Fandom: Originali
Seguito di Forever Stopped Today.
Genere: Introspettivo, Romantico, Fantasy, Drammatico.
Rating: R
AVVISI: Angst, Slash.
- Sono passati sei mesi da quella terribile notte in cui Mathias ha trovato Ruben in fin di vita, circondato da vampiri che bevevano da lui. Adesso che Ruben è praticamente guarito, Mathias pensa che l'ultimo passo da fare prima della riabilitazione completa sia affidargli un altro bambino da proteggere, ma le cose non andranno esattamente come aveva previsto.
Note: Ebbene, mentirei se dicessi che non avevo mai pensato all'idea di poter scrivere questo seguito, perché in realtà è da quando ho chiuso Forever Stopped Today che continuo a ripetere che la vicenda di questi due andava conclusa XD Fortunatamente, per la seconda missione della quarta settimana del COW-T si doveva scrivere una fic che avesse per protagonista un vampiro, e quale migliore occasione? =P
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IT’S OVER, IT’S UNDER

Le chiese non lo mettevano a disagio come avrebbero dovuto, come ad esempio succedeva a tutti i suoi amici, sia che fossero vampiri giovani sia che invece fossero più vecchi e potenti. Vivian, ad esempio, si rifiutava anche solo di entrarvi. Affermava sempre con un certo disgusto che quei posti le mettevano i brividi, così grandi e freddi, tutti eco e sacralità e bontà d’animo e putti acquerellati sulle volte e poi pieni di immagini di una violenza devastante in contesti in cui nemmeno te le aspetti.
Una volta Mathias, incuriosito, le aveva chiesto di che immagini violente stesse parlando. Lui la chiesa l’aveva frequentata spesso da ragazzino, prima di rinascere come vampiro, e per quanto già allora non potesse dire di adorarlo, come luogo in cui passare il tempo – anche se, come tutti, avrebbe preferito il campetto da calcio dell’oratorio e, per lo più, era per non vedersi togliere quello che continuava a subire quella noiosa tortura di un’ora e mezza circa ogni domenica mattina – in ogni caso non l’aveva mai vista come un posto in grado di fornire immagini violente, di qualunque tipo esse fossero.
Quel giorno, Vivian l’aveva guardato con un certo distacco e poi aveva accavallato elegantemente le lunghe gambe, spiegando la gonna sulle cosce e sulle ginocchia prima di rispondere. “Ci sono immagini apparentemente innocue che in realtà portano con sé implicazioni molto violente. Pensa alla Madonna che schiaccia la testa del serpente,” aveva scrollato le spalle, concedendosi un ghigno incattivito, “È parecchio violenta, quando il serpente sei tu.”
Riusciva a vedere il punto del discorso di Vivian, naturalmente, e d’altronde era pur vero che lei era rinata in un periodo in cui i vampiri ancora neanche potevano sognare di poter essere trattati con pari dignità rispetto agli umani come invece negli ultimi anni, dopo la Grande Tregua, aveva cominciato a verificarsi, motivo per il quale per molti versi riusciva a comprendere l’astio e la diffidenza generalizzata che la vampira usava per parlare degli uomini e di ogni loro invenzione – compresa l’istituzione ecclesiastica, che per come ne parlava Vivian sembrava la cosa più lontana dalla fede che potesse esistere, nonostante fosse stata creata per essere invece la più vicina – ma in generale Mathias, forse perché in confronto ai vampiri più vecchi era nato e cresciuto nella bambagia, non riusciva a trattare l’argomento con la stessa avversione.
Il risultato di tutto ciò era che forse non avrebbe scelto una chiesa per passare il proprio tempo libero di sua spontanea iniziativa, ma di sicuro quando gli capitava di entrare in una di esse non lo faceva mai malvolentieri. Aveva probabilmente ragione Vivian a definire violente certe immagini – come dimenticare la più violenta di tutte, d’altronde? Quella sulla quale l’intera questione della fede si basava – ma era pur vero che in quella violenza c’era del fascino. Nella contrapposizione fra bene e male, nei chiodi che trapassano pelle e carne spezzando ossa al passaggio, nel sangue. Nel sangue, soprattutto. E chi meglio di loro poteva saperlo?
- Quale inattesa e rara visione. – disse una voce dolce ma in qualche modo distorta da un’abbondante dose di sarcasmo. La chiesa era deserta, fatta eccezione per lui, eppure quel suono improvviso non produsse la minima eco. Doveva essere l’angelo che stava cercando. – Non capita spesso di vedere uno della tua razza, da queste parti.
Restando in piedi nel bel mezzo della navata centrale, a pochi passi dagli scalini che portavano all’altare, Mathias voltò appena il capo per intercettare la figura dell’angolo che si avvicinava lentamente a lui, un passo dopo l’altro. La sua carnagione era quella dorata tipica di tutti gli appartenenti alla sua specie, ma il suo abbigliamento era decisamente anticonvenzionale rispetto a quello che avrebbe dovuto essere il suo ruolo. Aderentissimi pantaloni neri gli fasciavano le gambe, al pari della maglia rossa dalle maniche inutilmente lunghe che indossava sopra una canottiera a rete della quale si intravedevano le spalline al di là dell’ampia scollatura a barca che lasciava scoperte buona parte delle spalle fin quasi al punto in cui la curva dolce si trasformava nella linea più dritta del braccio. Dal collo pendevano una serie di collane metalliche strapiene di ciondoli di dubbio gusto che facevano pendant con gli stivali borchiati dall’aria vissuta e con la cintura larghissima che portava appesa attorno alla vita più per decorazione che perché servisse a tener su alcunché.
- Anche io non è che sia esattamente di casa qui. – rispose con una scrollata di spalle. L’angelo rise, passando una mano fra i corti capelli neri e lucidi e ravviando la mezza frangia che gli copriva la fronte su una tempia.
- Dunque sei venuto qui perché…?
- Sto cercando un angelo. – annuì, voltandosi completamente verso di lui.
- Be’, ne hai trovato uno. – gli fece notare l’angelo con un sorriso, allargando le braccia ai lati del corpo e le ali dietro la schiena, - Se te ne serviva uno a caso, sei a cavallo. Se invece ne stai cercando uno più specifico, dovrai fornirmi il nome, e poi vedremo se possiamo aiutarti.
- Credo di stare cercando te. – disse lui, ignorando il suo sarcasmo, - Sei Andrael, vero?
L’angelo portò le mani ai fianchi, inclinando lievemente il capo.
- Devo essere veramente inconfondibile. – commentò ghignando, - Sarà lo stile?
- Ammetto che è abbastanza particolare. – rispose Mathias in un mezzo sbuffo divertito. – Non sono abituato a vedere angeli coi pantaloni.
- Allora non sei abituato a vedere angeli in generale. – ribatté Andrael, inarcando le sopracciglia, - La tunica è obsoleta, solo gli angeli più antichi si ostinano a indossarla. Noi, sai, così integrati nel territorio, stiamo più al passo coi tempi.
- Oh, capisco. – sorrise ironico Mathias, - È un peccato che quasi nessuno a parte i vampiri e le altre poche creature soprannaturali che vivono in questa dimensione possa vedervi.
L’angelo aggrottò le sopracciglia, richiudendo le ali ed incrociando le braccia sul petto, visibilmente offeso.
- Sei venuto fin qui per parlare di moda? – domandò acido, e Mathias scosse il capo, avvicinandosi per potergli parlare abbassando la voce.
- Mi hanno detto che sei tu il responsabile per questo quartiere. – cominciò, - Ebbene, ho bisogno di un intermediario.
Andrael inarcò un sopracciglio, spostando il peso del corpo da un peso all’altro.
- Se vuoi chiedere qualcosa a Dio, ti conviene fare come tutti gli altri: pregare e attendere. C’è un sacco di burocrazia di mezzo, d’accordo, ma non—
- Non è con Dio che voglio parlare. – sbottò lui, irritato dal suo atteggiamento adesso molto più scorbutico. – Senti, - riprese in tono conciliante, - mi dispiace se ti ho offeso, ma ho bisogno di mettermi in contatto col responsabile degli angeli custodi in Paradiso. Devo parlargli a proposito di una questione importante.
- Jeremiah non scende sulla terra. – scosse il capo l’angelo, - Non discute con nessuno che non siano i suoi sottoposti e il suo diretto superiore, che nel caso tu te lo stia chiedendo è Dio. E soprattutto – sibilò, faticando a trattenere una smorfia di disgustata pietà per quel suo patetico tentativo di mettersi in contatto con forze che così platealmente si distaccavano dal suo basso livello nella piramide sociale delle tre dimensioni, - non accetterà mai di concedere udienza a un vampiro.
Mathias strinse i pugni lungo i fianchi, inspirando ed espirando rumorosamente.
- Va bene. – concesse, - Tu, comunque, fagli sapere che devo parlargli a proposito di uno dei suoi angeli custodi. Vedremo se non gli andrà di parlare. – concluse, scrollando le spalle e voltandosi per seguire la navata centrale fino all’uscita.
- Aspetta! – lo fermò Andrael, raggiungendolo senza fare il benché minimo rumore, - Di che angelo stai parlando? – gli chiese. Mathias lo guardò dritto negli occhi, infilando entrambe le mani in tasca per darsi un tono.
- Ruben. – rispose seccamente, osservando gli occhi dell’angelo spalancarsi all’istante.
- Lo stiamo cercando da settimane. – disse, la voce sospesa a metà fra incredulità e sollievo.
- Lo so. – annuì lui, abbassando lo sguardo.
- Sei Mathias, giusto? – insistette Andrael, poggiandogli una mano sulla spalla e stringendo per impedirgli di andarsene e, al contempo, cercare di convincerlo a tornare a guardarlo, - Come sta?
- Meglio. – si rassegnò a concedergli, sospirando pesantemente, - Ma non ancora bene. È per questo che ho bisogno di parlare con Jeremiah. E ora, se non ti dispiace, - grugnì, indicando con un cenno del capo la sua mano ancora ben piantata sulla propria spalla, - dovrei tornare da lui.
Andrael lo lasciò immediatamente andare, annuendo sbrigativo.
- Parlerò con Jeremiah immediatamente. – lo rassicurò, - Aspettati sue notizie quanto prima.
Mathias annuì, riprendendo il proprio cammino ed uscendo in strada. Il buio era calato da un pezzo, le luci per strada erano tutte accese. Il sacerdote era già uscito dalla sagrestia, le chiavi tintinnanti fra le dita, pronto a chiudere.
Ruben stava sicuramente per svegliarsi.
*
La prima cosa che aveva fatto dopo averlo trascinato via da quel vicolo, ormai quasi sei mesi prima, era stata nasconderlo. Il suo appartamento non era molto grande, ma possedeva un seminterrato che si estendeva sotto le sue tre stanze per quasi tutto il perimetro del palazzo, un luogo spazioso ma, soprattutto, abbastanza protetto per custodire la sua presenza. Per tutto il primo mese, Ruben non ne era uscito quasi mai. Durante le crisi strillava continuamente di volere uscire, lo implorava di lasciarlo andare e lo aggrediva anche fisicamente, dandogli un bel da fare nonostante la debolezza fisica e spirituale che toglieva colore alla sua pelle e luce ai suoi occhi, e durante i rari e spossati momenti di lucidità era lui stesso a piangere e rannicchiarsi in un angolo al buio, chiedendogli di ucciderlo, o di rinchiuderlo là dentro per quel po’ che ancora gli rimaneva da vivere.
In ognuno di quei momenti, fossero di crisi o di lucidità, Mathias gli era rimasto accanto. Sapeva abbastanza dei morsi dei vampiri da conoscere bene che effetti avessero quando praticati ripetutamente, soprattutto su un soggetto instabile quale Ruben evidentemente era. Il morso in sé era doloroso, ma tutto quello che ne seguiva, lo scambio di sensazioni fra vampiro e vittima, era ciò che rendeva l’atto speciale, piacevole fin quasi a stordire entrambi.
Proprio come una droga, e come tale causava dipendenza.
Ruben si era lasciato mordere per settimane, così tante volte che quando l’aveva portato a casa, quella notte, e l’aveva steso sul proprio letto ed aveva acceso la luce per guardarlo bene, non era riuscito a contare tutti i segni. Erano troppi. Arrivava a un dato numero e poi perdeva puntualmente il conto. Alla fine s’era sentito così nauseato e triste e stanco da decidere di lasciar perdere. In fondo, per quanto il solo pensiero dei denti di qualcun altro che affondavano nella sua pelle e nella sua carne lo rendesse pazzo di gelosia, non era importante sapere in quanti l’avessero morso, o quante volte questo fosse successo. Era importante solo che lui si rimettesse.
Per tenerlo meglio d’occhio, gli aveva imposto i suoi orari. Non l’aveva fatto con cattiveria, semplicemente era stato quello il risultato della situazione in cui s’erano venuti a trovare. Restando per lo più sempre chiuso nel sotterraneo, Ruben aveva perso anche quella parvenza di orologio biologico che ancora gli restava da quando aveva smesso di dover stare attento all’orario per occuparsi al meglio di Leonard, funzione che, da quando Leonard gli era stato tolto, era risultata non solo inutile, ma perfino dolorosa.
I primi tempi dopo quella rimozione forzata dall’incarico, Mathias lo ricordava ancora benissimo, spesso Ruben si era alzato dal letto dopo un paio d’ore passate a fare l’amore e chiacchierare del più e del meno sussurrando “adesso devo andare da Leonard, l’ho già lasciato solo troppo a lungo”, salvo poi ricordarsi quando era già in piedi che non aveva nessun posto dove andare, nessun bambino ad attenderlo, e solo altra notte da ingannare fra le sue braccia in attesa di un giorno che avrebbe dovuto ingannare ancora, ma da solo.
In quelle occasioni, i suoi occhi si erano riempiti di lacrime e lui aveva faticato a ricacciarle indietro, tanto che spesso Mathias s’era sentito stringere il cuore e, tenendolo stretto fra le braccia, l’aveva lasciato sfogarsi a lungo, finché alle prime luci dell’alba non erano crollati entrambi addormentati. Ma non era durata a lungo. Pian piano, quella di stare attento all’orario era diventata un’abitudine come le altre, e poi si era persa del tutto. Ruben l’aveva dimenticata, e dentro di lui non era rimasta che una traccia di quello che era stato un tempo.
Nel sotterraneo non aveva modo di sapere quando sorgesse o calasse il sole, perciò poteva solo limitarsi a scandire le proprie giornate fra i momenti in cui Mathias c’era e i momenti in cui Mathias non c’era. E, dal momento che Mathias poteva esserci solo di notte, aveva semplicemente cominciato a dormire di giorno.
In qualche modo, Mathias trovava consolante che Ruben dormisse mentre dormiva anche lui, pure se per i primi tempi non avevano mai potuto dividere il letto. Gli era mancato il suo calore, il tocco soffice della sua pelle, il profumo dei suoi capelli, ma sapere che, pur lontano da lui, anche Ruben stava dormendo, rendeva i giorni di sonno meno lunghi, e le notti di veglia più semplici da attendere.
Pian piano, le cose avevano preso a migliorare. Le crisi s’erano fatte meno violente, per quanto sempre estremamente dolorose, e Mathias aveva provato a portarlo di sopra, ogni tanto. Ruben s’era comportato bene, era stato forte. Aveva resistito ed aveva continuato a mantenere i ritmi che avevano ormai collaudato anche senza dover per forza rimanere sepolto nel buio perenne di quello scantinato sempre umido e polveroso nonostante Mathias avesse fatto il possibile e l’impossibile per renderlo un pochino più accogliente.
Adesso, dalla prima volta che Ruben era uscito da quel buco nascosto nel sottosuolo erano passati quasi quattro mesi. Negli ultimi due, non aveva mai sentito il bisogno di ritornarci, cosa che invece i primi tempi era successa. Era stato Ruben stesso che, in una decina di occasioni, soprattutto durante le prime due settimane, l’aveva pregato di riportarlo giù. Alle volte, l’idea del sole di fuori mentre lui, di giorno, dormiva, gli pizzicava fastidiosamente la pelle. Alle volte, il pensiero di poter uscire lo tormentava fino ad impedirgli di pensare ad una qualsiasi altra cosa. Alle volte, il desiderio di un morso – uno solo, uno piccolissimo, per favore, per favore, per favore – gli faceva prudere contemporaneamente tutte le cicatrici, lo tendeva per poi abbatterlo subito dopo, lo frustrava, lo confondeva, lo spaventava fin quasi a costringerlo a rannicchiarsi sotto il letto come alle volte qualcuno dei bambini che aveva custodito nel corso degli anni aveva fatto, spaventato a morte dalle sciocche storielle sull’uomo nero che i genitori gli raccontavano per mandarlo a dormire senza troppe storie. In quei momenti, per lui era stato importante sapere di avere uno scantinato a cui tornare quando il mondo di fuori – fosse anche solo il piccolo appartamento di Mathias – gli sembrava così pauroso, duro e inospitale.
Negli ultimi tempi, però, questo non era più successo. Ruben era ancora debole, naturalmente, e ogni tanto Mathias si svegliava nel bel mezzo della mattinata solo per trovarlo rigido e gelido al suo fianco, ricoperto di sudori freddi, teso come una corda di violino e tremante come se dovesse spezzarsi da un momento all’altro, e quelle volte gli toccava inghiottire la nausea, sopportare il dolore atroce che le sue viscere gli procuravano attorcigliandosi in spirali sempre più strette e confuse e rassegnarsi a pulire in nottata il sangue che perdeva copiosamente dal naso e dalle orecchie nel tentativo di restare sveglio fuori orario per restargli accanto finché la crisi non fosse passata.
Ma negli ultimi giorni era andata molto meglio. Le crisi, che avevano continuato a presentarsi al ritmo di almeno una a settimana, avevano cominciato a diradarsi, e negli ultimi sette giorni non ce n’era stata nemmeno una. Era stato quello a convincerlo che fosse finalmente giunto il momento di mettersi in contatto coi piani alti. Ruben aveva bisogno di fare un ulteriore passo verso la riabilitazione, e per fare ciò era necessario che gli venisse affidato nuovamente un bambino. Una sorta di pet therapy, in qualche modo, per quanto Mathias fosse perfettamente consapevole delle differenze che correvano fra l’occuparsi di un cucciolo di cane e il custodire un cucciolo d’uomo. Immaginava che, fosse Ruben stato un essere umano e non un angelo custode, comprargli un cucciolo sarebbe stata la cosa migliore da fare per cominciare, ma dal momento che a Ruben i cuccioli interessavano solo relativamente era abbastanza convinto che mettergli in braccio una bestiola da accudire non sarebbe stato nient’altro che uno spreco di tempo. No, aveva bisogno di un bambino. Doveva riprendersi la sua vita fuori da quelle mura, e Jeremiah era l’unico che poteva riconsegnargliela.
Quando rientrò in casa lo trovò sveglio e seduto sul letto, anche se era evidente che avesse aperto gli occhi solo da poco. Aveva i capelli arruffati sulla testa che ricadevano i ciocche disordinate sulla fronte e ai lati del viso, fino a solleticargli la base del collo. Le ali erano ripiegate ordinatamente dietro la schiena, e non sembravano impicciarlo più di tanto nella posizione in cui era. Quando lo sentì entrare, i suoi occhi, prima persi a fissare un punto non meglio identificato oltre la finestra che Mathias s’era premurato di liberare dai frangisole quando era uscito, si spostarono immediatamente su di lui, e sulle sue labbra piene e rosa si aprì un sorriso allegro.
- Ehi. – lo salutò, sfilando la giacca e lasciandosi andare disteso al suo fianco, mentre Ruben ridacchiava per il movimento ondulatorio del materasso sotto il peso del suo corpo. – Come stai?
- Bene. – annuì Ruben, stendendosi su un fianco per abbassarsi al suo livello e baciarlo lievemente sulle labbra, - Dove sei stato?
- A trovare un amico. – rispose lui, vago, distogliendo lo sguardo.
- Un amico, eh? – sorrise furbo Ruben, inarcando un sopracciglio con aria ironica. Mathias gli premette il naso facendo uno strano verso che lo costrinse ad una risata divertita. – Sei andato a parlare con Andrael, vero? – gli chiese quindi. Mathias sbuffò, voltandosi a pancia in giù.
- Non ricominciamo. – borbottò, - Eravamo d’accordo, no?
- Non ho detto niente. – rise ancora Ruben, stringendosi nelle spalle, - È solo che non sono tanto sicuro di essere pronto. O di… meritarmelo. – aggiunse dopo una minima esitazione, deglutendo faticosamente.
- Sei pronto, e te lo meriti. – disse immediatamente Mathias, mettendosi dritto di scatto ed afferrandolo per le spalle per scuoterlo con foga, - Non pensare mai più una cosa simile. Perfino i peggiori peccatori meritano sempre un’occasione per riscattarsi, figurati se tu che sei un angelo—
- Questo non mi rende migliore del peggiore dei peccatori. – gli fece notare con un sorriso minuscolo, riuscendo ad interromperlo nonostante il tono pacato e dimesso, - Anzi. Mi rende forse perfino—
- Non dirlo neanche. – lo interruppe a propria volta Mathias, stringendolo in un abbraccio improvviso e forte. – Ti meriti tutte le seconde occasioni del mondo. Te ne meriti di terze, di quarte, tutte quelle che vuoi.
Ruben ricambiò l’abbraccio, stringendosi a lui e nascondendo il viso nell’incavo del suo collo.
- Però ho paura, sai, Mathias? – confessò a bassa voce, - Essere un angelo custode mi ha portato alla pazzia. Non so se ritornare di nuovo in mezzo a tutto quello, con un altro bambino e poi un altro e un altro e un altro ancora…
- Adesso non pensare ai bambini futuri. – scosse il capo Mathias, stringendolo a sé con maggiore decisione, - Devi muoverti piano, un passo alla volta. Sei stato bravissimo negli ultimi mesi. Devi solo continuare per quella strada lì. Ti prometto che andrà tutto bene.
Ruben sorrise sulla sua pelle, strusciando il naso contro il suo collo e risalendone la linea curva fino a posare le labbra sulle sue.
- A volte quando ti guardo ho l’impressione che in Paradiso non abbiano ancora ben compreso cosa un angelo sia. – disse piano, accarezzandogli gentilmente il viso, - Perché se lo sapessero, avresti un paio d’ali anche tu.
Mathias sbuffò una risata in parte divertita e in parte imbarazzata, scuotendo il capo. Lo zittì con un bacio più profondo degli altri, più profondo di tutti gli altri che si erano scambiati da quando Ruben aveva cominciato a stare meglio.
Faticò a trattenersi dall’affondare i canini nella pelle tenera del suo collo quando si ritrovò stretto dentro di lui e prigioniero della morsa delle sue cosce annodate attorno al bacino. Ma fu un sacrificio che compì con gioia. L’ultimo di una lunga serie in continuo aggiornamento.
*
Jeremiah non scelse proprio il momento migliore per passare a trovarli. Ruben non si sentiva bene, era debole e fiacco e al solo aprire gli occhi aveva immediatamente cominciato a lamentare nausea e un potente mal di testa che l’aveva portato a nascondere all’istante il viso contro il cuscino, sbuffando infastidito. Mathias gli era rimasto accanto per un po’, accarezzandogli i capelli e le ali, e quando poi Ruben era di nuovo caduto addormentato aveva sospirato ed era uscito dalla camera da letto per darsi una rinfrescata, cambiarsi e poi uscire a caccia. Non aveva avuto molto tempo per mangiare, negli ultimi giorni. Le rare volte in cui era uscito si era sempre preoccupato di nutrirsi a sazietà, in modo da potere andare avanti per almeno un altro paio di notti senza dover abbandonare Ruben solo a se stesso. Poteva pure stare meglio, ma in qualche modo il pensiero di lasciarlo solo troppo a lungo ancora lo disturbava.
Stava già indossando la giacca e cercando le chiavi di casa nelle tasche, quando Jeremiah apparve in un lampo di luce talmente improvviso e potente da abbagliarlo fino a sentire gli occhi bruciare. Si piegò su se stesso, coprendosi il viso con entrambe le mani e lasciandosi sfuggire dalle labbra un lamento addolorato ma reso fievole e leggero dalla sorpresa che sembrava avergli strappato via tutto il fiato dai polmoni. Quando il dolore fu scomparso e lui riuscì a rimettersi dritto, la sua vista ci mise più di qualche secondo a rientrare perfettamente in funzione.
Sbattendo le palpebre forsennatamente per cercare di dissipare le macchie di luce biancastra che gli impedivano di mettere perfettamente a fuoco gli oggetti che lo circondavano, riuscì finalmente a distinguere la sagoma dell’angelo e, poco dopo, a cogliere i dettagli della sua figura. Pur non avendo un aspetto propriamente canuto, Jeremiah dava l’impressione di essere un angelo molto vecchio. I suoi capelli erano corti e tanto biondi da sembrare quasi bianchi, e la sua pelle, pur liscia e priva di imperfezioni, come quella di tutti gli altri angeli, era sottile e molto più pallida di quella di Ruben. La linea dritta e severa delle sue labbra incuteva un certo timore, così come l’azzurro ghiacciato dei suoi occhi grandi e luminosi. La tunica che lo copriva era candida e leggera, stretta in vita da una semplice cinta di corda dorata annodata mollemente su un fianco.
- Chiedo scusa. – disse, con un breve cenno del capo, - Non era mia intenzione abbagliarti.
- Non… non si preoccupi. – biascicò Mathias, incerto su che tipo di linguaggio adottare con lui. Era stato facile dialogare con Andrael, ma reggere la tensione al cospetto di Jeremiah faceva improvvisamente sembrare una passeggiata tutti i mesi che aveva trascorso a cercare di tenere bloccato Ruben mentre urlava, strepitava, piangeva e si graffiava le braccia e il viso fino a farsi sanguinare. – Aspettavo una sua visita, solo che avrei preferito arrivasse in un momento meno complicato. – si inumidì le labbra, grattandosi nervosamente la nuca, - Ruben ha avuto una piccola ricaduta, e—
- Una ricaduta? – domandò Jeremiah, inarcando un sopracciglio ed incrociando mollemente le braccia all’altezza del petto.
- Sì… - cominciò lui, incerto, - Cioè, non del tipo— non è stato— non so cosa lei sappia di quello che ha passato Ruben, ma—
- Sono perfettamente a conoscenza di ciò che ha fatto dopo che il bambino che custodiva gli è stato tolto. – annuì l’angelo. Mathias si concesse una smorfia.
- Io non userei l’espressione “ciò che ha fatto”. Non era in sé. – lo giustifico, - E più che altro direi che sono state fatte a lui delle cose che—
- Che lui ha voluto. – gli fece notare Jeremiah.
- …sì, d’accordo. – sospirò Mathias, - In ogni caso, oggi non si sente bene, per cui suppongo che se vorrà parlare con lui a riguardo del prossimo bambino che intendete affidargli dovrà tornare un’altra volta.
Jeremiah annuì lentamente, pensoso.
- No, - disse quindi, - posso parlarne anche con te. Saprai certamente trovare il modo giusto di dirlo a Ruben, visto che gli sei stato vicino nel periodo in cui abbiamo perso le sue tracce.
- Le avete perse perché io l’ho tenuto nascosto. – ribatté Mathias, - E penso proprio che, qualsiasi cosa lei abbia da dirgli, dovrebbe dirla a lui.
- Non è importante. – insistette Jeremiah, scuotendo il capo. – Ruben è un angelo molto antico. È stato un custode troppo a lungo, non esiste un altro custode tanto vecchio. Io stesso, pur essendo più antico di lui, ho ritenuto opportuno ritirarmi dopo aver lavorato per molti meno anni di quanto invece non abbia fatto lui. – si concesse un sospiro vagamente comprensivo, sciogliendo le braccia lungo i fianchi in una posa decisamente meno ostile. – Nei secoli, la politica del mio ufficio nei confronti dei bambini da custodire è cambiata parecchie volte, e nessuno esclude che possa cambiare ancora, in futuro. L’età della custodia potrebbe continuare ad abbassarsi, e sono fermamente convinto che Ruben non riuscirebbe a tenere il ritmo. Separarsi dai bambini è ormai diventato troppo difficile per lui. È per questo motivo che—
- No. – boccheggiò Mathias, gli occhi spalancati e le braccia inermi lungo i fianchi, - No, per favore. Io l’ho cercata per ottenere l’esatto contrario. La prego.
Jeremiah sospirò, scuotendo lievemente il capo.
- Mi dispiace. – tagliò corto, - Ma Ruben da questo momento è sollevato dal suo incarico, e pertanto non è più una mia responsabilità. Spero che potrà ritrovare con te quella felicità che il suo lavoro gli ha tolto.
- No, aspetti. – cercò di fermarlo Mathias, vincendo il timore irrazionale che provava nei confronti dell’angerlo ed avvicinandosi a lui, - La prego, lei deve ascoltarmi. Ruben ha solo… lui era solo un po’ stressato, ma adesso ha davvero bisogno di ricominciare a prendersi cura dei bambini. Erano la cosa più importante, per lui.
- Forse troppo. – considerò seccamente Jeremiah.
- Troppo?! – strillò Mathias, gesticolando animatamente, - Come può esistere un troppo per un angelo custode?! L’amore di un angelo custode dovrebbe essere infinito, no? Come fai a proteggere un bambino, come puoi prenderti cura di lui se nei suoi confronti provi solo una limitata dose di affetto?! Non può esistere troppo amore, per un angelo custode!
- Può, invece. – ribatté Jeremiah, algido, incrociando nuovamente le braccia sul petto, - Può, quando non hai altra vita all’infuori di quello. E nel momento in cui ti viene tolto non ti resta nient’altro. Quando hai solo una cosa, il momento in cui quella cosa cambia o ti viene a mancare è il momento in cui tu stesso vieni a mancare. – sospirò pesantemente, scuotendo il capo. – Un angelo custode protegge e ama, sì, ma deve sempre e comunque essere presente a se stesso. Ruben non lo è più da tempo, ormai, e io non credo che potrà mai tornare ad esserlo.
- Certo, - replicò Mathias, tagliente, rassegnandosi ad abbassare lo sguardo mentre stringeva i pugni lungo i fianchi, - se non gli date neanche una possibilità.
Jeremiah sospirò ancora, avvicinandosi di un passo e poggiandogli una mano sulla spalla. Il calore che si irradiava dalle sue dita era celestiale, sciolse immediatamente tutti i muscoli del suo corpo diffondendo in tutte le fibre del suo essere un’enorme calma, che lo portò a sollevare gli occhi nei suoi. Non c’era cattiveria, negli occhi di Jeremiah, solo un profondo senso del dovere.
- È di bambini che stiamo parlando, - spiegò l’angelo con tono autoritario ma bonario, - non posso permettermi di fare una scommessa sulla vita di un’anima innocente. Sono sicuro che questo puoi capirlo tu così come può capirlo Ruben. – strinse appena la presa sulla sua spalla, riempiendogli il corpo di un’ondata di calore più piacevole e intensa della precedente e costringendolo a un sospiro pieno di composta rassegnazione. – Buona fortuna. – disse in un mezzo sorriso, prima di sparire.
Mathias non riaprì gli occhi abbastanza celermente da riuscire ad osservarlo mentre andava via. Quando riuscì a sollevare le palpebre, appesantite dal torpore che quello che aveva provato al tocco di Jeremiah aveva generato in lui, la stanza era vuota e silenziosa. La notte era ancora giovane, fuori dalla finestra, ma nonostante la fame Mathias non aveva più la benché minima voglia di uscire. Tutto quello che aveva sperato di poter ottenere da Jeremiah s’era dissolto assieme a lui senza lasciare neanche una traccia. Avrebbe dovuto inventarsi qualcos’altro per cercare di rimettere in sesto Ruben, e non sapeva se ne era capace. Non sapeva nemmeno se fosse possibile.
Sospirando, tornò in camera da letto. Ruben era seduto in mezzo alle lenzuola scomposte, i gomiti poggiati sulle ginocchia strette al petto e un sorriso lontano e triste a increspargli le labbra. I suoi occhi guardavano qualcosa che non si trovava nemmeno in quella stanza.
- Sai qual è la cosa buffa? – disse con una vocina talmente flebile e sottile che Mathias riuscì a malapena ad udirla mentre gli si avvicinava, - Che anche se ti avevo detto che non ero sicuro che fosse il caso, proprio perché immaginavo che Jeremiah non l’avrebbe ritenuto opportuno, io ci ho sperato. Ci ho sperato così tanto che ho finito per credere che fosse davvero possibile, e ho cominciato a fantasticare… - ridacchiò appena, nascondendo il volto dietro gli avambracci incrociati, - Ho sognato un sacco di cose stupide, ho ripensato al profumo buonissimo che aveva Leonard dopo la prima poppata, al suo primo sorriso, alla sua prima parola, a quando era ancora così piccolo da riuscire a vedermi e parlare con me come solo i bimbi di pochi giorni possono fare… e per la prima volta… - sospirò, la voce rotta da un singhiozzo senza fiato, - Per la prima volta, il pensiero di poter ricominciare tutto da capo non mi è sembrato doloroso. Ero quasi emozionato. Sono stato uno stupido.
- Ruben… - lo chiamò piano Mathias, avvicinandosi e poggiandogli una mano sulla spalla. Ruben si sciolse immediatamente contro di lui, nascondendo il viso sul suo petto. Mathias lo circondò con le braccia, stringendolo a sé e cullandolo silenziosamente mentre lui piangeva lamentandosi di tanto in tanto a bassa voce, le spalle sottili scosse dai singhiozzi.
Lo lasciò andare solo quando sembrò essersi calmato un po’. Ruben si asciugò gli occhi e le guance, ed inspirò profondamente, riprendendo fiato.
- Credo di volere uscire un po’. – disse piano, quasi non credendoci lui per primo, - Ho voglia di una passeggiata.
- Ti accompagno. – si offrì immediatamente Mathias, ma Ruben scosse il capo, sorridendo.
- Da solo. – disse, - Volerò. Ho bisogno di… di uscire e stare un po’ per conto mio. Puoi capirlo questo, vero? Sto bene, non devi preoccuparti.
Mathias sospirò, accarezzandogli lievemente una guancia.
- Sì, posso capirlo. – annuì, - Ma non chiedermi di non preoccuparmi per te, - aggiunse in un mezzo sorriso, - non ci riuscirei neanche se cercassi di impormelo.
Ruben sorrise a propria volta. Aspettò che lui si fosse girato prima di raggiungere in un lampo la finestra e spiccare il volo. Mathias gliene fu grato.
*
Subito dopo averlo morso, il suo creatore, Geoffrey, l’aveva guardato con molta tenerezza, gli aveva ravviato i capelli sulla fronte e si era scusato. Quando lui – ancora stretto fra le sue braccia, scomposto e frastornato dal cambiamento che gli agitava ogni cellula del corpo facendolo sentire come se ogni centimetro della sua pelle, ogni fascia muscolare ed ogni frammento osseo presente nel suo organismo stesse lentamente bruciando senza mai riuscire a consumarsi – gli aveva chiesto perché, Geoffrey gli aveva risposto che se fosse stato un creatore responsabile avrebbe aspettato almeno che lui avesse compiuto diciott’anni, prima di vampirizzarlo. “Così, invece,” gli aveva detto, baciandolo lievemente sulla fronte ed aiutandolo a ricomporsi addosso i vestiti tutti stropicciati, “piccolo sei e piccolo resterai. Avrai quindici anni per tutto il resto della tua vita, e spero sia una vita molto lunga.”
Lui aveva scrollato le spalle, rotolandogli addosso su quel letto dalle lenzuola tutte scombinate e macchiate di sangue che ancora portavano addosso, impressi nelle fibre intrecciate fra loro, i resti del breve rapporto che avevano consumato prima del morso. “Non mi dispiace,” aveva detto, “Avere quindici anni per sempre, intendo. Vuol dire che ti piacerò per sempre.”
“Mi piaceresti comunque,” l’aveva rassicurato Geoffrey, stringendolo a sé e posandogli un bacio gelato sulla fronte, “sei il mio bambino. Ma avere quindici anni per sempre ha anche un sacco di lati negativi.”
“Dimmene uno,” l’aveva sfidato lui, strusciandosi lentamente contro il suo fianco, “perché per ora ne vedo solo di positivi.”
Geoffrey aveva riso ancora, con quel tono così fraternamente intenerito che, dopo la sua morte, sarebbe stata la cosa di cui Mathias avrebbe più sentito la mancanza in assoluto, della sua persona.
“Per esempio,” aveva sussurrato, cercando di tenerlo buono, “non sarai mai maturo abbastanza.”
“E questo vuol dire?” aveva insistito Mathias, cercando di tornargli addosso e ridendo della pressione decisa delle sue mani fredde sui suoi fianchi ancora tiepidi.
Geoffrey gli aveva sorriso, baciandolo lentamente sulle labbra.
“Che non sarai mai davvero pronto,” aveva concluso enigmatico.
Mathias non aveva mai capito cosa il suo creatore intendesse dirgli con quelle poche parole, ma gli sembrò per la prima volta di averne un’idea chiara nel momento in cui, la sera successiva, Vivian si presentò alla sua porta, sul volto l’espressione tetra tipica delle grandi occasioni, quelle dalle quali non era possibile aspettarsi niente ma proprio niente di buono.
Ruben non era rientrato, la notte precedente. Mathias era uscito a cercarlo, ma quando era spuntata l’alba, per quanto il suo cuore immobile eppure mai così vivo si ribellasse all’idea di anteporre la propria incolumità a quella di Ruben perso chissà dove con la testa piena di pensieri orribili, era dovuto rincasare. Era crollato addormentato non appena aveva poggiato la testa sul cuscino, incapace di reggere ancora per una sola volta quel dolore massacrante che lo riempiva di paura ogni volta che si azzardava a tenere gli occhi aperti quando invece avrebbe dovuto chiuderli.
In quel momento, desiderò di poter essere più forte, e si chiese se avrebbe mai potuto diventarlo. Se fosse stato più forte, avrebbe potuto rimanere sveglio più a lungo. Aspettarlo. Forse, se Ruben avesse saputo che lui sarebbe rimasto sveglio ad attenderlo fino al suo ritorno, sarebbe tornato indietro. Da lui.
- Viv. – la chiamò, la voce ridotta a un rantolo, - È successo qualcosa?
Lei sospirò, prendendo posto su una delle poche sedie che circondavano il tavolo del soggiorno. Mathias la osservò accavallare le gambe e poi incurvare lievemente le spalle, piegandosi su se stessa come schiacciata da un segreto di cui avrebbe preferito non essere custode.
- Riguarda Ruben. – disse quindi. – Mathias, che cosa diavolo è successo?
Mathias si sedette accanto a lei. Prendendosi la testa fra le mani, le raccontò di come faticosamente fosse riuscito a rimetterlo finalmente in sesto, e di come fosse andato alla ricerca di un contatto con l’angelo Jeremiah, nella speranza che questo potesse portare a qualcosa di utile per Ruben stesso.
- E invece niente. – ammise disperato, passandosi le mani sugli occhi, - Sarebbe stato meglio se non ci avessi mai provato. Ora Ruben non ha più niente ed è finito chissà dove, e io non so—
- Mathias. – lo interruppe Vivian, poggiandogli una mano sulla spalla e deglutendo forzatamente, - Sappiamo dove si trova Ruben in questo momento.
Mathias spalancò gli occhi, guardandola sgomento.
- Portami da lui. – chiese con un filo voce.
Vivian sospirò, alzandosi in piedi ed aiutandolo a fare lo stesso.
- Vorrei non doverlo fare. – sussurrò, conducendolo fuori dall’appartamento e verso la propria macchina.
*
La prima cosa che pensò nel vederlo sdraiato su quella sedia, nudo e circondato da vampiri che si servivano di lui mordendogli i polsi, i fianchi, le cosce e il collo come si fosse trattato di una botte piena di vino alla quale attingere ogni volta che si svuotava il bicchiere, fu che Geoffrey aveva ragione. Non sarebbe mai stato pronto. Non sarebbe mai stato pronto per un mucchio di cose. Per vivere da solo, per risolvere problemi, per essere veramente un vampiro indipendente. E soprattutto per prendersi cura di Ruben. Non sarebbe mai stato pronto per questo. Per vederlo in queste condizioni, per sopportare le ricadute, e altri mesi, chissà quanti, per provare nuovamente a rimetterlo in sesto solo per poi vederlo crollare ancora, e ancora, e ancora. Non sarebbe mai stato pronto. Il solo pensiero lo nauseava.
Si avvicinò a lui lentamente, quasi lo stesse facendo solo per obbligo. Ruben s’era accorto della sua presenza, ma non osò cercare i suoi occhi coi propri. I vampiri attorno a lui probabilmente intuivano cosa stava succedendo, ma chi era ancora abbastanza lucido da capirlo se ne disinteressava, mentre gli altri erano troppo persi nel modo in cui il sangue di Ruben inebriava i loro sensi per pensare di farsi da parte.
- Ruben. – lo chiamò a bassa voce, sentendo gli occhi riempirsi fastidiosamente di lacrime e scacciandole via con una mano, - Ruben, perché sei qui?
Per molti secondi, Ruben non rispose, né diede segno di volerlo fare. Irrigidì soltanto gli arti, ma quando uno dei vampiri che si stava nutrendo, i denti piantati nella sua caviglia, ringhiò scontento, tornò a rilassarsi sulla sedia, come abbandonato.
- Vai via. – riuscì a sussurrare, privo di forze, - Lasciami in pace.
- Perché? – insistette Mathias, piegandosi accanto a lui mentre, a fatica, Ruben voltava il capo per non doverlo guardare, - Perché fai questo? Cristo, Ruben. Ho capito che stai soffrendo, ma mi sembrava che andasse meglio. E poi fare così non serve a niente. Leonard forse… - si interruppe, girando attorno alla sedia per cercare i suoi occhi ed osservandolo voltare ancora il capo per sfuggire al suo sguardo, - Forse non riavrai indietro Leonard, né nessun altro, ma devi essere felice di tutto quello che hai dato, anche se ora non potrai più. Ammazzarti, o provarci, visto che non puoi, non ti aiuterà in nessun modo! Leonard non—
- Leonard è morto. – lo interruppe Ruben, senza neanche sforzarsi a guardarlo mentre si lasciava scivolare quelle poche parole dalle labbra.
- …cosa? – annaspò Mathias, inorridito. Riuscì a vedere un angolo della bocca di Ruben piegarsi in un sorriso storto, triste e innaturale.
- Quando sono uscito, non avevo intenzione di finire qui di nuovo. Volevo solo vedere Leonard un’ultima volta. Così, sono andato a casa sua. E quando sono arrivato lì, sua madre… - trattiene appena il respiro, gettando il locale in un cupo silenzio all’interno del quale risuona la macabra sinfonia dei versi che i vampiri producono succhiando avidamente il sangue da tutti i morsi dei quali è ricoperto il suo corpo. – Sua madre piangeva guardando vecchie foto. Mi è bastato guardarla, per capire. E poi ho letto nei suoi pensieri, insinuandomi nella sua mente come ero abituato a fare per avvertirla di svegliarsi quando Leonard piangeva nella notte e lei, stanca dopo una giornata particolarmente faticosa, non lo sentiva. – inspirò ed espirò ancora, la voce sempre più sottile e distante. – È morto un mese dopo che me l’hanno tolto. – confessò, cominciando a piangere, - Un incidente.
Mathias crollò in ginocchio accanto a lui, piegandosi fino a poggiare la fronte contro la sua tempia e stringendolo per quanto poteva fra le proprie braccia.
- Mi dispiace, amore mio. – gli sussurrò addosso, - Mi dispiace così tanto…
Ruben si sforzò di tirarsi su sulle braccia, mettendosi a sedere e scacciando i vampiri che ancora bevevano da lui in un gesto spiccio, impedendo loro di avvicinarsi con occhiate taglienti che però promettevano che presto sarebbe stato nuovamente tutto per loro.
Sollevò una mano, accarezzandogli dolcemente una guancia. Mathias si appoggiò esausto al suo palmo tiepido e un po’ sudato, chiudendo gli occhi.
- Voglio che mi lasci qui. – disse, la voce sottile ma decisa.
- No. – rispose Mathias, tornando a guardarlo con gli occhi pieni di lacrime.
- Non è una richiesta. – insistette Ruben, scuotendo il capo. – Non voglio essere salvato. Non un’altra volta. E se pure fosse vero che non posso morire, tu non puoi impedirmi di provarci fino a quando non mi sarò convinto.
- Ruben, ti prego. – lo implorò Mathias, la voce rotta dai singhiozzi, - Ti prego, torna a casa con me. Dammi un’altra possibilità. Per favore. Possiamo farcela insieme.
Ruben sorrise tristemente, sporgendosi a lasciargli sulle labbra il più lieve dei baci.
- Possiamo, forse. Ma io non voglio. – rispose scuotendo il capo, - Io voglio che mi lasci qui, Mathias. Voglio che mi lasci qui e basta. Puoi farlo, per me? Mi ami abbastanza da riuscirci?
Mathias singhiozzò ancora, stringendo Ruben fra le proprie braccia e nascondendo il viso contro la sua spalla. Non ebbe mai bisogno di rispondergli.
*
Trovò stranamente confortante il silenzio nel quale la chiesa era immersa. Si guardò intorno cercando ancora una volta di cogliere negli affreschi che decoravano le pareti segni di quella violenza che Vivian trovava così aberrante. Non gli riuscì. Tutto ciò che riusciva a percepire negli sguardi degli uomini e delle donne le cui vicende di vita erano raffigurate fra un altare votivo e l’altro, era un’immensa tristezza. La stessa di cui Ruben traboccava nel momento in cui aveva deciso di dirgli addio.
Era passato poco meno di un mese.
- Mathias. – lo chiamò debolmente Andrael, avvicinandoglisi alle spalle. La sua voce, pur restando sempre forte e indisponente come la prima volta che l’aveva sentita, recava con sé una nota più malinconica. Senso di colpa, si sarebbe detto. – Mi dispiace enormemente. Non avevo idea che Jeremiah stesse cercando Ruben solo per comunicargli di non ritenerlo più in grado di occuparsi dei bambini. Se l’avessi saputo, non avrei mai—
- Non importa. – si sforzò di sorridergli, voltandosi a guardarlo. – Pensi che potrei restare, per qualche minuto? – chiese quindi, indicando le panchine vuote con un cenno del capo.
- Sicuro. – annuì Andrael, facendosi da parte, - Resta pure quanto vuoi.
Mathias aspettò di vederlo scomparire dietro una enorme statua della Madonna, prima di voltarsi a guardare le panchine e sceglierne una piuttosto riparata per prendere posto. Le mani abbandonate in grembo, guardò l’altare e poi il crocifisso in legno che, dall’alto della volta dell’abside, dominava tutta la chiesa.
Desiderò di potergli chiedere qualcosa. Ma si arrese presto all’evidenza di non avere nulla da dire.
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