Genere: Introspettivo, Drammatico, Romantico.
Pairing: Tadashi/Hiro.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Lime, Slash, Incest, Underage, Prequel.
- Hiro ha tre anni quando i suoi genitori muoiono, e suo fratello Tadashi, che invece ne ha otto, prende in carico sulle proprie spalle la missione di proteggerlo. Ma Hiro è un bambino difficile da proteggere, perché andrebbe protetto soprattutto da se stesso. E Tadashi non sembra in grado di farlo.
Note: Scritta per la seconda settimana del COW-T #5, Missione 2, il cui prompt era "qualcosa di nuovo". Niente di più nuovo di un nuovo fandom, e visto che un mesetto fa sono uscita dal cinema piangendo tutte le mie lacrime e votando la mia vita all'Hidashi/Hamadacest mi è parso opportuno poppare la ciliegia sia di Hiro che di Big Hero 6 con un simpatico prequel in cui qualcuno muore e quel qualcuno grazie a Dio non è Tadashi, anche perché io nclpf.
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EVERY LITTLE THING YOU DIE TO HIDE

Del funerale dei loro genitori Tadashi ha rimosso ogni cosa. Sa che era abbastanza grande per ricordare, e d'altronde ricorda perfettamente il prima e il dopo, la visita in ospedale, la zia che gli chiede di restare con Hiro mentre lei si allontana per qualche minuto, e poi il trasferimento, una casa nuova in cui ambientarsi, una stanza da dividere in due, Hiro che quando gli chiedevano "come stai, povero tesoro? Ti mancano mamma e papà?" immancabilmente rispondeva "sto bene, io. Sono grande, io", come aggrappandosi all'idea di essere più adulto di quanto in realtà non fosse, perché gli adulti non piangono, quella è una cosa da bambini, mentre ogni notte, sdraiato a letto, Tadashi lo sentiva sciogliersi in lacrime, i singhiozzi che lo scuotevano tutto, quel corpo piccolissimo che tremava senza sosta sotto le coperte, generando un'eco che lo chiamava, lo costringeva ad alzarsi, a raggiungerlo di là, a sdraiarsi con lui, stringerlo forte, dirgli "va bene, Hiro, va bene, piangi quanto vuoi, non preoccuparti, io sono qui", ed Hiro che gli si aggrappava forte addosso, perché non ci credeva.
Queste cose le ricorda. Il funerale no. Muoversi dietro le bare. Osservarle mentre scompaiono sottoterra. Ascoltare le parole del prete senza sentirle. Di tutto questo, Tadashi non ricorda niente.
A parte una cosa. Una cosa soltanto. Una vecchia zia, tutta vestita di nero, che gli si avvicina. Accarezza una guancia sia a lui che ad Hiro, e poi si rivolge esclusivamente a lui, guardandolo con occhi lucidi da dietro gli occhiali spessi. "Adesso tocca a te prenderti cura di tuo fratello, Tadashi. Proteggilo sempre."
Non è passato un giorno, da allora, che Tadashi non abbia vissuto seguendo sempre questa regola.
*
Hiro ha dieci anni e parla pochissimo, parla pochissimo ed è più intelligente di quanto gli converrebbe essere, più intelligente di quanto sarebbe salutare che fosse.
Che suo fratello fosse un genio, Tadashi l’ha capito presto, prima che lo capisse chiunque altro, quella volta che lui stava studiando geometria, perdendo la testa dietro una serie di problemi sui solidi composti, e suo fratello, sei anni, si è arrampicato sulla sedia accanto alla sua, tutto capelli e ingolfato in un’enorme felpa di pile con un orso ridicolo stampato sul petto, e dopo aver guardato la figura per qualche secondo era stato in grado di scomporla in tutti i pezzi che la componevano. Divertito dalla sua sicurezza e dalla prospettiva di giocare un po’ con lui, Tadashi gli aveva spiegato il concetto di volume nel modo più semplice a cui potesse pensare e poi gli aveva chiesto, secondo lui, come avrebbe potuto calcolarlo.
Ricorda ancora come ha afferrato suo fratello da sotto le ascelle dopo avergli sentito dare la risposta giusta pochi istanti dopo, per trascinarlo giù per le scale. Sua zia Cass stava dietro al bancone, intenta a riempire una confezione da asporto di ciambelle glassate, e l’aveva guardato come fosse impazzito mentre sollevava Hiro verso l’alto, quasi schiacciandoglielo contro al viso.
“Mio fratello deve andare al liceo!” aveva detto, sconvolto.
Sua zia aveva inarcato un sopracciglio. “Tadashi, tesoro, Hiro deve ancora finire le elementari.”
Quattro anni dopo, Hiro frequenta il liceo, ed ogni mattina lui e Tadashi si svegliano insieme, fanno colazione insieme, escono insieme e vanno a piedi insieme alla stessa scuola, e non passa giorno senza che Tadashi non si senta in colpa per averlo suggerito per primo. Perché Hiro è intelligente, troppo intelligente, intelligentissimo, ma è un bambino di dieci anni, ed è circondato da ragazzini che lo odiano per il solo fatto che esiste ed è migliore di loro.
L’alternativa – seguire il percorso di tutti gli altri bambini, venire promosso secondo l’iter usuale, perdere anni ad annoiarsi dietro un banco in fondo alla classe mentre i compagni arrancavano per immagazzinare concetti che lui si era già lasciato alle spalle anni prima – forse non sarebbe stata tanto migliore, ma probabilmente sarebbe stata più sicura.
Hiro non è un bambino facile, essere intelligente non è abbastanza, lui sa di esserselo, e se ne approfitta. Sa di esserlo, ma è troppo piccolo per essere in grado di gestire questa consapevolezza. Non comprende i compagni di classe, che gli sembrano così stupidi da risultare fastidiosi, e Tadashi ha provato cento volte a spiegargli che non dovrebbe trattarli con sufficienza, non dovrebbe essere infastidito dalle loro domande, dalla loro curiosità, perché sono solo ragazzi, ragazzi come lui, Tadashi, perché se loro sono stupidi, allora Tadashi dev’essere stupido alla stessa maniera.
Quando insiste su questo argomento, Hiro lo guarda con uno sconcerto che non riesce in alcun modo a dissimulare, e lo rimprovera. “Ma cosa dici, Tadashi?” sbotta, “Tu sei molto, molto, molto meglio di loro!”, e quando Tadashi chiede perché Hiro semplicemente scrolla le spalle. “Perché sei mio fratello,” dice. Questa spiegazione sembra bastargli, anche se non dovrebbe.
Non è che Hiro si comporti in modo antipatico, con i suoi compagni di classe. Non è neanche simpatico, però. Se ne sta sulle sue, non parla quasi mai con nessuno, ogni tanto, durante le interrogazioni alla lavagna, sbuffa così forte da far voltare tutti verso di lui, ed anche se si scusa sottovoce, ed anche se guarda in basso e finge di non aver emesso un fiato, il danno ormai è fatto. E il danno ha un’eco che lo segue. Per i corridoi della scuola, nei bisbigli dei ragazzi, negli spintoni contro gli armadietti, nelle risate di quelli che lo chiamano nerd.
Hiro ha dieci anni e parla pochissimo, quasi mai, anzi, e Tadashi non può seguirlo ovunque, non può essere sempre lì per lanciare occhiate di fuoco ai tredicenni che gli si avvicinano minacciosi, che lo seguono in bagno e spingono gli armadietti dietro la porta della cabina per impedirgli di uscire fino alla fine delle lezioni. Ogni tanto ci riesce, e deve tirare fuori più inventiva di quanta in realtà non ne possegga per trovare una scusa convincente da rifilargli, per convincerlo che no, non lo stava davvero seguendo, si trovava solo a passare di lì per caso, e non è che volesse proteggerlo, lo sa, lo sa, lo sa che Hiro è grande, ormai, è solo che in quel gruppo di ragazzi ce n’era uno che gli stava antipatico da un po’, e voleva mettergli paura. Ed anche quando ci riesce, ogni tanto Hiro lo guarda, inarca un sopracciglio, stira sulle labbra un sorriso divertito, arricciando la bocca solo a un angolo, e la sua intera espressione sembra dirgli “Tadashi, ma sul serio, mi credi così stupido?”. Però non dice mai niente. Condividono il segreto, e Tadashi può continuare a proteggerlo fingendo di non farlo, e Hiro può continuare a farsi proteggere fingendo di non saperlo.
Hiro ha dieci anni, parla pochissimo, quasi mai, ma sa sempre come fargli capire che vuole qualcosa, anche quando non chiede esplicitamente. Ha tutto un vocabolario silenzioso che si riduce ai gesti, un modo di piegare le labbra, aggrottare le sopracciglia, lanciargli occhiate distratte, che Tadashi recepisce come segnali telegrafici. Sguardi invece di punti, sorrisi minuscoli invece di linee. Ha dovuto impararla presto, Tadashi, questa lingua muta, perché era l’unica che Hiro parlasse da piccolo. Come quando piangeva, la notte, pensando a mamma e papà. Quando non li aveva ancora persi da troppo tempo. Quando poteva ancora ricordarne i volti.
Stringerlo forte mentre piangeva, così piccino nel letto che zia Cass aveva preparato per lui, aspettare che si addormentasse fra le sue braccia prima di tornare nel proprio letto dall’altro lato della stanza, era andato bene finché Hiro non aveva cominciato ad aspettarselo. A restare seduto sul letto, le spalle appoggiata al cuscino, fissandolo astioso, gli occhi già pieni di lacrime, perché Tadashi non sembrava intenzionato a muoversi.
“Non posso venire lì ogni sera, Hiro,” aveva cercato di spiegargli una sera.
Hiro aveva aggrottato le sopracciglia.
“Sono passati già quasi due anni…”
Hiro aveva piegato le labbra in un broncio carico di disappunto.
Aveva cinque anni e un buco nero dentro, che si riempiva solo con le lacrime piante fra le braccia di suo fratello.
Tadashi aveva insistito. (“Non puoi sempre dargliela vinta, Tadashi,” aveva sospirato una sera zia Cass offrendogli una cioccolata calda al bancone mentre Hiro faceva un pisolino al piano di sopra, “Si affida a te per tutto. Non va bene.” “Certo che va bene,” aveva risposto lui, infastidito, “Sono suo fratello. Io devo proteggerlo.” “Dalla tristezza che ha dentro non puoi proteggerlo, tesoro,” aveva sorriso la zia, gli occhi grandi e bellissimi annebbiati dalle lacrime, “Può combatterla solo da sé.”)
(‘Ma è così piccolo’, pensava Tadashi. ‘È così piccolo. E se non mi prendo io cura di lui, chi lo farà?’)
(Forse Baymax esisteva già allora. Non un progetto, non un’idea. Un concetto. Far star bene suo fratello.)
Hiro era rimasto sulle sue posizioni per circa una settimana. Ogni sera, quando Tadashi entrava in camera per andare a dormire, lui dal letto lo fissava risentito, certo che guardarlo in quel modo avrebbe sortito il solito effetto, che Tadashi si sarebbe ammorbidito, insomma, che sarebbe tornato da lui, ma stringendo i denti, pensando alle parole della zia, “Si affida a te per tutto, Tadashi, non va bene”, Tadashi era riuscito a mantenere le distanze.
Fin quando una sera non era stato Hiro ad accorciarle.
Aveva sentito prima il fruscio delle lenzuola. Poi il suono soffice e ovattato dei suoi piedi che poggiavano a terra. I passi piccoli e veloci, faceva freddo e lui aveva addosso solo un pigiama leggero, e in pochi istanti gli aveva toccato una spalla, e Tadashi si era sentito diventare di gesso.
“Hiro?” l’aveva chiamato, voltandosi a guardarlo nel buio, “Che succede?”
“Voglio piangere,” gli aveva risposto lui, la voce già rotta dai singhiozzi. Stava male al punto da essere incapace di mentire. “Posso dormire con te?”
“Hiro…” aveva sospirato Tadashi, il cuore stretto in una morsa, lo stomaco in subbuglio, “Hiro, stai già piangendo.”
Hiro aveva sollevato una gamba, puntando il ginocchio sul materasso. “Posso dormire con te?” aveva ripetuto.
In silenzio, Tadashi aveva scostato le coperte. Hiro era scivolato al suo fianco, stringendosi a lui, nascondendo il volto contro il suo petto. Aveva pianto a lungo, mordendosi il labbro inferiore per non fare troppo rumore, perché era capitato, ogni tanto, che zia Cass lo sentisse piangere e venisse a controllare come stava, solo che tutte le altre volte aveva trovato Tadashi seduto sul letto al suo fianco, intento a consolarlo, e l’idea di farle vedere questo, invece, di farle vedere i suoi nipoti avvinghiati stretti sotto il piumone, le gambe intrecciate, avvolti nel buio più assoluto, per qualche motivo non sembrava altrettanto saggia.
Tadashi aveva passato ore ad accarezzargli i capelli. Aveva ascoltato i suoi singhiozzi farsi più deboli, poi sparire del tutto. L’aveva ascoltato respirare tranquillamente per qualche secondo.
“Va meglio, adesso?” gli aveva chiesto.
Spaventato dalla possibilità di essere mandato via solo per aver detto sì, invece di rispondere Hiro si era stretto a lui con maggiore convinzione, chiudendo le mani attorno alla sua maglietta.
“Hiro…” Tadashi aveva sospirato, stringendolo forte per calmarlo, “Puoi restare. Okay? Ma abbiamo bisogno di un po’ di regole. Perché…” aveva cercato una ragione. Per qualche istante, cercando di ricordare le parole di sua zia, ci aveva davvero provato. Aveva dovuto rinunciare. “Perché tu non puoi fare così, Hiro,” aveva buttato lì alla fine, la voce tremante, “Stai diventando grande, e—”
“Vado via prima che la zia si svegli,” l’aveva interrotto Hiro, precedendolo. Tadashi l’aveva guardato, trattenendo il respiro. “Va bene?”
Avrebbe dovuto proteggerlo. Avrebbe dovuto capire che Hiro non aveva bisogno di essere protetto dal dolore, ma da se stesso.
La possibilità di dire no non l’aveva mai nemmeno sfiorato.
“Va bene,” gli aveva detto, “Regola numero uno, torni nel tuo letto prima che la zia si svegli.”
Hiro adesso ha dieci anni, e si ferma a dormire sempre più a lungo. Quella che all’inizio era una regola è diventata una consuetudine portata avanti per quieto vivere, poi un suggerimento che si rifiutava di ascoltare. Ogni sera, dopo aver spento la luce, Hiro aspetta cinque minuti e poi si alza dal letto. Attraversa la stanza veloce veloce, solleva le coperte e si infila nel letto di Tadashi. Si rifugia contro il suo petto, quando può, e quando Tadashi è voltato gli circonda la vita con le braccia, preme forte il faccino caldo contro la sua schiena, e Tadashi si gira, ubbidiente, e lo stringe a sé, pensando che deve proprio, deve proprio, deve proprio rimetterlo nel suo letto, ma non lo fa mai. Resta sveglio tutta la notte ad accarezzare il suo profilo, gli zigomi alti, quel ricciolo di naso, resta sveglio e guarda la finestra, osserva la luce del sole rischiarare il cielo, il profilo di suo fratello, e si pietrifica nella posizione in cui lo trova l’alba quando sente sua zia cominciare a muoversi nella stanza accanto, svegliarsi, sbadigliare, attraversare il corridoio per andare in bagno. Vive nel terrore che un giorno possa aprire la porta e vederli. Si morde le labbra a sangue mentre aspetta di sentirla scendere al piano di sotto, e solo quando lo fa riesce a rilassarsi, sciogliere i muscoli, espirare. E pensa, se entrasse, come mi giustificherei? E poi pensa, ma perché dovrei farlo? Cosa sto facendo di tanto sbagliato? Hiro è mio fratello. È mio compito proteggerlo.
Il problema è che, per la maggior parte del tempo, non gli sembra di starlo proteggendo affatto. E si rende conto che gli sembrerebbe di farlo solo allontanandolo da sé. E non è tanto il fatto, ma l’idea, quello che vuol dire, a spaventarlo.
*
Hiro ha undici anni, e parla solo con lui. Anche con zia Cass, alle volte, ma non sempre, perché il suo nome è quello che più facilmente scorre sulle labbra di Tadashi quando prova a convincerlo a tornare nel proprio letto, o a non entrare proprio nel suo, ed ogni tanto, solo ogni tanto, lui la odia per questo. Tadashi può leggerglielo negli occhi. Hiro lo guarda e, anche se non lo dice ad alta voce, perché ha paura dei suoi desideri, perché si vergogna, perché si sente in colpa, sta pensando che sarebbe meglio che zia Cass non ci fosse per niente, che fossero solo lui e Tadashi, tutto il tempo, perché sarebbe più facile, sarebbe più bello, e lui sarebbe più libero, anzi, lo sarebbero entrambi. Ed ogni volta che gli legge negli occhi tutto quest’odio il cuore di Tadashi batte fortissimo e il sangue gli romba nelle orecchie, perché è colpa sua, è colpa sua se Hiro è così infastidito dalla presenza della zia, e prova a dirgli “Hiro, sai, non devi avercela con lei, non è lei il problema, siamo noi che”, ma Hiro non lo lascia mai finire, perché non vuole proprio sentirlo parlare. Volta lo sguardo e gli dice “io voglio bene alla zia”, e quando lo dice le sue sopracciglia si inarcano verso il basso, e Tadashi sa che è vero, non sta mentendo, ed è triste per averla odiata prima, anche se solo per un istante, e la sua mente si pacifica mentre pensa che forse è vero, sì, lui ha rovinato suo fratello, ma forse può anche rimetterlo a posto.
Hiro ha undici anni e il sorriso più triste del mondo, e il sorriso più bello del mondo. Potrebbe diplomarsi l’anno prossimo, ma non lo farà. Aspetterà l’anno successivo, perché vuole diplomarsi assieme a Tadashi. Tadashi ne è felice. “Così poi potremo andare all’università insieme,” offre, scherzando solo a metà. Hiro continua a sorridere ma guarda altrove. “Vedremo…” dice vago. Hiro ha undici anni e non ne può già più della scuola. Questo posto solitario, questo posto aspro in cui nessuno che non sia un professore ha mai una parola d’incoraggiamento per lui. Questo posto crudele in cui è solo la metà del tempo, e viene odiato perché non può fare a meno di essere se stesso per la restante parte. Se Tadashi fosse forte abbastanza piegherebbe le leggi della fisica, scaverebbe una nicchia nella realtà a mani nude, una nicchia calda e soffice, tutta per suo fratello. Una nicchia in cui entrerebbero a malapena in due. Stretti assieme, soli con loro stessi, non avrebbero più niente da temere.
(Una nicchia calda e soffice, come un abbraccio. Una nicchia bianca e morbida. Una nicchia che si prenda cura di loro. O forse non è una nicchia, quello che gli serve. Baymax comincia a sbocciare. Uno schizzo in carboncino su uno sfondo pallido come la neve. Caldo e soffice e rotondo e rassicurante, come le ore prima dell’alba, quando nascosti sotto il piumone lui ed Hiro respirano nello stesso centimetro cubo, ed è come se fossero una persona sola.)
Hiro non piange più, adesso. Non avrebbe nessun motivo di continuare ad infilarsi nel suo letto ogni sera. Tadashi sa che dovrebbe farglielo presente, cercare di spiegarglielo in qualche modo semplice, che suo fratello non possa in alcun modo fingere di non capire. Ma ogni volta che ci pensa le parole gli sfuggono, le uniche che riesce a trovare sono “è sbagliato”, e se lui per primo non riesce a crederci come può in alcun modo sperare di riuscire a convincere Hiro?
“Mi fai spazio?” dice suo fratello, sollevando un lembo della coperta. Tadashi la stringe forte fra le dita. Pensa, forse se non la lascio andare. Forse. Ma la lascia andare.
Hiro si sistema al suo fianco. Si stringe tutto in una palla minuscola, magro com’è. Mangia un sacco di schifezze, ma è così gracile. Ogni tanto Tadashi si immagina stringerlo. E stringerlo, e stringerlo. Immagina la voce piccolissima di Hiro che gli si insinua nelle orecchie. ‘Mi fai male, Tadashi. Piano.’ E si sente sporco.
“Cosa c’è?”
Tadashi si volta a guardare suo fratello, sobbalzando appena. Gli occhi scuri di Hiro lo scrutano seri, profondi. Lo fanno sentire come un’equazione che suo fratello fatica a risolvere, l’unica.
“Niente,” si sforza di sorridergli, accarezzandogli una guancia, “È stata una giornata impegnativa.”
Hiro guarda in basso, sbuffando. “Io mi sono annoiato e basta,” borbotta, la voce piena di risentimento. Tadashi sa che Hiro lo odia quando gli rifila queste risposte insignificanti, forzatamente adulte. È stata una giornata impegnativa, adesso non ho tempo, riprogrammiamo nei prossimi giorni. Tadashi non ha idea di cosa dovrebbe dire per fare suo fratello felice. L’idea di trovare la frase perfetta gli toglie il respiro e non sa nemmeno perché.
“Andrà meglio quando ti sarai diplomato,” spiega con un sorriso, voltandosi su un fianco, “Potrai fare tante cose.”
Hiro lo segue nel movimento. Il capo appoggiato sullo stesso cuscino, per un secondo si guardano e basta. A Tadashi batte forte il cuore.
“Io non voglio fare tante cose,” dice Hiro, la voce salda, gli occhi fissi in quelli di suo fratello, “Voglio stare con te, Tadashi.”
Tadashi deglutisce. Si sforza di sorridere. Si sforza di sfiorare la fronte di suo fratello con le dita per sgombrarla dalla gonfia frangetta nera. “Vuoi fare quello che farò io?” gli domanda paziente, “Vuoi venire all’università con me?”
Hiro deglutisce. Tadashi osserva i muscoli della sua gola tendersi e poi rilassarsi. È ancora così piccino.
“No,” dice, “Io voglio solo stare con te, Tadashi,” dice.
Tadashi sceglie di fingere di non capire.
“Noi staremo sempre insieme, Hiro,” gli dice, in una risatina rassicurante, “Io non me ne vado da nessuna parte.”
Gli occhi di suo fratello gli dicono chiaramente che lui questo non lo può sapere. Ma Hiro si fa bastare la promessa, e si stringe forte a lui, lasciandosi scivolare nella notte.
*
Hiro ha dodici anni quando Tadashi lo tocca per la prima volta.
I mesi appena trascorsi sono una pozzanghera di fango, Tadashi si dibatte nella melma che gli si appiccica addosso e vede gli occhi scuri di suo fratello ovunque, le sue labbra sottili che si aprono in un sorriso teso danno la forma alle nuvole, c’è il disegno del suo viso nelle stelle, c’è il suono della sua risata nel girotondo frenetico degli elettroni attorno al nucleo degli atomi.
Hiro si è avvicinato lentamente, così lentamente che Tadashi se n’è a malapena accorto. Di notte, fra le lenzuola, si è ritrovato spesso le sue mani sul petto, sotto la maglietta, e ha chiesto perché. “Ho freddo,” ha sempre risposto Hiro, “Riscaldami.” Mentre il sangue gli rombava nelle orecchie col fragore del tuono.
Suo fratello è piccolo, così piccolo. Tadashi vorrebbe essere in grado di utilizzare la sua età come una scusa. Non sa cosa dice. Non sa cosa chiede. Per il suo bene, devo allontanarmi. Ma poi Hiro si avvicina e lo guarda. E i suoi occhi parlano di una consapevolezza ben più profonda di quella che Tadashi vorrebbe attribuirgli. Suo fratello lo sa. L’ha capito. Sa cosa vuole, e sa che Tadashi vorrebbe poterglielo dare. E si avvicina, centimetro dopo centimetro. I suoi occhi sono un elastico stretto attorno al polso. Lo sguardo appena più intenso stringe la morsa, gli ghiaccia il sangue nelle vene.
Tadashi cerca di pensare a sua zia. Alla faccia che farebbe se li scoprisse.
Poi cerca di pensare ai suoi genitori. A come lo guarderebbero se fossero ancora qui.
Ma quando pensa a suo fratello tutto il resto scompare. Quando pensa a suo fratello c’è solo lui, e il bisogno che ha di lui, no, il bisogno che hanno l’uno dell’altro. Di quella cosa morbida e bianca che li avvolge in un abbraccio carico di calore.
“Tadashi,” Hiro sospira, fermo al suo fianco. Il letto sta cominciando a farsi piccolo. “Ho freddo.”
“Si sta bene sotto le coperte, Hiro,” prova lui. Dimentica di prendere fiato prima di parlare ed arriva alla fine della frase stordito. Hiro si avvicina, succhia via l’ossigeno dall’atmosfera.
“Io però ho freddo,” dice imbronciato. Si mordicchia un labbro. Tadashi si sente morire.
“Hiro…” biascica. Non sa cosa aggiungere. Prova ad allontanarsi e le mani di suo fratello si chiudono attorno alla sua maglietta, trattenendolo.
“Ti prego, non andare via,” dice Hiro in un bisbiglio, la voce da bambino un po’ assonnata. Crescerai mai?, gli domanda Tadashi in silenzio. Verrà mai un momento in cui potrò guardarti e non sentirmi un verme?
“Hiro,” dice con fatica, “Io non vado da nessuna parte.”
“Non stai nemmeno con me, però.”
“Ma cosa dici?” geme lui, “Sto con te tutto il tempo. Tutto il tempo, Hiro. Non posso darti altro. Non ho altro da darti.”
Suo fratello pesa le sue parole con l’aria seria con cui pesa sempre tutto quanto. “Sei un bugiardo, Tadashi,” bisbiglia in un ringhio basso.
E poi si avvicina ancora. La distanza si annulla, diventa insignificante. Tadashi tiene gli occhi aperti mentre le loro labbra si sfiorano, per cercare di non lasciarsi trascinare. E resta immobile, congelato sul posto, il cuore che gli martella nel cervello, mentre in tutto il suo corpo scoppia un incendio che lo consuma. Lì, in quell’istante, mentre le labbra sottili e un po’ umide di Hiro sfiorano le sue, Tadashi diventa cenere.
“Questo non posso dartelo,” dice a bassa voce quando Hiro si allontana. Gli tremano le mani, e suo fratello le stringe fra le proprie, guidandole finché non si poggiano sui suoi fianchi. Così stretti. Così fragili. Hiro sembra fatto di ossa cave, come un uccellino. Tadashi vorrebbe essere capace di stringerlo in una mano senza fargli male. Invece ha paura che finirà per spezzarlo in due.
“Non puoi perché non vuoi,” sussurra Hiro, stringendosi a lui. Parla come un adulto di questioni che non comprende. Non può comprendere. Tadashi ha sbagliato tutto. Avrebbe dovuto allontanarlo. Avrebbe dovuto andare via. Avrebbe dovuto ascoltare zia Cass. ‘Si affida a te per tutto, non va bene.’ Non va bene.
“Non posso perché non posso,” dice, la voce ridotta a un rantolo. Le sue dita si chiudono attorno ai fianchi di Hiro. Lo sente rabbrividire sotto i polpastrelli. Avrà freddo davvero? No, quello non è freddo. Tadashi lo sa, perché rabbrividisce anche lui, ed il fuoco se lo sta mangiando vivo. Non può essere freddo. Non è freddo.
Hiro lo ascolta in silenzio. Preme i fianchi contro i suoi. È tutto spigoli. È la cosa più dolce del mondo.
“Tadashi,” la voce di Hiro trema e si spezza. Tadashi lo ascolta fermarsi, trarre un sospiro profondissimo, poi riprendere. "Tadashi, io non ce la faccio più.”
Tadashi deglutisce, si morde un labbro fino a farsi male. “Nemmeno io,” dice. La sua voce gronda debolezza e si odia per questo. Ma Hiro lo bacia ancora, nello stesso modo sciocco e infantile di prima. E Tadashi stavolta schiude le labbra, e prende il comando.
*
Hiro ha tredici anni compiuti da un po’, ed è un ragazzino diverso, adesso. La gente non gli piace, spesso e volentieri perché lui per primo non piace alla gente, ma non è più il bambino scontroso e agitato che non parlava con nessuno, che distoglieva lo sguardo quando qualcuno, per caso, gli rivolgeva una domanda, che quando si trovava in pubblico, prima di dire qualsiasi cosa, cercava sempre gli occhi di suo fratello, per essere sicuro di potersi prendere la libertà di parlare sapendo che, qualsiasi cosa gli fosse uscita dalla bocca, se fosse stata sbagliata ci sarebbe stato Tadashi lì, pronto a gettarsi in una fossa di leoni per proteggerlo.
Non si è iscritto all’università, dopo essersi diplomato. E d’altronde, iscriversi non gli sarebbe servito. L’università è un posto solitario, come la scuola. Un posto troppo grande. Un posto in cui lui e Tadashi non sarebbero mai soli. Il suo regno è in casa. La notte. Nel letto che ormai dividono da anni. Lì, lui e Tadashi sono soli e nudi l’uno fra le braccia dell’altro, e Tadashi glielo lascia fare, glielo lascia fare come gli lascia fare tutto il resto, perché è debole, perché è una persona disgustosa, perché lo adora, lo adora più di ogni altra cosa al mondo, e lo vuole per sé.
Alla fine di tutto. Prima di tutto il resto. Lo vuole per sé.
Hiro ha tredici anni e si annoia un sacco. Gli serviva un hobby e ha scelto i robot da combattimento. Inizialmente, Tadashi pensava che lo facesse perché gli piaceva il senso di sfida. L’idea dell’avventura. Ha capito poi che gli piace solo essere inseguito da lui, che ogni sera, quando torna dal laboratorio, indossa il casco e salta in groppa alla moto per cercare di recuperarlo sano e salvo, prima di doverlo riportare a casa in pezzi come una bambola.
“Questa volta siamo stati fortunati! Quasi ci picchiavano entrambi,” borbotta contro il vento della notte che gli schiaffeggia la faccia, “Hiro! Mi ascolti?”
“Tadashi!” ride suo fratello, agitandogli un mazzo di banconote a due centimetri dal viso, “Guarda quanti soldi!”
Tadashi sospira, imboccando un vicolo defilato e stretto e fermando la moto. La solleva sul cavalletto e scende, sfilandosi il casco e passandosi una mano sul viso. È così stanco. Vorrebbe poter spiegare ad Hiro quanto è stanco. Ma Hiro, come al solito, fingerebbe di non capire. Talvolta Tadashi si domanda a cosa gli serva, tutta quell’intelligenza, se poi, due volte su tre, sceglie di non utilizzarla.
“Hiro,” dice sospirando, “Cosa devo fare con te?”
Ancora seduto a cavalcioni sulla moto, Hiro ridacchia, voltandosi verso di lui.
“Baciami,” dice.
Tadashi grugnisce, nascondendo il volto dietro le mani. “Non qui,” geme, “Non ora.”
“Ma io sono felice,” Hiro ride ancora, dondolando i piedi.
“Cosa c’è da essere tanto felice?” domanda Tadashi, infastidito, tornando a guardarlo.
Il sorriso di Hiro è una porta aperta su uno spicchio di paradiso. Tadashi lo guarda e sente di capire il significato reale della parola felicità.
“Come cosa c’è?” ride Hiro, “Siamo qui, no?”
È una risposta senza senso, ma per Hiro sembra avere tutta l’importanza del mondo. Tadashi si china a baciarlo, stringendogli le spalle sottili fra le mani. Hiro gli sorride sulle labbra, giocando con la sua lingua con la spensieratezza di chi è incapace di distinguere fra giusto e sbagliato come concetti generici, ma solo secondo un set di regole personali che differiscono in ogni singolo dettaglio da quelle di chiunque altro. Per Hiro è sbagliato solo se lo fa piangere. Tutto il resto è giusto. E Tadashi non è mai sbagliato.
“Dobbiamo tornare a casa,” dice Tadashi, allontanandosi da lui controvoglia, “Zia Cass sarà in pensiero.”
Hiro stringe le dita attorno alla manica della sua giacca, riportandoselo vicino.
“Ancora cinque minuti,” dice divertito, “Ho freddo. Riscaldami.”
Tadashi ride piano, scuotendo il capo.
“Un giorno o l’altro succederà qualcosa di veramente brutto e ti farai un sacco male,” lo avverte rassegnato.
“E che importa?” ride anche Hiro, a un bacio di distanza, “Vorrà dire che mi metterai a posto tu.”
Lo schizzo in carboncino assume consistenza, sfumature, ombre e luci. Si stacca dalla pagina, cresce su tre dimensioni. Hiro è suo fratello ed è suo compito proteggerlo. E sarà suo compito anche rimetterlo insieme, dopo averlo rotto.
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