole zampate innocue l’uno con l’altro.
Se bastava un micino a renderla di una felicità inaudita…
“Magari i quindici anni sono proprio questi…” si diceva eccitata dalla prospettiva di passare un intero anno in quello stato di allegria perenne.
“Magari ti illudi.” le aveva detto una volta sua madre. Lei aveva cercato di non pensarci. Ma più che la frase in sé era stato lo sguardo della donna a preoccuparla. Di quel tipo di sguardi che non lasciano dubbi sulla veridicità delle affermazioni. Questo l’aveva fatta tremare.
Ma, incredibile a dirsi, già il giorno dopo non ne aveva memoria, e correva sventolando la sciarpa in tono col cappotto, giù per la collina sulla quale abitava, di corsa verso la fermata dell’autobus che, alle sei e mezza del mattino, l’avrebbe portata al liceo nel paese vicino in tempo per le otto.

E venne l'inverno che uccide il colore
e un Babbo Natale che parlava d'amore


E poi, un giorno, era cambiato. Un giorno aveva cominciato a preoccuparsi del cappotto che indossava. Del trucco, se non era a posto. Dei capelli se non era soddisfatta della piega. E delle famose uscite del sabato che facevano chinare il capo a sua madre.
Strano, adesso che ci pensava, non era coinciso con i suoi quindici anni quel cambio di pensiero. No. Era stato dopo. Probabilmente il giorno in cui si era ritrovata di fronte quel ragazzo, mai visto prima, nei corridoi della scuola.
- Potresti farmi passare, per favore?
Gli aveva chiesto. I corridoi erano stretti ed angusti, non c’era modo che due persone potessero camminare accanto. Ma lei doveva assolutamente raggiungere il bagno. Aveva fretta. Il brunetto sembrava non capire.
- Scusa, ti puoi spostare???
Gli aveva ripetuto più forte, chiedendosi se per caso non fosse in realtà sordo.
- Ehm…
Aveva detto alla fine, imbarazzata, abbassando il viso e facendosi rossa.
- Dovrei… andare in bagno…
Lui aveva sorriso maliziosamente e si era scostato, lasciandola passare. Lei era andata via di corsa, inquieta senza neanche capire perché.
Quando era uscita dal bagno lui era *lì* ad aspettarla. Proprio dietro la porta. Aveva fatto un balzo dallo spavento, quando se n’era accorta.
- C-Che ci fai qui?!
Lui aveva sorriso di nuovo, enigmatico.
- Volevo parlare un po’ con te…
- Adesso? Non dovresti essere in classe?
- Io no. Sono nuovo del posto, oggi sono solo venuto a dare un’occhiata alla scuola. Comincerò a frequentare da domani.
- Bè, io invece devo proprio andare in classe ok? Ci vediamo…
- Avanti, non vorrai mica lasciarmi solo?!
- Scusa, che dovrei fare?
- Facciamo quattro chiacchere, no? Non c’è un posto dove si possa stare tranquilli?
Aveva avuto paura, su quella domanda. Le solite paure che le ragazzine hanno quando un ragazzo chiede loro di andare insieme in un posto solitario. Che fossero giustificate o meno, a lei non era importato, e lo aveva condotto un po’ scettica nella palestra dietro l’edificio.
- Wow, che palestra immensa…
Aveva detto il ragazzo facendo un giro al centro del campo e scrutando con una luce negli occhi i cerchi in metallo che fungevano da canestri alle estremità opposte del parquet.
- Qui non lo usa nessuno… a nessuno importa giocare a basket o pallavolo… quando suona la campanella si corre fuori verso casa perché non tutti abitano vicini…
Il ragazzo l’aveva guardata facendo tanto d’occhi.
- Nella città da cui vengo io è molto importante, invece. Pensa che alcuni college scelgono i loro alunni solo in base a questo, e non guardando il rendimento scolastico.
- Davvero? Ma da dove vieni?
- New York.
Aveva annunciato lui, orgoglioso, gonfiando il petto.
- Wow…
Le era uscito di bocca quasi come un bisbiglio. Poteva sentire i suoi occhi luccicare.
- Come vorrei andare a vivere in una città tanto grande… addirittura fuori dall’Inghilterra!
- Guarda che le metropoli hanno i loro pro ed i loro contro…
- Ma dai! Penso a tutte le esperienze che potrei fare e vedo solo pro!
Lui le aveva lanciato uno sguardo strano.
- Le esperienze che si fanno a New York non sono tutte belle.
Suonava come un avviso, un monito. Sapeva di già visto, come se ci fosse passato. Tutte le sue emozioni in quella frase le erano arrivate dritte al cuore.
- Del tipo?
Si era sentita strana, come attirata o guidata da qualcosa di estraneo a lei stessa, quando, con noncuranza, aveva sollevato un po’ la gonna della divisa mettendosi a cavalcioni su una panchina. Aveva visto come lui l’aveva guardata, e si era sentita orgogliosa.

Un ragazzo straniero sta guardando me. Proprio me. In *quel* modo.

e d'oro e d'argento splendevano i doni
ma gli occhi eran freddi e non erano buoni


Lui non aveva risposto alla domanda, ed aveva lasciato vagare lo sguardo sul corpo della ragazza, che lo osservava di rimando, accorgendosi che era bello in una maniera incredibile. Non aveva mai visto ragazzi così belli. I capelli scuri e lunghi sembravano non essere mai stati pettinati, eppure erano sottili e puliti, lisci, lucidi, e la frangetta lunga ricadeva sugli occhi irregolare. Era alto e snello, ma robusto. Soprattutto l’avevano colpita il petto ampio e le spalle larghe. Sembrava proprio uno sportivo. Non c’erano ragazzi così, nelle vicinanze.
E lei, proprio lei, aveva attirato la sua attenzione.
Ah, se quella smorfiosa della Johanson fosse stata lì a guardare…
Aveva interrotto la scansione visiva del ragazzo per ripetergli la domanda, immaginando che si fosse dimenticato di rispondere.
- Allora? Di che tipo di esperienze parli?
Lui era tornato a guardarla in viso solo in quel momento. Ma con che occhi.
- Niente che qualcuno rifiuterebbe ad una bella moretta come te…
Arrossì, imbarazzata. Anche se non aveva afferrato chiaramente il concetto.
Lui aveva lasciato correre lo sguardo su di lei ancora una volta, piantandolo poi sul pavimento in legno, come a voler fuggire dalla sua vista.
- Comunque non sempre sono belle, baby. Quindi non ci pensare più, ok?
- Baby?
- Mh-? Non capisci che vuol dire?
- No, non è questo… nessuno mi aveva mai chiamata così…
Lui l’aveva guardata di nuovo, distante.
- Vivi in un posto strano, sai?

Coprì le tue spalle d'argento e di lana
di perle e smeraldi intrecciò una collana


- Ah, senti! Non puoi cominciare un discorso e poi lasciarlo cadere così!
Gli si era avvicinata ancora, allargando di più le gambe ed incrociando le sue ginocchia.
Non era mai stata così audace. Non aveva mai avuto nessuno per cui esserlo.
- Ah, perché ti sei fissata su questo argomento?!
- Perché mi interessa, no? Su… dai… raccontami delle tue esperienze…
- Magari a me non va di parlarne, eh?
Lei lo aveva guardato, simulando noia.
- Ah, bè… se è così…
Poi aveva fatto una cosa che mai si sarebbe creduta capace di fare. Per poco non era addirittura arrossita nel farla. Scavalcando la panchina bassa, aveva alzato così tanto la gamba che le si erano visti gli slip. Aveva notato chiaramente lo sguardo del ragazzo al suo fianco dirigersi verso quella direzione, e poi guardarla in viso. Aveva gli occhi spalancati, ed era leggermente imbarazzato.
Ed… era stato sconfitto.
Lo aveva osservato mettere le mani dietro la nuca e dire
- Va bene, ti accontento…
Con un sorrisetto sulle labbra. Perché ancora non sapeva che a giocare col fuoco si resta bruciati.
- Senti… non è una bella storia, comunque. Io ti ho avvisata.
- Ok.
Aveva sorriso lei.
- Allora… avevo più o meno… uhm… dodici anni, ai tempi della mia prima esperienza sessuale. E fu *molto* strana, come esperienza, non fu con una donna, ma con un ragazzo. Un ragazzo di due o tre anni più grande di me, che mi portò in una palestra come questa e mi deflorò.
- Deflorare… che parola strana…
Inaspettatamente, non aveva sentito nessuna sensazione strana nel sentirlo parlare di un argomento tanto delicato. Non era neanche arrossita. Probabilmente solo perché troppo presa dalla situazione.
- Già. Presuppone che ci sia un fiore, no?
Aveva risposto lui dopo qualche secondo. Avevano riso a bassa voce.
- Comunque quella fu la mia prima ed ultima esperienza con un maschio. Mi feci troppo male. Anche ora, se ci penso…
Lui si era lasciato andare ad un brivido.
- La prima con una donna fu, se possibile, ancora più strana. Mia cugina abitava lontanissima, veniva a trovare me e la mia famiglia solo una volta ogni due mesi o giù di lì. Una volta uscimmo insieme, ci ubriacammo e finimmo a letto. Avevo… tredici anni, credo.
- Wow… certo che ne hai fatte, di cose…
- Ti sembrano *belle* cose?
- Mi sembrano eccitanti.
E lo pensava davvero.
Lui l’aveva fissata.
- Aspetta a parlare. Il motivo per il quale sono recluso in questo paesino in mezzo alle campagne inglesi… avevo un gruppo, con cui uscivo. Insomma, una di quelle “baby gang”, o come cavolo le chiamano gli adulti… si, bè, lo ammetto, non erano per niente dei bravi ragazzi. Erano proprio degli stronzi. Uno di loro aveva già ucciso qualcuno, sai? Credo fosse l’amante di sua madre, ma ora come ora non ricordo… che dicevo? Ah, si… Insomma… una sera successe che eravamo tutti ubriachi fradici ed un po’ fatti… sai cosa intendo…? Extasy… eravamo proprio sbattuti. Incontrammo una ragazza e finì che la violentammo. Tutti e nove.

e mentre incantata lo stavi a guardare
dai piedi ai capelli ti volle baciare


Il silenzio era calato sull’immensa palestra. Lei aveva continuato a fissarlo, smarrita.
Era una cosa tremenda. Terribile. Lui ed i suoi amici avevano violentato una ragazza. V-I-O-LE-N-T-A-T-O.

Si disse di svegliarsi. Di correre via perché avrebbe potuto farlo anche con lei. Si, sicuramente l’avrebbe aggredita. Doveva scappare.
Ed invece gli si avvicinò di più.
- Che fai ora?
Gli si era messa proprio di fronte, lo guardava dritto negli occhi.
Dietro i pensieri che le intimavano di fuggire, ce n’erano altri. Poteva sentirli tutti.

Ti piace da morire, questo ragazzo. Sei talmente rapita che non riesci a muoverti. Bacialo. Avanti. Vuoi fare l’amore con lui, e lo sai, quindi bacialo.

- Senti, ragazzina… non so che intenzioni tu abbia, ma…
Lui aveva sorriso maliziosamente, facendo brillare gli occhi neri come i capelli.
- … se continui a starmi così appiccicata la voglia che ho di baciarti da quando ti ho incontrata stamattina non mi passerà mai…
- Non voglio che passi.
Aveva risposto senza neanche riflettere, senza curarsi delle conseguenze.
- Vuoi che ti baci?
- Tu vuoi baciarmi?
- Ah, io da morire.
- Ed allora baciami.
Nel momento stesso in cui aveva sentito le loro labbra incontrarsi ed unirsi in un bacio da subito adulto ed appassionato, si era sentita un’altra. Proprio un’altra. Quasi una *donna*. E la sensazione di stare crescendo aveva accompagnato le mani del ragazzo sconosciuto sotto la camicia bianca, sotto la gonna a scacchi, dentro di lei.
E si erano fusi su quel pavimento sporco, senza che neanche si accorgessero della polvere, senza sentire altri rumori se non i bisbigli dell’altro, senza preoccuparsi della possibilità che qualcuno li vedesse, e sperando che il tempo si fermasse in quell’unico momento, per dar loro in eterno quella sensazione fantastica.

Possiamo essere quello che vogliamo, adesso.

Lui non era più un ragazzino mandato a scontare una pena come in esilio, lei non era più una bambinetta entusiasta e vivace che non sapeva nulla del mondo, nulla di vero. Adesso, potevano scegliere di essere ciò che volevano, qualunque cosa.
Il vantaggio di andare con persone delle quali non si sa niente e che non sanno niente di noi.
**

Non sarebbe esatto dire che uscirono da quella palestra mano nella mano. Non sarebbe esatto neanche dire che si rivestirono sorridendo e scherzando. Non sarebbe esatto neppure dire che decisero di rimanere insieme per sempre. Ed ovviamente, sarebbe completamente errato dire che si rividero ancora, dopo quella volta. Perché non avvenne nulla di tutto questo. Si rivestirono ed uscirono dalla palestra, lui varcò il cancello della scuola, lei tornò in classe, scusandosi con il professore dicendo di aver avuto un malore.
Non lo rivide più. Provò ad informarsi ma nessuno le seppe dire niente, tranne il preside della scuola che le rispose che all’ultimo minuto aveva disdetto l’iscrizione ed era ripartito per l’America.
**

E adesso che gli altri ti chiamano dea
l'incanto è svanito da ogni tua idea
ma ancora alla luna vorresti narrare
la storia d'un fiore appassito a Natale


Per accorgersi che era finita, dovette aspettare che l’uomo sopra di lei si decidesse a smettere di spingere e si gettasse ansante al suo fianco, facendole fare un piccolo salto in alto. In un millesimo di secondo si guardò dentro, cercando una qualsiasi sensazione, un qualsiasi segno di calore, qualche minima goccia di piacere. Ma non ne trovò, e simulò l’orgasmo proprio mentre lui cadeva sul lenzuolo bianco immacolato come la neve delle colline che non vedeva da tanti anni.
- Ah… ti è piaciuto?
Le chiese lui alzando un braccio fino a sfiorarle la guancia.
- Si…
Disse lei con voce impastata, simulando anche il falso sorriso sul volto. Lui non se ne accorse. Bè. Ormai poteva dire di essere diventata brava, in questo genere di cose. Nessun uomo era mai rimasto deluso. Solo lei vagava in un mare nero senza emozioni.
Solo al sentirgli chiedere se le fosse piaciuto riuscì ad intuirne la nazionalità.
- Francese?
- Si.
Rispose lui.
- Si sente tanto?
- Un po’.
- Ah, che meraviglia New York. Solo qui si possono trovare ragazze come te!
Ma lei non era di New York e non era neanche cresciuta a New York. Era inglese, delle campagne circostanti Birmingham, e si era trasferita in quella caotica città americana per cercare una persona che, ovviamente, non aveva trovato, e che forse non aveva più neanche tanta voglia di rivedere.
E doveva ammettere che quella persona aveva avuto proprio ragione. A stare a New York si cambia. Molto.
Ma non era dovuta al cambiamento la sua freddezza, non alla città, non all’atmosfera.
Semplicemente non aveva più trovato due mani capaci di darle la sensazione di stare volando attraverso un cielo straniero ma così intimamente suo, nessuna sensazione del genere, nessun tocco fatato che le desse un assaggio di paradiso mentre le correva sotto i vestiti.
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