Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: (lieve) Kurt/Dave, Dave/Santana.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Future!Fic, Het, Slash, Gen, Drug Use, Spoiler fino alla s2, poi prosegue ignorando la s3.
- Kurt ha inseguito il proprio sogno: dopo il liceo si è trasferito a New York, ha cercato fortuna a Broadway, ma le circostanze della vita non sono state clementi, con lui.
Dave, invece, tutti i suoi sogni li ha infilati in un baule e poi ha nascosto quel baule tre metri sotto terra, e le circostanze della vita con lui si sono comportate più che bene.
Dietro due storie differenti si celano dolori simili, ma non è detto che affrontarli insieme possa essere la scelta più saggia.
Note: *si accascia stremata* Ci ho messo due giorni a scrivere questa storia, il che considerate le mie abitudini, la mole e gli argomenti, non è per niente normale. *anf* E' che volevo con tutte le mie forze farla partecipare alla seconda settimana del COW-T (Missione 2, prompt: spaccio), anche se poi è stato inutile. *ride* Ma va be', tanto non avrei potuto riciclarla per la terza, per cui. *va fiera delle proprie macchinazioni*
Comunque, in realtà volevo scriverla da un po', stiamo parlando di un plot che mi porto dietro da quel paio di mesi, e che naturalmente voleva essere una storia completamente diversa. Finisce sempre così, io parto per raccontare sciUocche storie d'amore e finisco per parlare di Massimi Sistemi. It. Sucks.
Ma comunque, questa è e questa vi tenete, se la volete è.é Sennò, arrivederci. u.u
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L’AMORE CONTA

Kurt non ricorda com’era prima. Prima che tutto cominciasse a scivolargli via dalle mani, dandogli l’impressione di non aver mai trattenuto fra le dita niente per davvero. Prima che i contorni degli oggetti, dei luoghi, dei visi delle persone cominciassero a sbiadire, a confondersi in una macchia indefinita che ogni tanto sembrava come dargli la caccia per le strade, specie di notte, inseguendolo perfino nei sogni tumultuosi che, fra un risveglio improvviso e l’altro, lo accompagnavano fino all’alba. Fino ai crampi allo stomaco, al mal di testa, ad un gelo tanto profondo da non potere essere spazzato via se non… be’, se non con quello che l’aveva portato fino a quel punto.
Non ricorda com’era prima, prima che le strade silenziose, scure e umide di quella periferia gli diventassero così familiari da trasferircisi. Non ricorda di aver mai vissuto in un posto che non fosse il monolocale maleodorante di muffa e polvere in cui vive adesso, non ricorda cos’era svegliarsi al mattino con uno scopo che non fosse uscire di casa e, in qualche modo, non importa quale, tirare su i soldi per un’altra dose.
Un’altra dose. Dio, solo un’altra dose.
Kurt apre gli occhi e scuote il capo all’eco lontana di quella voce – la sua voce – nella sua testa. Le labbra gli si piegano in una smorfia disgustata. Odia se stesso, odia quello che l’astinenza gli fa, soprattutto odia il sapore disgustoso che ha in bocca adesso. Odia l’idea di dover alzarsi e sapere di non avere in casa neanche del fottuto dentifricio, perché ogni singolo dannato centesimo che riesce a racimolare viene speso sempre nello stesso modo.
Non importa, non importa. Un’altra dose e non ci pensi più, Kurt. Solo un’altra dose.
Si tira su dal letto a fatica, guardandosi intorno. Il monolocale, come al solito, gli dà la nausea. La moquette è macchiata e sollevata dall’umidità in più punti, strappata in altrettanti, maleodorante in tutti. Sul soffitto si allargano macchie giallastre che, per quel che Kurt sa, potrebbero anche essergli fatali, sia per la quantità di spore di muffa di cui devono essere portatrici, sia perché l’umidità ha ingrossato le travi, in alcuni punti l’intonaco si è perfino staccato, cadendo a terra e disseminandosi su tutto il pavimento.
Kurt non ha mai pulito, Kurt non pulisce mai.
Ha solo bisogno di un’altra dose.
Una sola, Dio, Dio, solo una.
Le gambe lo reggono a stento, ma lui non se ne preoccupa. È sempre così, al mattino, specie quando ha dormito per più di qualche ora. I meccanismi un tempo bene oliati e sempre scattanti del suo corpo, ormai ci mettono di più ad ingranare. Ma Kurt ormai ci ha fatto il callo, e d’altronde non ricorda che un tempo svegliarsi al mattino e saltare giù dal letto non erano operazioni insopportabilmente complicate, non c’era dolore nel semplice gesto di mettersi a sedere dopo aver passato qualche ora disteso, non c’era sofferenza nel muoversi un passo dopo l’altro per uscire da camera propria, scendere le scale ed avventurarsi in cucina, guidato dal profumo delizioso delle uova al tegamino cucinate da suo padre. Era uno dei pochissimi piatti che suo padre sapesse cucinare. Ne andava così orgoglioso.
Kurt non ricorda che un tempo ballava. Lui chiedeva alle sue braccia e alle sue gambe di muoversi, e quelle gli obbedivano senza mai sbagliare. I movimenti precisi e fluidi, la gioia che gli riempiva il cuore alla fine di ogni esibizione, Kurt non ricorda più niente. L’unico momento in cui danza, adesso, è quando è fatto. Quando la droga gli entra in circolo il suo corpo è leggero, e lui può fare qualsiasi cosa, essere qualsiasi cosa. E si vede su un palco, di fronte a una platea di uomini e donne senza volto, ed i loro vestiti sono eleganti, e lui sa di essere finalmente arrivato, sì, arrivato dove voleva.
È solo un’illusione, ma è tutto ciò che Kurt possiede. Non ricorda com’era prima, quando non possedeva un’illusione, ma un sogno. Ormai fatica perfino a comprendere che differenza possa esserci fra le due cose. Non sono sogni, in fondo, quelli che gli regala la roba? Sono sogni bellissimi, sì. Tutto ciò che Kurt vuole. Tutto ciò che ha. Così semplice, così immediato.
La sicurezza di un desiderio a pagamento, sì, è questo tutto ciò che gli resta. Dell’incertezza dei sogni gratuiti che aveva quando era ragazzino non gli è rimasto niente. Ma non è un problema, perché Kurt non lo ricorda. Non lo vuole ricordare. Tutto ciò che vuole è un’altra dose.
Una dose soltanto. Una e basta.
Si trascina verso la sedia – assieme alla scrivania ed al letto, è tutto ciò che compone l’arredamento di questa stanza, tutto compreso nell’affitto che lui non paga ormai da settimane – e recupera i pantaloni che ha lasciato cadere sullo schienale quando li ha sfilati prima di andare a dormire, che sia successo qualche ora o qualche giorno fa. Fruga nelle tasche posteriori e ne tira fuori qualche banconota e qualche spicciolo. Li conta tre volte, appena finisce dimentica istantaneamente a quanto ammonta il totale, si chiede se basterà, decide che non gli importa. Gli tremano le mani. La vista gli si offusca. Devono bastare. Devono.
Rimette i soldi in tasca ed indossa i pantaloni, si getta sulle spalle la giacca ed esce. Il sole non è ancora sorto, per strada non c’è quasi nessuno. Il quartiere si animerà dalle otto in poi, le scuole apriranno, così come i supermercati e le botteghe, la gente comincerà a camminare e pur nel suo essere così ovviamente un quartiere povero, anche quel posto sarà vivo, colorato, rumoroso.
Kurt spera di stare già dormendo, per quel momento. Non nel suo appartamento, naturalmente. No, è un altro, il tipo di sonno che vuole. Se solo ci pensa, gli si contorce lo stomaco in uno spasmo di desiderio.
Calma, Kurt, calma. Fra poco. Fra poco.
Il palazzo è di quelli di fronte ai quali nessuno si ferma, perché ne hanno tutti paura. È disabitato da molto tempo, ma tutti sanno che è stato occupato. Qualche volta, la polizia ha fatto dei sopralluoghi. Puntualmente, chi è stato trovato ad occupare abusivamente gli appartamenti è stato buttato fuori, la merce illegale – le rare volte in cui ne è stata trovata – è stata confiscata, e dei sigilli sono stati apposti a porte e finestre.
Non è mai abbastanza. Non lo sarà mai. Quello è un luogo magico, Kurt ne è certo. Non può essere spazzato via in nessun modo. Continuerà a tornare sempre, e sarà sempre aperto per chi vuole trovare il modo di entrare.
Mentre il primo raggio di sole si affaccia all’orizzonte, illuminando in bagliori ipnotici le vetrate gigantesche dei grattacieli di cristallo, Kurt percorre tutto il perimetro del palazzo fino al retro, e raggiunge la scala anti-incendio. Sono tre piani, da qui all’appartamento del Gufo. Kurt non è sicuro di potercela fare, ma sa di dovere. È letteralmente questione di vita o di morte, a questo punto. Perciò, si aggrappa al corrimano cigolante e comincia la scalata, un passo dopo l’altro.
Quando arriva a destinazione, è senza fiato, tutti i muscoli del suo corpo gridano di dolore e il sole è ormai quasi del tutto spuntato all’orizzonte. Deve averci messo non meno di mezz’ora. Dev’essere per forza così perché si sente addosso ogni secondo e ogni minuto, gli pesano sulle spalle come enormi massi. Gli fa male lo stomaco e gli viene da vomitare. Potrebbe essere l’astinenza, o solo la stanchezza, o magari anche il fatto che non mette in bocca qualcosa di veramente commestibile da settimane. Non lo sa, e comunque al momento non gli importa. Tutto quello che vuole è la sua dose.
Solo quella.
Attraverso la vetrata, per quanto sia stata spaccata in un punto e le crepe si siano estese fino a rendere il vetro più sorvegliante ad un mosaico che ad una finestra, Kurt può vedere il salotto, o almeno quello che probabilmente sarebbe il salotto se questo fosse un vero appartamento. Ci sono due divani sfondati, uno contro una parete, l’altro contro la parete opposta, ed entrambi sono talmente affollati da rischiare di cadere a terra da un momento all’altro.
Sul divano c’è la gente già in viaggio. È facile riconoscerla, perché sui loro visi ci sono le espressioni rilassate e perse di chi non ha nient’altro da chiedere dalla vita oltre quello che già possiede. Al solo vedere i loro volti così sereni, Kurt si sente attraversare da un doloroso lampo di desiderio. Lo vuole anche lui, lo vuole adesso, non può più aspettare.
Bussa al vetro e osserva un uomo bassino voltarsi verso di lui. Il Gufo gli lancia addosso la solita occhiata spaurita, con quegli occhi talmente grandi che uno ci si potrebbe specchiare dentro, se non fossero sempre così torbidi. È proprio a causa dei suoi occhi che lo chiamano così. Sono sempre sgranati, e sul suo volto scavato dalla droga sembrano grandi il doppio.
È un povero diavolo, il Gufo, come tutti loro. Un povero sfigato che pensava di poterci fare i soldi, con la roba, e invece ne è stato divorato. Come tutti quelli che pensano di poterla governare. Kurt viene sempre da lui perché, anche se la roba che vende è di pessima qualità, almeno la vende ad un prezzo sopportabile. Perché è ingordo, perché lui non si fa con la sua merda, no, va a comprare merda più pulita da chi gli affari li sa fare per davvero, perciò ha bisogno che la maggior parte di gente possibile compri la sua. Abbassare il prezzo era l’unica cosa che potesse fare per assicurarsi la sua dose giornaliera, e per Kurt, in fondo, è stato meglio così.
Il Gufo apre la porta a Kurt entra subito dentro, confondendosi col resto della gente in attesa. Anche loro li riconosci subito. Si aggirano nervosamente per la stanza, incapaci di stare fermi, oppure si accasciano in un angolo, stringendosi in un abbraccio a metà fra il protettivo e il consolatorio – con punte di patetico – per cercare di impedirsi di tremare troppo. Nei loro occhi leggi sempre la stessa preghiera.
Una dose. La mia dose. Per favore.
C’è la stessa preghiera anche negli occhi di Kurt, mentre passa al Gufo tutto quello che gli resta e lo osserva contare il denaro con attenzione, prima di metterselo in tasca.
Nel frattempo, si è liberato un posto sul divano. Kurt ci si lascia cadere sopra, esausto, e chiude gli occhi. Sente il Gufo armeggiare col suo braccio e sospira di sollievo, perché c’è quasi, è quasi finita, Dio, non credeva che ci sarebbe riuscito anche questa volta, e invece eccola qui, finalmente, la sua dose, Dio, la sua dose. La familiare puntura dell’ago contro l’avambraccio, la scarica di adrenalina, la botta violenta al cervello, tutti i suoi sensi che si infiammano e bruciano, la sua mente che si riempie di colori e suoni e sensazioni di ogni tipo.
E poi, all’improvviso come si è accesa, si spegne.
Il Gufo se ne accorge solo un paio d’ore dopo.
- Ci hai lasciato, bello? – gli domanda, battendogli un paio di schiaffi su entrambe le pallide. Kurt non lo sente. È pallido e non risponde. Le sue ciglia tremano appena. Sarà una cosa veloce. – Portatelo giù, già che scendete. – dice a due tizi che stanno per imboccare la scala e abbandonare il palazzo. Quelli si lagnano un po’, “e dove lo lasciamo, e non possiamo mica buttarlo in un angolo, e che due coglioni, Gufo”, ma il Gufo li zittisce burbero, li minaccia come può fare solo chi tiene in mano la borraccia piena d’acqua in mezzo al deserto e poi dice loro di mollarlo nel cassonetto che c’è in fondo alla strada. È una roba semplice, e se fanno i bravi la prossima volta potrebbe far loro uno sconto, o magari offrire una dose gratis.
Sono le paroline magiche, nessuno dei due ha bisogno d’altro.
Quando viene scaricato senza grazia dentro il primo cassonetto all’angolo della strada, Kurt non sente niente, ma la sua espressione è serena, le sue labbra piegate in un sorriso irreale, ed era questo che voleva, in fondo, no? Non può chiedere nient’altro alla vita. Chiederà il resto a qualsiasi cosa ci sia dopo.
*
Dave non ricorda com’era prima. Prima di lei, naturalmente, Santana. Ogni tanto, riflettendoci, si sente quasi in imbarazzo per la devozione che le porta, ma d’altronde non può esserci niente di sbagliato nell’idolatrare qualcuno che ti ha praticamente salvato la vita.
Naturalmente, Dave non ricorda da cosa doveva essere salvato. Ne ha una consapevolezza sbiadita dal tempo, sa che c’è stato un punto della sua vita in cui è stato lì lì per mollare, un momento in cui avevano cominciato a diventare inutili perfino tutti i “passerà” e gli “è solo una fase” che non faceva altro che ripetersi da quando apriva gli occhi al mattino a quando li richiudeva la sera, perché di notte, quando abbassava la guardia, lui era lì.
Lui. Kurt.
Ma Dave non lo ricorda, non vuole ricordarlo. Non gli servirebbe a niente ricordarlo. È felice, adesso. Ha tutto ciò che ha sempre voluto. Una bella casa in un bel quartiere residenziale, col giardino e la cuccia del cane a forma di casetta, degli ottimi rapporti di vicinato, i barbecue-party la domenica, i viaggi in luoghi esotici durante le vacanze, una laurea, un bel posto di lavoro, un nome importante nel suo ambiente, degli amici – ovviamente altri medici, ex compagni di college o colleghi conosciuti nel corso della sua carriera – coi quali gioca a golf ogni sabato mattina, anche se Dio solo sa quanto odia il golf, e al centro di tutto questo c’è Santana. Che un giorno di così tanti anni fa che non vale più nemmeno la pena contarli, l’ha reso possibile. Che lo rende possibile ogni singolo giorno da allora semplicemente standogli accanto.
Santana. Sua moglie.
Dal giorno in cui si sono messi insieme, al liceo, non si sono più lasciati, e a Dave non interessa, davvero, non interessa rivangare i perché e i percome di come ciò sia potuto accadere, non gli interessa, non lo ricorda, è passato, è come se fosse polvere. Qualsiasi cosa fosse, è finito, ormai. Si è nascosto e si è consumato – e ha fatto male, Dio, se ha fatto male, Dave poteva sentirlo bruciare e farsi sempre più piccolo giorno dopo giorno – e poi è sparito. Finalmente. È sparito.
Ora non c’è più niente di cui discutere. Qualsiasi storia che non riguardi il presente e il futuro è storia vecchia, e a Dave non interessa. Al momento, l’unica cosa che gli interessi è attraversare East Harlem per arrivare al proprio studio, e lo fa con la consueta noia e il consueto senso di fastidio, come ogni mattina. È irritante lavorare così lontano da casa propria, è sempre stato convinto che, se avesse potuto aprire lo studio medico in casa propria, non solo avrebbe lavorato più comodamente, ma anche gli affari ne avrebbero tratto giovamento. Santana, però, è sempre stata irremovibile, in questo senso: la casa è la casa, il lavoro è il lavoro. Più semplicemente, Dave pensa, Tana preferisce avere la casa libera perché è il centro nevralgico della sua vita sociale nel quartiere, è lì che riceve le amiche ed è quella che mostra con orgoglio quando vuole far arrossire d’invidia perfino le più placide e pacate. È normale che non voglia intorno lui con tutti i suoi pazienti a fare costantemente avanti e indietro per il corridoio ricoperto di stampe di Klimt.
È meno normale che lui sia costretto ad attraversare quel quartiere orribile ogni santa mattina che Dio manda sulla terra per questo motivo, ma dal momento che è Santana, a chiederglielo, Dave non si lamenta neanche. Santana potrebbe chiedergli di andare sulla luna e staccarne un pezzo per portarglielo come souvenir, e fare tutto ciò in giornata, e Dave lo farebbe, o quantomeno ci proverebbe. Senza neanche una lamentela.
Aggrottando le sopracciglia, pressa con forza la mano sul clacson per dare una svegliata al bello addormentato sul SUV nero lucente di fronte al suo.
- È scattato il verde, coglione… - si lamenta fra i denti, ma quando quello finalmente si decide a ripartire – non prima, naturalmente, di avergli indirizzato un vaffanculo silenzioso tirando fuori la mano dal finestrino e sollevando il medio – è Dave che si ritrova bloccato.
C’è un braccio che viene fuori da quel cassonetto.
La lunga colonna di automobilisti in attesa dietro di lui si mette a pestare sul clacson con tanta violenza che Dave si risveglia dallo stato di catatonico orrore in cui quella visione raccapricciante l’ha gettato, e facendo più in fretta che può lui si toglie di mezzo e si accosta al marciapiede, qualche metro indietro rispetto al cassonetto. Lo osserva da dentro l’abitacolo della macchina, stringendo con forza le dita attorno al volante finché le nocche non gli diventano bianche per lo sforzo.
È surreale, queste cose accadono solo nei film. Dave non ha neanche idea di cosa dovrebbe fare, adesso.
Si guarda intorno con aria sconsolata, il traffico adesso scorre fluido e regolare, interrompendosi in corrispondenza del semaforo rosso e ripartendo all’istante quando diventa verde. Possibile che nessuno se ne sia accorto, prima di lui? Eppure è così evidente, Dio, quello è un braccio. Come si fa a non vederlo?
Deglutendo faticosamente, apre lo sportello e scende dalla macchina, avvicinandosi in passi brevi e circospetti. Non ha alcuna voglia di farlo, non è diventato medico per vocazione umanitaria e non vuole nemmeno soffermarsi a pensare alle possibili conseguenze che quello che sta per fare potrebbe portare nella sua vita, ma d’altronde quello è un braccio e lui non riesce ad immaginarsi andare avanti con la propria esistenza come se niente fosse stato senza neanche verificare di cosa si tratta.
O se c’è qualcosa da fare.
Guardandosi intorno e sentendosi particolarmente ridicolo, si sporge ad osservare il contenuto del cassonetto, e rabbrividisce. L’uomo abbandonato in mezzo all’immondizia è giovane, avrà più o meno la sua età. I lineamenti del suo viso, così scavati e malsani, riescono contemporaneamente a sembrare infantili e spaventosamente anziani. Ha i capelli lunghi e sporchi e il suo braccio sinistro è in condizioni tali da essere quasi coperto più da buchi che da pelle.
Molto probabilmente, è già finita. Dave allunga una mano a tastargli il polso solo per scrupolo.
E invece non è finita affatto.
*
Quando il giovane medico lo raggiunge in sala d’aspetto, per poco non gli sfugge la cartella clinica dalle mani. Dave non sa perché è rimasto, dopo aver portato quel tizio all’ospedale, ma ora che il ragazzo lo fissa con stupore vorrebbe non averlo fatto. Sta buttando alle ortiche una giornata intera di lavoro, ha già dovuto chiamare la sua segretaria per rinviare tre appuntamenti che aveva in mattinata e non sa neanche perché lo sta facendo. Ed ora ci si mette anche questo ragazzino imberbe che, nel giro di pochi secondi, sicuramente gli dirà “Dottor Karofsky, è un tale onore conoscerla!”, e Dave vuole già andare via. Prima ancora che il medico sia riuscito ad avvicinarglisi abbastanza da rivolgergli la parola.
- Dottor Karofsky! – dice il ragazzo, porgendogli la destra con un gran sorriso, così terribilmente inappropriato rispetto alla situazione contingente che Dave si sentirebbe in imbarazzo a ricambiarlo, ed al quale perciò si limita a rispondere con un mezzo sorriso tirato e un cenno del capo, - È un tale onore conoscerla! Ho assistito ad alcune dei suoi seminari alla Columbia, mi sono laureato lì.
- Grazie. – sussurra Dave, guardandosi intorno circospetto. L’ultima cosa che vuole è che questo tizio si metta a urlare ai quattro venti il suo nome. “Il Dottor Karofsky è stato qui, oggi! Sì, ed ha portato con sé un uomo in overdose!”. L’ultimo tipo di pubblicità di cui abbia bisogno.
- In ogni caso, non mi sarei mai aspettato di incontrarla in una situazione simile. – riprende il medico, riportando gli occhi sulla cartella da dietro le spesse lenti da vista che gli pendono sul naso attaccate ad una montatura che non fa mistero dello stato di salute del suo portafogli, - Lei è un amico? Un parente?
- Assolutamente no. – risponde Dave, aggrottando le sopracciglia con aria severa. Il medico arrossisce visibilmente, notando l’improvvisa durezza del suo sguardo.
- Mi— Mi scusi. – balbetta con un lieve cenno del capo, - È solo che non è la prima volta che il signor Hummel—
- Come ha detto, prego? – lo interrompe istantaneamente Dave, gli occhi spalancati e la voce incerta mentre la sorpresa è tale da costringerlo a far scattare una mano e chiuderla attorno al polso del dottore, come a volergli impedire di fuggire via prima di avergli assicurato che… no, è impossibile. È impossibile.
- Lo conosce, per caso? – domanda il medico, adesso con genuina curiosità, - Kurt Hummel. Credo abiti in zona, ma non ne sono sicuro. Ha dato un indirizzo, la prima volta che lo abbiamo rimesso in sesto, ma quando abbiamo controllato abbiamo visto che il posto risulta sfitto da mesi, per cui…
La voce del dottore si fa flebile e poi lontana, mentre Dave, gli occhi ancora spalancati e fissi su di lui, si perde dentro memorie che non ricordava di possedere. Non è possibile. Non è assolutamente possibile. Non può essere lui.
- Dunque? – il giovane medico lo trascina nuovamente alla realtà, toccandogli appena una spalla per riscuoterlo, - Lo conosce?
Dave annuisce lentamente, lo sguardo nuovamente severo.
- Lo conoscevo. – risponde, liberandosi della mano del dottore sulla spalla con un educato, breve passo indietro, mentre scioglie finalmente la presa ferrea delle proprie dita attorno al suo polso. – Le sarei grato se fosse discreto, riguardo questa situazione.
Il medico arrossisce un’altra volta, cominciando ad annuire prima di rispondere, probabilmente prima ancora di cominciare a formulare una risposta nella propria mente.
- Si capisce, si capisce. – lo rassicura, - Solo, dottor Karofsky, c’è questo problema riguardo… be’, il signor Hummel ci ha fornito i dati della propria compagnia assicurativa, quando l’abbiamo dimesso sei mesi fa, ma dovevano essere… errati. – annuisce con imbarazzo, complimentandosi con se stesso per la scelta della parola; avrebbe potuto dire falsi. Dave non si sarebbe certo stupito.
- Non è un problema. – risponde d’impulso, - Coprirò io tutte le spese.
Il medico annuisce ancora, sorridendo gentilmente.
- Grazie, dotto Karofsky. Mi occuperò personalmente della pratica fra qualche minuto. Nel mentre… - esita appena, come non fosse sicuro di quanto gli convenga proporre una cosa simile adesso, - Vorrebbe per caso vederlo?
Dave non perde nemmeno tempo a riflettere sulla domanda. Vuole vederlo? Assolutamente no. Lo vedrà? Naturalmente sì.
Si lascia condurre lungo il corridoio da un’infermiera, e quando quella si ferma di fronte ad una delle porte chiuse nota che si trovano nella parte dell’ospedale dedicata alle camere singole. Premura non richiesta – che verrà sicuramente a costargli più di quanto non abbia preventivato, se davvero ha preventivato qualcosa mentre rispondeva candidamente che si sarebbe occupato lui di tutto quanto – ma in fondo conveniente, dal momento che preferisce buttare via un po’ di denaro in più, piuttosto che essere visto con lui.
Lui. Kurt.
Kurt è un fantasma del passato, ne ha perfino le sembianze. Pallido ed emaciato com’è, Dave non stenta a capire per quale motivo non l’abbia riconosciuto subito. Non è che uno sbiadito ricordo del Kurt Hummel che ha conosciuto al liceo. La sua magrezza è impressionante, i segni sul suo volto parlano di una vita in cui Dave non è per niente sicuro di voler finire coinvolto.
- Chi diavolo sei tu? – sussurra chinandosi su di lui per osservarlo più attentamente. Il petto di Kurt si alza e si abbassa appena, il suo respiro è debole ma presente, evidente nella traccia di umidità che lascia all’interno della maschera ad ossigeno a intervalli perfettamente precisi e regolari. Non è intubato, sta respirando da solo, e questa è probabilmente una buona notizia, ma Dave non sa che farsene. Non sa perché è qui, non sa perché è rimasto, a questo punto non sa più neanche perché s’è fermato a recuperare il suo corpo da quel cassonetto, ed è quasi sicuro che, se avesse saputo che quel mezzo cadavere era proprio Kurt, probabilmente l’avrebbe lasciato lì a marcire.
Quasi sicuro. Quasi.
Bussano alla porta pochi istanti dopo, e Dave si raddrizza sulla sedia, voltandosi per osservare l’infermiera che entra in camera con un piccolo sorriso intimidito.
- Dottor Karofsky, mi dispiace disturbarla, ma il dottor Mason avrebbe bisogno di alcune informazioni riguardo la questione che avete discusso prima. – lo avverte piegando il capo in un educato cenno di scuse.
Dave lancia un’occhiata a Kurt ancora profondamente addormentato e, con un sospiro, si alza in piedi. Lungo il tragitto per il corridoio, mentre raggiunge la stanza privata del dottore, manda un messaggio alla sua assistente e le chiede di cancellare tutti gli appuntamenti per la giornata. Poi, ne manda uno anche a Santana, avvertendola di non aspettarlo per cena.
*
Quando Kurt apre gli occhi, all’inizio non ricorda nemmeno il proprio nome. Non sa dov’è, e quello che vede – uno spicchio di soffitto mangiato a metà dalla luce al neon troppo forte per permettergli di tenere gli occhi completamente aperti – non è sufficiente per riconoscere qualsiasi posto sia quello in cui si trova.
Se è morto e questo è quello che c’è dopo, allora è parecchio deludente, comunque. E puzza anche un po’.
- Kurt? – lo chiama qualcuno alla sua sinistra. La voce è familiare, anche se lui non la riconosce. Somiglia a… ma è del tutto impossibile che sia lui. Sono passati anni dall’ultima volta che l’ha visto. Per quello che ne sa, potrebbe anche essere morto. Il che improvvisamente prende senso, se Kurt pensa che, in fondo, in questo momento potrebbe essere morto anche lui.
Ma non lo è, non è morto, il dolore diffuso che comincia a sentire spargersi a macchia d’olio dentro tutto il suo corpo ne è prova sufficiente, perché non riesce in alcun modo ad immaginare un aldilà talmente crudele da permettere ad un cadavere di soffrire così.
Mormora qualcosa, ma le sue labbra non si muovono come dovrebbero – ora che se ne accorge, c’è qualcosa di fastidiosamente stretto che gli preme sulla bocca, e spera di riacquistare la mobilità degli arti al più presto, anche solo per strapparsela di dosso, qualsiasi cosa sia; lo inquieta.
- Non sforzarti. – dice ancora la voce. Chiunque sia, gli sta stringendo una mano. – Se riesci a sentirmi, muovi le dita.
Kurt obbedisce. Probabilmente, si tratta di un medico. Probabilmente, non è morto. Probabilmente, questo è solo un ospedale.
Cazzo.
- Bene. – l’uomo gli lascia andare la mano. Kurt prova a stringerla per trattenerla, visto che ne trovava piacevole il tepore, ma le sue dita rispondono ai comandi sempre un po’ in ritardo, e mai con abbastanza decisione, e lui perde il contatto. È doloroso abbastanza da costringerlo ad ingoiare un groppo in gola. – Adesso prova ad aprire gli occhi.
Se non altro, l’uomo è ancora qui. Dal momento che non è riuscito a farsi fuori, tanto vale cercare di rimettersi in sesto. Così potrà provarci un’altra volta.
Prova ad aprire gli occhi, ma la luce lo abbaglia ancora, e dalle labbra gli sfugge un rantolo soffocato che Dio solo sa in che modo il medico riesce ad interpretare. Kurt lo sente alzarsi in piedi e percorrere la stanza in ampi passi decisi. Dopodiché, cala la notte, e quando Kurt apre gli occhi, non prova più dolore nel farlo.
La stanza è immersa nel buio, e gli schermi puntellati di lucine colorate dei macchinari a cui è collegato non riescono in alcun modo a rischiarare l’ambiente, ma l’odore è quello tipico degli ospedali, e perciò Kurt si rassegna.
- Come ti senti? – domanda la voce. Se Kurt avesse abbastanza energie, si volterebbe a guardarlo con un sopracciglio inarcato, lasciando alla propria espressione scocciata la giusta risposta che una simile idiota domanda può meritare, ma dal momento che non riesce nemmeno a piegare il collo, e dal momento che, visto il buio, difficilmente l’uomo riuscirebbe a notare la sua espressione in ogni caso, si sforza di rispondere.
- Una merda. – geme a fatica. L’uomo non sembra turbato dal suo linguaggio, non più di tanto, almeno.
- Sai dove ti trovi? – domanda.
- Che cazzo di medico sei? – si lamenta Kurt, togliendosi di dosso quella che adesso riconosce come una maschera ad ossigeno e cercando di raccogliere abbastanza forza nelle braccia da spingersi a sedere, - Da dove cazzo vieni fuori? Dio, la mia testa…
- Stai giù. – ordina il dottore, appoggiandogli una mano sulla spalla. Non lo spinge verso il basso più di tanto, ma al momento il corpo di Kurt è talmente privo di energie che probabilmente volerebbe via con la stessa folata di vento, per cui quella lieve pressione è più che sufficiente per costringerlo a rimettersi disteso. – È inutile che provi ad alzarti, probabilmente potrai domani, ma provarci adesso sarebbe un inutile spreco di tempo. Ora è importante che tu capisca dove ti trovi e perché sei qui.
- Senti, vaffanculo. – sbotta Kurt, passandosi una mano sugli occhi e soffiando indispettito quando sente l’ago conficcato nel suo avambraccio tirare dolorosamente. – Cazzo… non ne avevo abbastanza di buchi addosso, eh?
- Quando ti ho portato qui eri gravemente denutrito e disidratato. Il medico ha dovuto—
- Aspetta. – Kurt lo interrompe, gli occhi finalmente aperti, la voce non più insopportabilmente rauca, - Aspetta, cosa cazzo vuol dire “quando mi hai portato qui”? E quale medico? Non sei tu che—
- Kurt, calmati. – prova a sussurrargli l’uomo, poggiandogli nuovamente una mano sulla spalla, ma Kurt si dimena, soffiando e lamentandosi quando l’ago conficcato nel braccio tira per certi suoi movimenti più bruschi di altri, e non c’è niente che l’uomo riesca a fare per fermarlo.
- Non mi calmo! – quasi urla Kurt, e urlerebbe davvero, se avesse abbastanza voce e fiato per farlo, - Dove cazzo sono? Chi cazzo sei tu?! Accendi la fottuta luce!
- Sono Dave. – dice lui, e Kurt spalanca gli occhi, lasciandosi ricadere sul lettino, nuovamente privo di forza. Non possibile. Non… non è possibile. – Dave Karofsky.
- Questo… - Kurt ridacchia, coprendosi il volto con entrambe le mani, - Questo non sta accadendo davvero. Non è possibile. Tu sei… non è possibile.
- Mi… Mi dispiace. – balbetta Dave, probabilmente senza neanche sapere per quale motivo dovrebbe stare scusandosi, in questo momento.
Restano in silenzio a lungo. Kurt si rifiuta di guardarlo ed è contento che la luce sia spenta, perché gli dà una scusa in più per non costringersi a farlo. Di chiunque avrebbe potuto trovarlo nelle condizioni in cui deve averlo trovato Karofsky, proprio lui. Proprio lui, dannazione. È la cosa più crudele che gli sia mai capitato di vivere, e lui di roba crudele nella sua vita ne ha vista parecchia. Questa valica ogni limite e confine. Questa non è più nemmeno crudeltà, questo è sadismo.
- Vattene via. – mormora dopo qualche minuto, continuando a nascondersi dietro le proprie mani pressate contro il viso. Non lo ringrazia neanche per avergli salvato la vita, d’altronde, perché dovrebbe?
- Mi dispiace. – ripete Karofsky, e per un secondo Kurt ha paura che possa rispondergli che invece intende rimanere. Il suo tono di voce, fortunatamente, è abbastanza arreso da rassicurarlo sul punto, e dove la voce non era riuscita a spazzare via le ultime incertezze, ci pensano i suoi passi lenti e pesanti sul pavimento poco dopo ad assicurargli che sì, sta proprio andando via, finalmente. – Tornerò a trovarti. – butta lì mentre è sulla soglia della porta, una mano già sulla maniglia.
- Vattene via e basta. – insiste lui, lasciandosi scivolare disteso sul lettino, fin quasi a nascondersi completamente sotto il lenzuolo.
Quando Dave esce, richiudendosi la porta alle spalle, lui sta già piangendo. È un pianto diverso rispetto a quelli a cui si è abituato di recente. Ultimamente ha pianto solo per i dolori atroci che gli scuotevano tutto il corpo durante le crisi d’astinenza quando non poteva permettersi una dose, mai per pura e semplice tristezza nei confronti di se stesso. Tristezza, o pietà, o disprezzo per se stesso, non importa. Qualsiasi cosa sia, gli stringe il petto in una morsa, gli mozza il respiro riducendolo in singhiozzi, e le lacrime che gli scorrono lungo le guance, adesso, sono quasi di conforto.
Nonostante tutto, è ancora vivo.
*
Santana è sul divano, raggomitolata in una coperta che dovrebbe avere qualcosa come il doppio dei suoi anni. A sentire lei, si tratta del suo tesoro più prezioso, una coperta patchwork che sua nonna ha cucito a mano prima che nascesse, con l’intenzione di regalargliela. Fra le migliaia di cose che Dave ha sempre trovato deliziose di Santana – fra quelle che ha sempre trovato tali e le altre che ha dovuto imparare a riconoscere come tali nel corso del tempo per assicurarsi una serena convivenza – questa è indubbiamente una delle più carine.
Santana è una donna forte. Ha tenuto in piedi praticamente da sola una commedia durata quasi vent’anni, e non si è mai lamentata. Ma riesce ad essere così forte solo aggrappandosi disperatamente a ciò che ama come ad un salvagente in mezzo alla tempesta.
Dave trova adorabile che una tale spaventosa forza d’animo derivi da una simile disperata fragilità di fondo. Ma d’altronde, è probabilmente lo stesso che si potrebbe dire anche di lui; solo che, per qualche motivo, quando pensa a se stesso riesce a vedere solo quanto patetiche siano le sue stupide debolezze, mentre quando pensa a Santana le stesse debolezze che imputa come peccati capitali a se stesso diventano nient’altro che ridicoli, trascurabili, minuscoli difetti che, più che renderla una persona peggiore, la rendono in qualche modo perfino migliore di quanto già non sia.
- Ero preoccupata. – sorride lei, sentendosi scivolare le sue labbra lungo il collo e sollevando una mano per accarezzargli la nuca, mentre piega il capo per favorire i suoi movimenti, - Cos’è successo?
- Mi hanno chiamato per un consulto dall’ospedale. – risponde, appoggiando l’impermeabile sullo schienale del divano e scivolando seduto accanto a lei. Mentire è di una semplicità quasi imbarazzante, probabilmente frutto di tutti gli anni di pratica. Non aveva mai mentito a Santana, ma non lo stupisce più di tanto non trovare nessuna differenza fra il mentire a lei ed il mentire a tutti gli altri. È solo una menzogna in più, un’altra stupida macchia in più, qualcos’altro che smetterà di ricordare quando non avrà più motivo di continuare a farlo. Non è davvero importante. Non sono queste le cose che contano.
Santana è una cosa che conta. Mentre scioglie le lunghe gambe tenute fino a quel momento ripiegate sotto la coperta, e mentre gattona sul divano fino a raggiungerlo per poi lasciarsi ricadere seduta sulle sue ginocchia, guardandolo dal basso come una bimba impertinente.
Santana conta.
- Mi sei mancato.
Santana è l’unica cosa che conta.
- Anche tu.
Nient’altro oltre lei.
Ma quando chiude gli occhi e la bacia sulle labbra, a fargli compagnia è il fantasma di altre labbra premute contro le proprie in uno spogliatoio umido di un passato tanto antico da sembrare irreale.
*
Quando arriva in ospedale, l’indomani mattina, resta cinque minuti buoni sulla soglia della camera, scrutandone l’interno con aria allucinata.
È vuota.
Questo non dovrebbe poter essere possibile.
Afferra la prima infermiera che gli capita sottomano e le chiede che fine abbia fatto il paziente che alloggiava in questa camera fino alla sera prima, ma lei non ha neanche idea di chi stia parlando, e gli consiglia di rivolgersi al banco dell’accettazione per ottenere informazioni più precise. Dave sospira e grugnisce, ma non ha molte altre alternative, per cui percorre il corridoio al contrario fino all’ingresso e si mette a turno davanti al bancone, controllando l’orologio a intervalli regolari. Anche oggi, gli toccherà rimandare tutti gli appuntamenti della mattina.
- Dottor Karofsky? – lo chiama qualcuno, e in un primo momento Dave non riconosce la sua voce. Quando si volta, ci mette un po’ a collegare il viso illuminato da una smorfia di stupore infantile del medico che lo sta guardando, con quello del dottor Mason. – Che sorpresa! Come mai di nuovo qui?
Dave si volta a guardarlo, aggrottando le sopracciglia.
- Come sarebbe a dire “come mai”? – domanda, - Sono venuto a trovare—
- Sì, sì, immaginavo. – lo interrompe il dottor Mason, annuendo sbrigativamente, - È solo che credevo che sapesse che non era più qui.
- …non è più qui? – domanda Dave, la voce che trema appena, a metà fra lo sconcerto e l’incredulità, - L’avete lasciato andare?
- Be’, tecnicamente non potevamo trattenerlo, dottor Karofsky. – si giustifica lui, stringendosi nelle spalle, - Il signor Hummel stava bene, è uscito da questo ospedale sulle proprie gambe dopo aver espresso la ferma volontà di andare via. Sa com’è, questo è un ospedale, non una clinica… se c’è la possibilità di liberare una camera e dei macchinari che possano essere d’aiuto per qualcun altro, noi non possiamo—
- Ma la pianti! – lo interrompe Dave, agitando una mano a mezz’aria, - Quell’uomo stava sveglio a stento, fino a ieri! Era malnutrito e disidratato e palesemente sopravvissuto ad un’overdose, con che coraggio l’avete messo alla porta senza pensarci?! Avrei pagato io per quella stanza, anche per un mese, se avessi dovuto!
- Ma dottor Karofsky, gliel’ho detto! – insiste il dottor Mason, visibilmente imbarazzato, - Il signor Hummel ha abbandonato l’ospedale di sua spontanea iniziativa! Noi non abbiamo in alcun modo provato a convincerlo a—
- A restare! A restare, dottor Mason, è l’unica cosa che avreste dovuto fare! Provare a convincerlo a restare! – sbotta infastidito, incrociando le braccia sul petto e pinzandosi la radice del naso con due dita. – Ieri ha menzionato di avere un indirizzo, mi sbaglio?
- Dottor Karofsky… - sospira Mason, - Mi permetta di risparmiarle un viaggio a vuoto. L’indirizzo che il signor Hummel ci ha dato, così come i dati della sua assicurazione, sono falsi. Lasci perdere, non lo troverà lì.
- Dio, la pianti! Mi dia quel dannato indirizzo! – quasi urla lui, furioso. La quasi totalità dei presenti si volta a guardarli, ed a Dave neanche importa più. – Mi lasci essere molto chiaro, con lei, dottor Mason. – riprende parlando a bassa voce ed avvicinandoglisi abbastanza perché Mason soltanto possa sentirlo, - Ci tiene alla sua carriera in questo o in qualunque altro ospedale di questo stato?
Il dottor Mason deglutisce a fatica, annuendo lentamente.
- Bene. – annuisce anche Dave, tornando ad allontanarsi da lui, - Allora mi procuri quell’indirizzo.
*
Kurt si volta verso la porta e, per qualche secondo, si chiede se non abbia per caso sognato. Forse si è addormentato, e ciò che ha sentito è stato un frammento di sogno. La stanza è buia, invasa dal silenzio, e Kurt sta quasi per rimettersi disteso e provare ad addormentarsi ancora quando il suono si ripresenta.
Qualcuno sta bussando.
Non vuole aprire, probabilmente sarà il padrone di casa che, avendolo visto rientrare, avrà ben pensato di venire a battere cassa. Kurt non ha soldi da dargli – in realtà, al momento non ha soldi e basta. In questo preciso istante non è un problema perché, qualsiasi cosa gli abbiano dato per tenerlo sotto controllo in ospedale, sta tenendo a bada le fitte, ma sa già che l’idillio non può durare. Probabilmente, la prossima volta che si sveglierà sarà già in crisi. E quando allora non avrà soldi da spendere, saranno problemi veri.
Il suono si ripete, e Kurt si lascia sfuggire un mugolio insofferente, tirandosi la coperta fin sopra la testa e nascondendo il viso contro il cuscino. Vorrebbe urlare a chiunque si trovi oltre quella porta di lasciarlo in pace, e lo farebbe se non volesse provare a mantenere fino all’ultimo l’illusione di non essere nemmeno in casa.
Non tanto per l’uomo che bussa, quanto più per se stesso.
Non sono qui, non sono qui, non sono qui. Se me lo ripeto abbastanza spesso, forse…
- Kurt. – dice l’uomo dietro la porta, e Kurt spalanca gli occhi nel buio. – Kurt, apri, per favore.
Si tira su a sedere un’altra volta, fissando la porta con gli occhi così sgranati che quasi gli fanno male. Stringe le dita con forza attorno alla coperta e trattiene perfino il respiro.
- Kurt… - riprende Dave, dopo un sospiro esasperato, - Dio, che cosa incredibilmente stupida. Senti, se non ci sei va bene, vuol dire che io sono un idiota, vivrò con la consapevolezza, ma se ci sei… - sospira ancora, - Volevo solo dirti che mi dispiace di averti visto in quello stato. Cioè, - si affretta a correggersi, - mi dispiace perché immagino che per te sia stato orribile. Non avrei mai voluto… non lo so nemmeno io. In ogni caso, ci tenevo che tu sapessi che nonostante tutto sono… sono stato contento di vederti. Hai rimesso certe cose in prospettiva, credo. Io ho capito delle cose che— - è costretto ad interrompersi, perché la porta gli si spalanca a pochi centimetri dal viso. Kurt è lì sulla soglia che lo guarda con aria corrucciata, quasi offesa. Sembra stia meglio, rispetto a ieri.
- Entra. – lo invita, allontanandosi dalla porta per lasciarlo libero di passare. Dave obbedisce, si chiude la porta alle spalle e non è sorpreso di ritrovarsi immerso nel buio più totale.
Le tende alle finestre sono tirate, la luce è spenta. Kurt non vuole vederlo, o non vuole essere visto. O forse entrambe le cose insieme.
- Sono contento di vedere che stai meglio. – accenna con un sorriso.
- Non sto meglio. – risponde Kurt. Dave lo sente muoversi intorno a lui, sedersi da qualche parte. Lo immagina vedere al buio come i gatti, con quegli occhi così chiari e intensi che se solo ci ripensa si sente morire dentro. È surreale che abbia ancora quest’effetto su di lui.
- Allora mi dispiace. – ammette abbassando lo sguardo.
- Cosa puoi capirne… - sbuffa Kurt, - Tu non sai niente di me. Ed io non so niente di te. Non so nemmeno per quale motivo sei qui, adesso.
Dave si mordicchia l’interno di una guancia, riflettendoci quasi seriamente.
- Tu lo sai, vero, - dice alla fine, - che io sono sempre stato innamorato di te, fin da quando ti ho visto per la prima volta?
L’aria si fa tesa, fra loro. Può quasi sentire Kurt allontanarsi da lui, nonostante resti fermo nello stesso punto. È distante anni luce da quella stanza. Da quell’universo.
- Che importa, adesso? – risponde, - Ho visto che porti la fede.
- Ed avevo dimenticato perché. – insiste Dave, con un mezzo sorriso.
Kurt lascia andare una risata amara, che risuona nell’oscurità della stanza come una minaccia.
- Quindi posarmi gli occhi addosso e vedermi così devastato, dopo tutto questo tempo, ti ha aiutato a capire che hai fatto la scelta migliore dimenticandoti di me ed andando avanti con la tua vita? – domanda acido.
Dave lo sente alzarsi in piedi, e perde la traccia dei suoi movimenti.
- Non direi. – risponde, stringendosi nelle spalle, - Non ha proprio a che fare con te. Cioè, in parte sì. Non sono mai stato bravo a spiegarmi, ma tutto quello che ho adesso… tutto ciò che posseggo è una diretta conseguenza del non aver scelto te, in qualche modo, quando ero un ragazzino. Forse allora ho fatto la scelta peggiore, ma—
- Ma adesso sei felice? – Kurt parla, ed è a pochi centimetri da lui. Vicino, così vicino. Non soltanto in termini di spazio.
- Sì. – risponde Dave, sinceramente, - Lo sono.
Kurt sorride amaramente, appoggiandogli una mano sul petto.
- Mille secoli fa, io credevo di aver fatto la scelta migliore, sai? – sussurra dolcemente, - New York, Broadway, era tutto ciò che avevo sempre desiderato. – il suo sorriso si spegne appena. Dave non lo vede, ma lo sente, e gli spezza il cuore. – Ma evidentemente non ero abbastanza. Ero sbagliato io, probabilmente. Non lo so, non potrei giurarlo. So solo che è andata male, malissimo, e le conseguenze sono quelle che hai visto anche tu. Quindi, io forse ho fatto la scelta migliore, ma non sono felice. Non posso davvero rimproverarti per aver fatto quella peggiore, se almeno ti ha portato della felicità.
Dave solleva una mano e la chiude con forza attorno a quella di Kurt, ancora appoggiata sul suo petto.
- Può migliorare, Kurt. – gli dice, e ci crede davvero, - Posso—
- No. – Kurt gli sorride. Si solleva sulle punte, gli lascia sulle labbra il più impalpabile dei baci d’addio. – Vai da tua moglie, Dave. Tutto quello che avevi dimenticato fino a ieri, è giusto che torni a dimenticarlo adesso. – si interrompe, abbassa lo sguardo. Nel sorriso che gli piega le labbra c’è tutta la rassegnazione del mondo. – Io non ho alcun bisogno di aiuto.
*
Dave torna a casa per pranzo, puntuale. Santana ha cucinato per lui – non lo fa spesso, e Dave è molto grato ogni volta che accade. Ha indossato il grembiule e sta giocando a fare la mogliettina devota per stuzzicarlo. Dave sorride per ogni sua battuta, ed è sincero. Le stringe una mano fra le proprie, ed è sincero. La bacia sulle labbra, e quando l’ombra delle labbra di Kurt si sovrappone alle sue la accetta, la accoglie, la saluta come con un vecchio amico. Vuole che resti lì per sempre. Ed è sincero. È più sincero di quanto non sia mai stato.
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