Fandom: Originali
Genere: Romantico
Rating: PG13
AVVISI: Girl's love (accennato).
- Adriano e Anastasia sono amici da quasi dieci anni. Fra loro è successo qualcosa che rischia di mandare a repentaglio tutta la loro relazione, ma...
Commento dell'autrice: Non mi piace ._. E' stata la prima cosa che ho pensato quando ho finito di scriverla. Intendiamoci, non è che pensi sia orribile o scritta particolarmente male, però mi rendo conto da sola che è una storia inutile, non vuol dire niente, non ha un perché ç___ç Questo, immagino, anche perché, per via del concorso per il quale è stata creata, dovevo attenermi a certe caratteristiche che me l'hanno un po' bloccata fra un paletto e l'altro. Probabilmente, se fosse stata più breve sarebbe stata anche meno odiosa XD, ma mi servivano almeno cinquemila parole. E, ancora più probabilmente, se ci fossero stati meno "siparietti", intendo, se ci si fosse fermati al dialogo o alla dichiarazione, anche in questo caso, sarebbe stata meno odiosa, ma dovevo metterci dentro tutti e cinque i sensi, in qualche modo dovevo pur fare XD Insomma, poi lascio giudicare voi ù_ù
Nota: Questo racconto è stato scritto per questo concorso (poi annullato) sul forum dell'EFP.
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EXACTLY WHAT I NEED


“Give us all what we need
Give us one more sad sordid story
But in the fiction of the space between
Sometimes a lie is the best thing”
Tracy Chapman – Telling Stories


Quando aprì la porta e vide che era lei, spalancò gli occhi e subito dopo arrossì violentemente. Lei non aveva mai visto arrossire così tanto un uomo adulto. Sorrise con dolcezza, cosa che lo imbarazzò ancora di più.
- Che ci fai qui...? - le chiese, stupito, balbettando un po'.
Lei fece una smorfia.
- La delicatezza non è mai stata il tuo forte...
Lui ripensò al giorno prima, e alla domanda indiscreta – alias, l’eufemismo del secolo – che le aveva fatto subito dopo aver fatto l'amore, Sei venuta?, così, a bruciapelo, e si vergognò al punto da dover abbassare lo sguardo.
- Scusami. - le disse con un filo di voce.
Lei mostrò un sorriso a dir poco trionfante.
- Mi fai entrare? - gli chiese, sollevando un sopracciglio.
Lui tornò a guardarla, come cadendo dalle nuvole.
- Eh...? Ah, sì! Certo, ovvio! Che domande. Dai, entra. – disse, ma rimase immobile.
- Se non ti sposti dalla porta, mi dici come faccio a entrare...?
Questo diede il colpo di grazia al suo autocontrollo. Con uno scatto, si spostò di lato, lasciandole libero l'ingresso, e prese a fissare il pavimento ostinatamente, terrorizzato dalla possibilità di sollevare lo sguardo e trovare i suoi occhi colmi di disapprovazione o disprezzo.
Mentre la ragazza varcava la soglia e lui richiudeva la porta, una donna apparve improvvisamente in corridoio e si guardò intorno.
- Adri, chi è? – chiese, senza riuscire a vedere la ragazza, minuscola dietro l’ampia schiena di suo figlio.
Per tutta risposta, lui si scostò, lasciandole campo libero.
- Oh, Ani! Tesoro, sei tu!
La signora le corse incontro, catturandole le guance fra le mani.
Anastasia rifletté sul fatto che la scoperta della sua malattia aveva riempito di apprensione quella donna come nessun altro. Forse perché intuiva quanto avrebbe sofferto il figlio quando lei non ci sarebbe stata più. Forse perché dopo sette anni ormai s’era abituata alla sua presenza, o chissà, aveva preso a volerle bene. Era una donna talmente affettuosa. In maniera quasi esagerata, a dirla tutta.
- Stai bene? – le chiese, premurosa, guardandola negli occhi.
Lei sorrise gentilmente.
- Sì, non si preoccupi.
- Va bene, andiamo. – disse Adriano nervosamente, prendendola per mano e portandola in camera sua. Da quando aveva sedici anni, e anche ora che ne aveva ventuno, non aveva mai sopportato che sua madre si comportasse con lei con tanta confidenza. Lo imbarazzava.
Dopo che lui si fu richiuso la porta alle spalle, lei si andò a sedere sul suo letto, e lui la imitò, sedendosi al suo fianco. Sorrise del lieve dondolio del letto nel momento in cui lui si accomodò.
Sì, si sentiva decisamente romantica.
- Senti, Ani… - le sussurrò, incerto, - Devo veramente scusarmi per ieri…
Lei sospirò, un po’ seccata dal suo continuo chiedere perdono.
- Ti ho già detto che non hai niente di cui scusarti.
- Sì, invece. Non sono stato abbastanza bravo e tu non sei venuta.
- …da un paio di giorni sei in versione “senza peli sulla lingua”, vedo…
- Perché voglio essere chiaro. Non voglio fraintendimenti, fra noi.
Lei sorrise.
- Non ce ne saranno.
Sorrise anche lui.
- Posso offrirti qualcosa? – le chiese, tornando a rilassarsi.
- Mh, sì. Coca-Cola, ne hai…?
- …come se ti facesse bene. Non vuoi un po’ d’acqua?
- Bevo già abbastanza litri d’acqua al giorno, grazie. Portami solo una Coca, ok?
- Ok. – sbuffò lui, si alzò e uscì dalla stanza, tornando pochi minuti dopo con una lattina ghiacciata per mano.
Anastasia si leccò le labbra – gesto che mandò lui su un altro pianeta e lo confuse tanto che quasi inciampò nella moquette – pregustando il sapore quasi dimenticato: aveva bevuto l’ultima Coca prima che le diagnosticassero la malattia al fegato.
Lui le consegnò la lattina e tornò a sedersi al suo fianco. Cominciarono a bere contemporaneamente. Anastasia si lasciò invadere dalle bollicine corrosive e ribelli e dal gusto zuccherino della bevanda, e dopo due lunghe sorsate, soddisfatta, appoggiò la schiena contro la parete cui era affiancato il letto, e chiuse gli occhi, sorridendo.
Poco dopo, avvertì uno spostamento d’aria attorno a sé. Adriano s’era mosso. Dischiuse gli occhi, curiosa di vedere in che posizione si fosse messo, e lo trovò appoggiato al muro, come lei, col capo rivolto indietro e le palpebre abbassate. Le labbra, semi-aperte e piegate in un leggero sorriso, luccicavano ancora, perché aveva bevuto da poco. Il petto si sollevava e riabbassava lentamente al ritmo del suo respiro.
Le piacque.
Sorrise e allungò una mano, sfiorandogli un braccio con fare un po’ infantile. Lui aprì subito gli occhi, tornando a guardarla.
- Che c’è?
- Niente… - disse lei con un risolino, tutta presa da quella strana euforia melensa, - Eri carino.
Lui arrossì. Le venne voglia di mangiarlo.
Rimasero ancora un po’ in silenzio, mentre Adriano fissava lo sguardo su un non meglio identificato punto sul pavimento a Anastasia, invece, lo faceva vagare ovunque, freneticamente. Finché si posò sulla scrivania, e vide una cosa che non aveva mai visto prima.
Una piccola scatola bianca, aperta – il coperchio giaceva abbandonato pochi centimetri accanto. Allungò il collo, cercando di scorgerne il contenuto. Un album, si sarebbe detto. Riusciva, anche da lontano, a intuire la lucentezza della superficie delle foto. Incuriosita, si alzò in piedi e, prima che lui potesse anche solo capire qualcosa, raggiunse la scrivania, prese in mano il libro e cominciò a sfogliarlo.
- Ma… ma dai… - disse con la voce che le si riempiva di tenerezza man mano che sfiorava le pagine ingiallite, - Non ci posso credere…
Agitato, lui le saltò accanto, agitando le braccia.
- Non pensare male!
- Come potrei pensare male di una cosa simile, Adriano? Sii serio… E’ adorabile.
C’erano tutte le fotografie che ricordava di aver fatto con lui, e tutta una serie di altre che invece non ricordava proprio. Istantanee. Tantissime.
- Sì, però… - si lamentò lui, imbarazzato, - Potrebbe sembrare una cosa ossessiva o che… e invece no…
- Da quando ti conosco, sei sempre stato ossessionato da me. – disse lei distrattamente, mentre continuava a sfogliare l’album, riempiendosi gli occhi della sua adolescenza.
- Adesso vedi di non esagerare, sai…?
Sorrise, andandosi a sedere sul letto per poter continuare la scorsa più comodamente.
Dopo molti minuti di silenzio, chiuse l’album e sollevò lo sguardo verso il ragazzo, ancora in piedi a qualche metro da lei.
- Non avresti potuto farmi una sorpresa più bella. – disse, serena, poggiando il libro accanto a lei.
- Peccato non fosse voluta… - ridacchiò lui sedendosi nuovamente al suo fianco.
Lei scrollò le spalle.
- Fa niente. Sempre di sorpresa si tratta, o no?
Adriano annuì, tornando ad appoggiare la schiena al muro e a chiudere gli occhi.
Poco dopo, la lieve pressione che avvertì sul petto gli annunciò che Anastasia s’era appoggiata contro di lui e l’aveva abbracciato. Senza schiudere le palpebre, commosso da quell’inedito momento di tenerezza – non erano mai stati particolarmente affettuosi in senso fisico, l’uno con l’altra, e sicuramente lei non era tipo da smancerie – la strinse a sua volta, inspirandone a fondo il profumo dolce. Quel dannatissimo Chanel N°5 che lo perseguitava da sempre, e così spesso. Ricordava che, la prima volta che le aveva sentito galleggiare attorno quel profumo, aveva immediatamente pensato fosse il profumo perfetto per lei. Elegante, prepotente, elitario e dolciastro. Anastasia fatta liquido e aroma, praticamente.
- Devo essere sincero, - sentì il bisogno di dire, a rischio di distruggere l’armonia di quell’attimo, - mi aspettavo che, dopo ieri, mi avresti odiato per sempre. O peggio.
Anastasia rise.
- Cosa potrebbe esserci di peggio?
- Non vederti più, è ovvio.
Ridacchiò, stringendoglisi contro.
- Hai pensato che non avrei più voluto incontrarti?
- Almeno mille volte nella notte fra ieri e oggi. Di giorno non ho fatto il conto perché non avevo tempo…
- Scemo, non potrei mai smettere di vederti. Ti conosco… da quanto, una vita circa, e non ho mai potuto…
- Perché grazie a Dio non hai mai voluto…
Sbuffò lievemente.
- Insomma, Adriano, vuoi smetterla di preoccuparti? Per cose deficienti, poi. Stai tranquillo, che il tuo privilegio di godere della mia vista è al sicuro.
Lui rimase in silenzio per un po’, appoggiando il mento fra i suoi capelli.
- Mica tanto. – disse poi, sospirando.
- A parte dopo che sarò morta, intendo, è ovvio.
Un brivido lo attraversò tutto, impietosamente.
- Cristo, Anastasia, puoi smetterla di essere tanto… non so, non trovo un aggettivo…
- Diretta?
- No, non quello… avevo in mente qualcosa di più brutto…
- Oddio…
- Del tipo assolutamente insensibile e cretina.
- Perché? Perché non ho paura di dire le cose come stanno? – chiese lei spalancando gli occhi e scostandosi per osservarlo.
- No, non volevo dire questo… anzi, sì, lo volevo dire. Insomma, che le cose stanno come stanno lo sappiamo tutti, ma vuoi dirmi che bisogno c’è di ripeterlo? E cazzo, porti sfiga, poi…
- Se lo ripeto abbastanza spesso mi fa meno male il pensiero.
La immaginava, una cosa simile. Ciononostante, sentirlo dire proprio da lei – lei, l'incrollabile – lo confuse. E lo spaventò. Semplicemente perché se Anastasia non riusciva a reggere il pensiero se non costringendosi ad accettarlo con rassegnazione, allora lui, debole e vigliacco e disgustoso com'era, be', poteva già tranquillamente dirsi condannato a soffrire in eterno per la sua mancanza.
Davvero, non sopportava sapere che sarebbe morta. Avrebbe preferito non saperlo. Avrebbe preferito entrare in camera sua, un giorno, e trovarla già per terra – o sul letto, o dovunque, non era importante – senza vita. Sarebbe stato più semplice, meno problematico. Quella condanna a penderle sulla testa, quella condanna senza limiti di tempo se non quello dell'impossibilità di essere risolta nei tempi che lui avrebbe trovato giusti – quaranta, cinquant'anni – era dolorosa, troppo.
- Smettila di piangere. – disse lei, dura, pizzicandogli un fianco.
…stava piangendo?
Controllò.
Sì.
- Scusa. – mormorò asciugando le lacrime.
- E non scusarti! Dio…
- Anastasia, 'cazzo dovrei fare?! Eddai, non ti va bene niente! Resto immobile, non penso e non fiato, meglio?
Lei annuì con noncuranza, senza degnarlo di uno sguardo.
Irritato, lui scattò in piedi, lasciandola cadere sul letto, sola.
- Fanculo! – le urlò contro, fissandola con cattiveria.
Lei, attonita, rimase a guardarlo. Non si aspettava qualcosa di simile. Non da lui. Non l'aveva mai presa a parolacce.
- Da quando abbiamo saputo questo fatto della malattia sei diventata insopportabile! Sei tutta un fatalismo, che palle, non ti si può più dire una parola che ti incazzi come se ti si stesse chiamando troia, ti irriti per niente, vaffanculo, allora, non so che altro dirti!
Si interruppe, osservandola.
Lei si alzò in piedi, lentamente, educatamente, misurando i gesti. Gli si avvicinò con grazia, reggendo la lunga gonna con una mano per evitare di inciampare.
A lui sembrò bella come una principessa. Almeno fino a quando non lo colpì con un gancio destro di ragguardevole potenza.
Adriano cadde a terra. Per la sorpresa, sì, ma soprattutto per il dannato dolore. Doveva avergli spaccato qualcosa.
- Cos'era quello, un rimprovero? – chiese lei, sguardo di ghiaccio, mentre, impietosamente, lo scrutava dall'alto, come fosse stato una merda o qualcosa di ancora più schifoso, - No, perché se lo era non era proprio il caso.
- Anastasia…
- E zitto, stronzo. "Da quando abbiamo saputo della malattia"? Da quando io ho saputo della malattia, vorrai dire! Da quando io ho a che fare giorno e notte con svenimenti, vomito, insonnia e merdate simili! Da quando io so che creperò. Questo vorrai dire.
Abbassò lo sguardo, sentendosi in colpa. Sì, era vero che anche lui stava male perché l'avrebbe perduta eccetera, ma cazzo. Aveva ragione. Alla fine, lei sarebbe morta. Lui no. Lei avrebbe perduto qualsiasi possibilità di rivedere le persone che amava. Lui, magari, dopo un paio d’anni si sarebbe rifatto una vita, per quanto in quel momento il pensiero gli sembrasse assurdo.
E quindi, anche se nella sua testa avrebbe potuto trovare mille modi per risponderle, per dirle di non fare tanto l'egocentrica perché la sofferenza non era una sua esclusiva, rimase zitto. Perché era giusto così.
- Non posso avere a che fare anche coi tuoi capricci, Adriano.
E qui si prese una pausa, forse di riflessione.
- I miei già mi bastano. – mormorò in un soffio, tornando a sedersi sul letto.
Pensava che quando avrebbe risollevato lo sguardo, l'avrebbe vista in lacrime, almeno. Invece no. La guardò, e sul volto c'era ancora lo stesso sguardo fiero e battagliero di quando gli aveva dato un pugno in pieno viso, poco prima.
E in quel momento realizzò che era diventata l'espressione standard di Anastasia. Che non le aveva visto addosso nessun'altra espressione in… molto tempo. Che la sua ragazza – ok, non lo era, ma va be' – stava diventando una specie di bambolotto privo di espressioni, e senza che lui potesse farci niente.
Si sollevò, raggiungendola dov'era e sedendosi al suo fianco.
- Piangi. – le ordinò, risoluto, costringendola a guardarlo.
- Eh?
- Da quanto non piangi?
Lei liberò il viso dalla sua stretta, scostando la sua mano con uno schiaffo neanche tanto lieve.
- In realtà, ho pianto molto di recente.
- Non sembra.
- Invece è così. Chiedi a Carmen, se non credi a me.
- Quindi, non so, una tua coinquilina qualsiasi può farti piangere e io no?
- 'Cazzo dici, non mi ha fatta piangere lei.
- …Alessia?
- Eh.
Che palle. Odiava quando Anastasia mostrava una debolezza nei confronti di quella dannata ragazza. Odiava soprattutto il fatto che la conoscesse da poco meno di un anno e già fosse diventata il centro attorno al quale gravitavano tutte le sue emozioni, mentre lui, che c’era da anni, che c’era da sempre, lui era solo una merdosissima ruota di scorta.
Avrebbe voluto… aveva sempre desiderato essere lui la sua unica debolezza.
- Quindi Alessia può farti piangere e io no?
- Be'… sì…
- Fanculo!
- E smettila di prendermi a parolacce, ma che hai?
- Che ho, lo sai. Anche bene. Non è questione del pianto in sé, vorrei solo che ti sciogliessi un po’, che non fossi così schifosamente contenuta. Sei come una principessa che ha bisogno di mantenere la sua maschera rigida perché se non lo facesse perderebbe il controllo sui suoi sudditi.
- Quanto odio questi ragionamenti del cazzo, Dio…
- Hai capito il concetto. Sciogliti. Anche se stai morendo, adesso sei viva. Quindi non c'è nessun bisogno che cominci a fare il cadavere.
La frase la colpì, probabilmente più di quanto avesse dovuto. Non perché fosse qualcosa cui non aveva mai pensato, perché era ovvio che ci avesse pensato, ma… boh, magari sentirselo dire da lui, o sentirlo solo dire, in generale.
Sospirò.
Era comunque irritata dal comportamento di Adriano.
- Vado a casa. – sentenziò tranquilla, alzandosi in piedi.
- No! – disse lui scattando in piedi e afferrandola per la maglietta.
- Adriano, si rovina! Se si rovina ti ammazzo!
Lui la lasciò immediatamente andare.
- Non andare… cioè, dai, mi dispiace. Sono stato impertinente.
- Non hai due anni, non sei stato impertinente. Sei stato inopportuno. È ben più grave.
Decise di tacere, mentre aspettava, come sempre, che fosse lei a stabilire cosa fare di loro due.
Alla fine, decise di restare, e tornare a sedersi sul letto. Grazie a Dio.
- Scusa. – disse ancora lui, per riempire il silenzio e fare in modo che non risuonasse solo della rabbia di Anastasia.
- Giuro che se ti scusi ancora ti picchio a sangue. – mormorò lei, faticosamente, tra i denti.
E poi, d’improvviso, cominciò ad accusare i soliti malesseri e svenne. Miracolosamente senza vomitare.
In un primo momento, lui riuscì a pensare solo “che palle”. Poi, quando realizzò quanto l’abitudine a quelle scene l’avesse reso insensibile, perfino davanti alla donna che amava in palese difficoltà, pensò che forse non aveva avuto alcun diritto di rimproverare Anastasia per la sua mancanza di emozioni umane. Provò orrore per sé stesso.
- Ani… - la chiamò debolmente dandole qualche schiaffetto sulle guance.
Lei riprese immediatamente conoscenza, mugugnando stordita.
- Ani, stai bene…?
- Mh… le pillole… - mormorò confusa reggendosi la testa fra le mani.
- Non le hai prese…? – chiese lui, sconvolto, aiutandola a mettersi seduta.
- Prendile! – disse lei perentoria chiudendo gli occhi e appoggiandosi al muro.
- Sì, sì! – urlò lui, allarmato dal suo tono e sfrecciando verso l’unico posto in cui avrebbero potuto essere – la borsa che aveva lasciato sulla poltrona accanto alla scrivania. Confuso com’era, non riuscì neanche a trovare il portapillole.
- Anastasia, ma dov’è…?
Lei si accomodò distesa sul letto, gli occhi chiusi e i lineamenti tesi e immobili.
- E’ lì dentro. È quello a fiori. Bianco a fiori. Rosa.
Rovistò ancora. Nulla.
- Non lo trovo! Non è che l’hai dimenticato a casa…?
Lei fece una smorfia irritata e, con un’espressione che sembrava racchiudere in sé tutta la stanchezza del mondo, si sollevò lentamente seduta, poi in piedi e raggiunse la borsa, cominciando a sua volta a cercare il contenitore.
Inutile dire che lo trovò a primo sguardo e inutile dire anche che lui si sentì come se avesse fatto meglio a morire tanti, tanti anni prima.
- Scusa… - mormorò, contrito, mentre l’aiutava a raggiungere il letto.
Quando si fu seduta e lievemente ripresa, come promesso lei gli tirò una sberla. Non molto potente, ma abbastanza da confonderlo.
- Non devi mai più dirmi che ti scusi di qualcosa. – disse lei, ingerendo le pillole, - Quando ne senti il bisogno, ricaccialo da dovunque sia venuto. Fammi questo favore personale, ok? Non scusarti più.
Lui annuì, guardando per terra. Lei continuò a tenere gli occhi chiusi fino a quando non si sentì meglio.
*

- Va bene, allora adesso vado… - disse, una ventina di minuti dopo, alzandosi in piedi e afferrando la borsa, apparentemente senza alcuna difficoltà.
- Ma che dici?! – gridò lui afferrandola per un braccio, - Sei svenuta poco fa!
- E questo per te vuol dire che devo rimanere qua per la notte?
- No… - bisbigliò lui, sentendosi improvvisamente attaccato, - Solo che magari posso accompagnarti a casa… prendiamo la macchina di mia madre, ok?
Lei scrollò le spalle.
- E’ uguale. – disse, neutra, dirigendosi verso la porta.
- Anastasia! – la chiamò lui, ferito dalla sua freddezza, - Ce l’hai con me?
Lei si bloccò d’improvviso, guardando la porta.
- Sì. – rispose, glaciale, poco dopo.
Lui si allarmò.
- Scu… - cominciò a dire, ma lo sguardo furioso che Anastasia gli lanciò, voltandosi di scatto, lo interruppe. – Voglio dire… perché ce l’hai con me?
Lei ponderò qualche istante. Poi, gettò la borsa per terra, gli andò incontro e lo spinse sul letto, facendolo cadere seduto e sedendosi a cavalcioni su di lui, mandandolo in una dimensione indefinita fra il paradiso e l’inferno.
- Perché sei un passivo. – disse, stringendo la presa sulle sue spalle e facendogli male, - Perché non hai capito un cazzo del motivo per cui sono venuta e hai fatto di tutto per irritarmi. Perché nonostante tutto non hai idea di quello che voglio da te, o forse semplicemente non puoi darmelo. Ma siccome è da te che io lo voglio, odio che tu stia fermo, sia che tu non sappia cosa fare. sia che tu lo sappia e finga di non saperlo.
Disorientato, non poté che fissarla.
- E dì qualcosa, cazzo! – gridò lei, esasperata, strattonandolo.
- S-… Anastasia, non so che dire…
- Ma almeno hai capito cosa sto cercando di dire io?!
- …devo essere sincero?
- Che cazzo di domanda è?
- No, Anastasia, non ho capito. Sarebbe meglio che me lo dicessi chiaramente.
Lei sbuffò e guardò altrove, fremendo di rabbia.
- Anastasia…
- E lasciami in pace, sto pensando.
- …a cosa…?
- Se devo mettere i sottotitoli o meno.
- …
- Va bene. Senti. Però mi devi ascoltare bene, perché non ripeterò. Ok?
- Mh.
- Ieri… - lui fremette, ma lei lo ignorò, - non è stato tanto male. Tu ti sei convinto di aver fallito chissà che solo perché sei venuto prima di me, ma non è così. A me è piaciuto. Almeno fino a quando non hai deciso di fermarti. E io lo volevo. Cioè, non è stato come una passione improvvisa e sfrenata che si è esaurita in un pomeriggio. Io volevo fare l’amore con te. E lo voglio ancora.
Scioccato, lui la guardò negli occhi, alla ricerca di una conferma. Ma il suo sguardo limpido non era mai stato completamente sincero, e lui lo trovò uguale a sempre.
- Mi prendi in giro? – chiese, titubante, sperando non s’infuriasse troppo.
- No che non ti prendo in giro, coglione. Cerca di non farmi incazzare di nuovo.
- Cioè, tu mi stai dicendo in poche parole che vuoi diventare la mia ragazza?
Lei si ritrasse leggermente e spalancò gli occhi, come stupita dalla domanda.
- Be’, adesso… non è che stia proponendo un fidanzamento, non farla tanto grave, ho solo detto che…
- Sì, lo so cos’hai detto. – annuì, guardandola deciso.
- …in questo caso, - disse lei sospirando, - sì, penso si possa dire anche così. Mi piacerebbe diventare la tua ragazza.
- E questo è perché Alessia se n’è andata di casa e non la vedi più e ti senti sola?
- Che t’importa del perché, scusa? È quello che voglio. Non ti basta?
In fondo sì, gli bastava. Avrebbe potuto pretendere di avere di più, avrebbe potuto pretendere il suo amore e la sua eterna devozione, avrebbe potuto pretendere fedeltà di atti e di pensieri, sì, ma in fondo gli bastava essere la sua ruota di scorta, il chiodo che l’avrebbe aiutata a scacciare la fissazione per Alessia.
La baciò a fior di labbra.
Lei gli crollò fra le braccia, esausta.
- Ho parlato troppo… - gli disse, socchiudendo gli occhi e lasciandosi cullare dal ritmo del suo respiro, - Sono stanca.
- Tu? – disse lui con un risolino, - Stanca di parlare?
- Mh…
La strinse come la più fragile delle creature. La fragile creatura che l’aveva preso a parolacce e cazzotti per tutto il pomeriggio, ma continuava a rimanere fragile fra le sue dita. Non c’era nulla che Anastasia avrebbe potuto fare o dire per sembrare più forte, quando lui la stringeva così.
E lei si stupiva da sola di riuscire a trovare tanta protezione fra le braccia di Adriano, Adriano, praticamente l’uomo più debole che avesse mai conosciuto, che non era riuscito a staccarsi da lei neanche quando lei gli aveva detto chiaro e tondo che non lo amava e mai l’avrebbe fatto, e che aveva continuato ad adorarla per tutto questo tempo, senza chiedere niente…
Una specie di santo martire, o un Buddha.
Ecco perché si sentiva così protetta, forse. C’era qualcosa di spirituale, quasi mistico, in Adriano, che lo metteva un gradino più in alto rispetto a tutte le altre creature terrene, rendendolo padrone di una specie di Nirvana in cui tutto sembrava molto meno doloroso e più soffice.
Sollevò il capo per tornare a guardarlo negli occhi. Gli sorrise, e lui fece lo stesso.
- Che clima romantico… - commentò ironicamente, - Adesso come faccio a chiederti quello che avevo in mente fin dall’inizio?
- Eh? – chiese lui, cadendo dalle nuvole, - Non me l’hai già detto quello che volevi dirmi?
- Be’, sì, ma tu non l’hai recepito, perché quando io te l’ho detto tu hai deviato la conversazione sul mettersi insieme o meno, e non era quello che volevo chiederti…
- Ah. Sei un mistero continuo, Anastasia, non riesco a trovarti una soluzione… - ridacchiò lui, un po’ disorientato.
- Sì, ecco, vedi, se cambiamo argomento di nuovo non ci ritroviamo più. Adriano… - gli mormorò in un orecchio, senza potersi impedire di arrossire, - …non so se hai afferrato che io ti voglio
Poté quasi sentire il suo cervello fare crack.
- Eh?
- Adriano!
- S-Sì… io… oddio…
- Va bene, va bene… - disse, delusa, sciogliendo l’abbraccio e alzandosi in piedi, - Ho capito, non sei pronto…
- Ferma, ferma! – disse lui, tirandola repentinamente per la maglietta e guadagnando in cambio un pizzicotto, - …che pronto e pronto, Anastasia! Che tu mi chiedessi questo è stato, tipo, il sogno di tutta la mia vita, non ti azzardare ad andartene!
Divertita, lo fissò, mettendo una mano su un fianco.
- Quindi?
- Quindi dammi un attimo il tempo di riprendermi dalla cosa… ok, ripreso, vieni qui. – disse ridendo e attirandola a sé.
Quella volta fu più lungo. Quanto fosse durato non avrebbe saputo dirlo, perché lui era riuscito a farle perdere il conto quasi subito, ma si era sicuramente protratto oltre i terribili due minuti della prima volta, e in qualche modo era anche riuscito ad essere molto più soddisfacente.
*

Poi cominciarono a comportarsi da fidanzati, e sorprendentemente la cosa non la infastidì. Si avvicinarono quanto mai prima: uscivano insieme, si facevano regalini idioti e regalini bellissimi, lui la invitava a cena fuori, lei lo invitava a salire a casa per un caffè e magari anche a restare per la notte. Camera di Anastasia stava pericolosamente avvicinandosi a diventare camera di Anastasia e Adriano, anche perché lui spesso si fermava a dormire lì.
E una mattina, mentre, dopo non essere riuscita a chiudere occhio per tutta la notte, come al solito, si cullava nel tepore delle lenzuola, riposando gli occhi stanchi sulla calma figura di Adriano profondamente addormentato, improvvisamente capì che lui non aveva sbagliato, quando aveva intuito che lei desiderava essere la sua ragazza. Era esattamente quello che voleva. Essere sua, tutta sua, e che lui fosse suo e solo suo, ma sul serio, e non soltanto perché dieci anni prima aveva deciso di essere innamorato di lei e da quel momento non l’aveva più dimenticato. Voleva essere la sua ragazza, voleva un rapporto completo, voleva le tenerezze, voleva il sesso, voleva poter passare le giornate a pensare a lui e solo a lui come una qualsiasi ragazzina innamorata e magari sognare di sposarlo, un giorno. Era tutto quello che voleva. Ed era tutto quello che lui le avrebbe dato volentieri, se solo lei si fosse premurata di schioccare le dita qualche anno prima.
Davvero, come aveva potuto essere così cieca?
Infondo, non era neanche così importante che non lo amasse nel vero senso della parola. Poteva continuare ad essere innamorata di Alessia, poteva continuare a struggersi intimamente perché probabilmente non l’avrebbe più vista, e non l’avrebbe più baciata, e sarebbe morta senza dirle un cazzo di quello che pensava veramente, ma Adriano, lui sarebbe stato lì per consolarla. E lei sarebbe stata lì per farlo felice. Era amore anche questo, a suo modo.
Sollevò una mano e gli sfiorò una guancia. Lui si svegliò.
- Non volevo svegliarti… - mormorò in un soffio, sorridendo.
- Mh… non preoccuparti, prima o poi avrei dovuto farlo comunque. – ridacchiò, - Che ore sono?
Lei scrollò lievemente le spalle.
- Non lo so, - disse, - e sinceramente in questo momento non mi va di voltarmi per vederlo…
Lui sorrise, si sollevò sulle braccia e si sporse oltre il suo corpo, solo un po’, giusto per vedere che ore fossero, per poi tornare a sdraiarsi al suo fianco.
- E’ ancora presto… - la rassicurò, - possiamo stare qui ancora un po’.
Lei gli si strinse contro.
E nonostante fosse un pensiero fin troppo romantico, non poté esimersi dall’ammettere che avrebbe voluto quell’”un po’” durasse per sempre.
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