Rating: PG13
- Una ragazza prepara la pasta per il pranzo, e nel farlo si accorge che assieme a tutti i normali spaghetti c'è anche uno spaghetto anomalo, diverso dagli altri perché accorpa in sé stesso due spaghetti invece che uno solo. Cosa sta cercando di dirle lo spaghetto anomalo, riguardo la sua condizione di quindicenne bisessuale ancora non accettata dalla propria madre?
AVVISI: Angst, Girl's Love (accennato).
Commento dell'autrice: Dunque, non so quanti di voi abbiano letto “Crime”, l’ultima originale che ho pubblicato ^^ Chi l’ha fatto ha (forse) notato che il nome della protagonista di questa storia (anche se viene detto, tipo, una volta sola XD) è Vale, diminutivo di Valentina (sì, be’, anche di Valeria, lo so, non siate pedanti!), ed è lo stesso nome della protagonista di quell’altra :) Non c’è alcun legame fra le ragazze XD, ma mi faceva piacere chiamarle entrambe nello stesso modo perché, sebbene in due modi differenti – e con esiti totalmente, TOTALMENTE differenti XD – entrambe le storie affrontano dei conflitti con i genitori :O Non c’è dubbio che “Crime” sia di fattura migliore, intendo, la trama è organizzata meglio (in realtà, be’, è già migliore solo per il fatto che la trama c’è XD ed è importante, mentre qui è giusto un accenno) e anche i personaggi sono meglio delineati, però apprezzo abbastanza anche il risultato che ho raggiunto con questa storia, principalmente perché in genere non scrivo così e sperimentare tutto sommato mi piace <3 E’ una storia molto episodica, mi rendo conto, ma infondo è proprio da episodi che è nata. Alcuni li ho vissuti in prima persona (e parlo dei più dementi, tipo la roba delle due paste mischiate XD), altri no, ma mi faceva piacere raccontarli.
Distonica
Oggi, mentre preparavo la pasta per il pranzo, ho trovato uno spaghetto anomalo. Era totalmente fuso con un altro spaghetto, più piccolo di lui; così, fino a un certo punto era uno spaghetto assolutamente normale, e da un certo punto in poi diventava improvvisamente grosso e doppio.
Sul momento, inspiegabilmente, la cosa mi ha fatto scoppiare a ridere. Ho riso tanto che mio fratello ha fatto capolino dalla porta della cucina e mi ha guardata a lungo, come fossi totalmente pazza, e dopo mi ha anche chiesto se stessi bene.
Io ho annuito tranquillamente, ma lui non mi è sembrato molto convinto.
Povero Paolo. Si preoccupa tanto.
Non dovrebbe, sto bene, sul serio.
Cioè, quando ho detto alla mia migliore amica che avevo intenzione di parlare con mia madre della mia bisessualità, lei mi ha spaventata con tutti quei discorsi del tipo “la tua vita non sarà più la stessa, pensaci bene, tua madre potrebbe non essere ancora pronta, potresti non esserlo neanche tu, potrebbe essere difficile”.
E invece è stato di una semplicità disarmante. L’ho detto con tanta naturalezza che quasi non potevo crederci. Come se le stessi dicendo “E’ finito il burro, si deve comprare”, o una qualche altra sciocchezza simile.
La mia vita non è cambiata di una virgola, da allora. E ammetto che, forse, una settimana sola, per un qualsiasi cambiamento, è troppo poco.
Però, dai.
L’Apocalisse l’ho scampata.
Credo che mia madre non riesca più a vedermi bene. Nel senso, ho proprio l’impressione che la sua vista si sia appannata, nei miei confronti, è come se mi vedesse sfocata, o non riuscisse più a riconoscermi dopo avermi appiccicato addosso un’etichetta diversa da quella che portavo fino a poco tempo fa.
Ero e sono una ragazza normalissima.
Ero e sono sua figlia.
Ma prima ero una figlia normalissima eterosessuale, adesso sono una figlia normalissima bisessuale; non sono sicura che il fastidio di mia madre derivi proprio dalla bisessualità in sé, probabilmente è qualcosa più legato al “cambiamento” o a qualcosa di simile, lei ha sempre detestato cambiare, e infatti è sempre uguale a sé stessa da quando la conosco.
Mentre mangiavamo in silenzio, tutti e tre, e non osavamo neanche guardarci negli occhi per paura di dover cominciare un discorso qualsiasi, ho ripensato allo spaghetto.
Credo che lo spaghetto volesse dirmi qualcosa. Probabilmente stava cercando di spiegarmi che per mia madre era più facile avere a che fare con me quando ero uno spaghetto normale, piuttosto che dover fronteggiare la realtà dello spaghetto anomalo che sono oggi.
O forse lo spaghetto stava cercando di rassicurarmi. Stava cercando di dirmi “Vedi? Anche se sono così strano, alla fine mi cucinerai assieme a tutti gli altri spaghetti normali e mi mangerai, e avrò anche un buon sapore”.
Ma questa è solo pseudo-filosofia, credo. Se non idiozia.
E quello era solo uno spaghetto strano in un pacco di spaghetti normali.
E mia madre non è una pentola in cui tutti gli spaghetti, per quanto diversi fra loro, possono essere cucinati insieme fino a perdere tutte le loro differenze. Mia madre è mia madre. Quella che non riesce a guardarmi. Quella che, quando le ho detto “Sono bisessuale”, ha risposto “Sei giovane, devi pensarci su”.
“E insomma”, ho pensato io, “che c’entra l’essere giovani?”
Ma non l’avevo capito che in realtà quella che aveva bisogno di pensare era lei.
Non avrei dovuto arrabbiarmi, quel giorno. Non avrei dovuto piantar su il casino che ho piantato, avrei dovuto darle il suo tempo per metabolizzare, o adattarsi, o smettere di pensarci come a qualcosa di grave, e tutto si sarebbe risolto.
E invece no. Ho protestato, ho affermato con forza il mio diritto ad avere un’identità sessuale ben definita anche se ho “solo” quindici anni, e ho affermato con forza il mio diritto a mostrarmi a lei com’ero e non come lei mi preferiva.
In sostanza, ho parlato al vuoto, perché credo lei non abbia ascoltato una sola parola del mio discorso.
Evidentemente, non dev’esserle piaciuto il tono.
Stanotte, mentre cercavo di addormentarmi, ho provato a sincronizzare il mio respiro con quello di mio fratello. In parte perché era così tranquillo che mi sembrava che se fossi riuscita a trovare lo stesso ritmo, allora mi sarei tranquillizzata anche io.
Ma soprattutto perché volevo vedere se ero ancora in grado di andare in armonia almeno con una cosa in tutto il mondo.
Inutile dire che, per quanto provassi, e per quanto riuscissi a seguirlo per un po’, ben presto lo perdevo, quel benedetto ritmo. Certe volte mi sembrava che il respiro di Paolo fosse molto più veloce rispetto al mio; certe altre, mi sembrava addirittura lentissimo.
L’esperienza mi è servita per capire che il respiro di mio fratello quando dorme non è regolare.
E questo mi ha fatto pensare.
So perfettamente che una cosa del genere è del tutto naturale, e in realtà non saprei dire perché in quel momento preciso l’ho trovata strana, così come non saprei dire per quale motivo abbia pensato che regolare il mio respiro in base a quello di mio fratello potesse farmi sembrare “meno stonata”, in assoluto.
D’altronde, anche mio fratello è stonato, a suo modo.
Anche mia madre lo è.
Non credo ci sia qualcuno che possa essere davvero “intonato”, a questo mondo.
Solo, ecco…
…non è che tutti hanno una madre che si rifiuta di guardarli negli occhi.
Stamattina, mia madre mi ha chiesto se mi sarebbe dispiaciuto comprare il pane, tornando da scuola. Io non le ho risposto. L’avrei fatto, se chiedendolo mi avesse guardata, o avesse dimostrato un minimo di considerare la mia presenza.
Non l’ha fatto, e io non ho detto una parola.
Lei me l’ha chiesto di nuovo, probabilmente pensando che non l’avessi sentita.
Io ho continuato a non rispondere.
Ovviamente, lei s’è arrabbiata.
E quando ha cominciato a urlare ho pensato “ecco, ci siamo, adesso non può davvero evitare di guardarmi. Cosa rimproveri a fare una figlia, se non la fissi con rabbia?”.
Ma niente. Mi ha rimproverata senza degnarmi di uno sguardo.
Questo ha reso il suo rimprovero leggero come l’aria, era come se non mi stesse rimproverando affatto, come se stesse parlando con uno sconosciuto del tempo, o della situazione politica. Un discorso lieve e inutile. Anche se urlava.
“Dovrei essere io quella arrabbiata”, ho pensato, abbassando lo sguardo.
E poi mi sono chiesta “Ma dove mi sta portando tutto questo? Perché devo comportarmi ostinatamente come lei? Se mi rendo conto che la sua ostinazione è inutile, perché dovrebbe cambiare qualcosa la mia?”.
L’ho guardata.
Fosse anche stata dall’altro lato dell’universo, non avrebbe potuto essere più distante.
Non posso ancora credere che mio fratello mi abbia dato uno schiaffo, mi sembra una cosa talmente assurda e inconcepibile che ho quasi la sensazione di essermela sognata, nonostante bruci ancora, nonostante possa ancora sentire la guancia rossa e infuocata, nonostante abbia ancora fissi in mente i suoi occhi furenti, nonostante la pressione dei suoi polpastrelli mi sembri ancora così vivida, dico, è assurdo, mio fratello che mi schiaffeggia?, il mio fratellino!, Paolo!, basta pensarci, prima che mi venga il mal di testa.
So che non ho fatto niente di male. Non ho fatto niente di sbagliato.
Insomma, lei era così, come al solito, così indisponente! Così cocciuta! Guardava il vuoto con una tale sfacciataggine che mi è venuta voglia di prenderla a morsi. Avrei veramente voluto divorarla.
Potrei dire che non ho capito bene cosa sia successo, potrei dire di essere ancora frastornata, ma non sarebbe vero. Ho tirato fuori la cosa di papà appositamente per farla soffrire, per vedere se riuscivo a scuoterla, a scuoterla verso di me, intendo, in qualche modo.
Lei odia che si parli di papà. E odia che la si minacci con cose del tipo “Me ne vado a vivere da lui, così almeno sto in pace!”, quando si litiga.
Però questo deve averle fatto più male di una minaccia da litigio.
Perché ero serena.
Perché ero seria.
Perché mi sono voltata, all’improvviso, e con disinvoltura, come fosse stupido, ho detto “Pensavo di trasferirmi un po’ da papà, finché non la smetti di comportarti così”.
Si è voltata a guardarmi, finalmente, mi sembravano anni che non vedevo quelle pupille fisse su di me. Ha mosso le labbra e non ha detto una parola. E, sempre silenziosamente, ha cominciato a piangere.
Credo che Paolo abbia deciso di darmi uno schiaffo in quel preciso momento.
È stata la prima cosa che ha fatto, quando mamma è scappata in camera sua – ed è letteralmente scappata, non credevo che fosse possibile nella realtà, credevo fosse una cosa da film o da fumetto, non avevo mai visto qualcuno fuggire così, col volto fra le mani, scosso dai singhiozzi e tutto il resto.
È stato lì che ho smesso di capire cosa stava succedendo. Subito dopo lo schiaffo.
Paolo deve avermi rimproverato aspramente, deve avermi detto qualcosa sulla mia sensibilità inesistente e sul fatto che è impossibile imporre agli altri i propri tempi, e bisogna solo accettarli e aspettare.
Sul momento mi sono sembrate quelle tipiche frasi di circostanza che si dicono quando si vuol difendere qualcuno che piange, di fronte a qualcuno più forte che gli fa del male.
Ma chi piangeva, in quella stanza? Chi piangeva, in casa nostra? E chi era più forte?
Nelle loro confezioni, oggi a mezzogiorno, c’erano duecento grammi di maccheroncini e duecento grammi di pennette. Sul fornello, invece, c’era un tegame col tonno al pomodoro, per condire la pasta.
Rapido esame, ho scelto di calare le pennette. Che poi mi piacciono anche di più, come pasta.
Mi sono concentrata sulla loro forma, l’ho trovata deliziosa, senza riuscire a spiegare perché, e poi mi sono chiesta perché diavolo mi venisse così facile, ultimamente, concentrarmi su cose stupide come la pasta, quando avrei avuto ben altro a cui pensare.
Mi sono risposta che pensavo già abbastanza a tutto il resto, per privarmi del gioco di immaginare le sciocchezze come cose degne d’attenzione.
Mio fratello è entrato in cucina proprio mentre mi accingevo a sollevare il piattino dalla bilancia. Non ha guardato me, ma il piattino che tenevo fra le mani.
“Quanti sono?”, ha chiesto, indicandolo col dito.
“Duecento”, ho risposto.
“C’era solo questa?”
Ho annuito.
Anche lui ha annuito, lentamente, digerendo l’informazione. Poi ha preso il pacco di maccheroncini, ancora posato sul tavolo, e ha messo quelli assieme alle pennette.
“Che stai facendo…?”, ho chiesto, stupita e un po’ infastidita.
“Cucina tutto assieme.”, mi ha detto lui, come fosse una cosa naturale.
“Ma verrà orribile!”, ho protestato, stringendo più forte fra le mani il piattino, “Non si possono cucinare assieme due tipi di pasta così diversi!”
Lui ha scosso le spalle.
“Ho fame”, ha risposto. E, pochi secondi dopo, “Dovresti scusarti con mamma”.
Ho quasi fatto un passo indietro, per la sorpresa.
“Che c’entra adesso?”
“Deve entrarci qualcosa? Volevo solo dirtelo”.
Ho abbassato lo sguardo.
Mi sono sentita triste e m’è venuta voglia di piangere. E allo stesso tempo mi sono sentita come se non m’importasse niente di niente. Ero distante anni luce da mio fratello, e nonostante questo avevo ancora tanta voglia di piangere sulle sue parole, come se la distanza che sentivo si azzerasse anche solo pensando che in realtà lui era lì.
“Perché?”, ho chiesto, titubante, stringendo ancora la presa delle dita, fino a farmi male.
Per un attimo, ho davvero avuto il terrore che rispondesse qualcosa come “Perché mi interessa solo che mamma stia bene, anche se tu devi sacrificare qualcosa”. Non so perché ero così spaventata da un’eventualità simile. Forse perché mi aveva schiaffeggiata e non mi aveva ancora chiesto scusa.
“Non mi piace come stai”, ha risposto lui, sempre senza guardarmi.
Io ho risollevato gli occhi.
“Sto bene”, ho detto, col tono più sicuro che mi fosse riuscito di assumere.
Lui ha sorriso. Mi ha dato un pizzicotto sul fianco. Io ho cercato di afferrargli la pancia, ma mi è scivolata, e lui mi ha dato un altro pizzicotto, dall’altro lato. Così ci siamo messi a ridere come deficienti, la pasta ha rischiato di cadere per terra e io di rompermi una gamba incespicando sulle mie stesse pantofole.
Paolo è rimasto accanto a me a guardare la pasta che si agitava nell’acqua bollente. Abbiamo contemplato insieme pennette e maccheroncini, ridacchiando mentre prendevano volume e si attorcigliavano fra loro. Non riuscivo neanche a mescolare bene, un disastro. Ma sono stata felice.
Apro gli occhi, dopo un sonnellino di un paio d’ore, e mi chiedo “Dove cavolo sto andando? Che strada sto seguendo?”.
Immagino sia perché nel sogno, che ricordo ancora vividissimo, camminavo dritta e tranquilla su un sentiero del quale non riconoscevo nulla. Non c’erano palazzi, intorno, non c’erano alberi, non c’erano macchine né persone, non c’era neanche una strada, a dirla tutta, c’ero solo io che seguivo una linea retta, come in quei cartoni animati in cui la linea e il personaggio sono una cosa unica. Non so se avete presente.
Anche la mia visuale era scarsa. Era tutto bianco e illuminato, ma non riuscivo a vedere più in là di un paio di metri. Era come se la linea si interrompesse, ma ecco, facevo quei pochi passi che mi separavano dalla sua conclusione e se ne scopriva un altro pezzetto, e non finiva mai.
Nel sogno questo non sembrava spaventarmi. Nel sogno sembrava fosse assolutamente normale camminare lungo una strada della quale non sai neanche se fra tre passi ti si aprirà sotto i piedi, inghiottendoti in qualche specie di baratro scuro e senza senso.
Adesso ho paura perfino di scendere dal letto, anche se vedo tutto benissimo e so che non c’è pericolo di cadere nel vuoto, perché se anche dovessi scivolare lo zerbino peloso che ho comprato l’altroieri mi salverebbe, almeno da una botta troppo forte.
Lentamente mi metto seduta, liberandomi del piumone che mi impiccia le gambe e stropicciandomi gli occhi ancora pesanti di sonno. La stanza è immersa nella penombra del tardo pomeriggio invernale; la luce gialla del lampione, ancora debole, filtra dalle persiane e disegna trapezi irregolari sulla parete bianca, resa grigiastra dal buio.
Così, un po’ rintontita dalla sonnolenza e dal tepore delizioso del mio letto, mi sembra di essere nel mio habitat naturale. In questo momento mi sento talmente a mio agio che sono sicura che sarei in grado di fronteggiare qualsiasi cosa.
Qualcuno accende la luce, d’improvviso.
Mi salta il cuore in gola.
Mi volto, è mia madre. Mi guarda attentamente, dalla porta, una mano ancora sull’interruttore, l’altra abbandonata lungo il fianco.
Non ci parliamo da quel giorno.
- Dormivi ancora? – mi chiede, stupita, - Sono le otto.
Guardo la sveglia sul comodino.
- Sì. – dico, non trovando di meglio.
- Alzati, dai. – sbuffa lei, - Che poi stanotte non dormi.
Scrollo le spalle.
Lei fa per girarsi e andare via.
- Mamma. – la chiamo.
Si ferma e si volta indietro, tornando a guardarmi, restando in attesa.
E io sento che c’è qualcosa che vorrei dirle. Sento che vorrei esprimere come mi sento, come mi sono sentita in questi ultimi giorni; sento che vorrei scusarmi per aver nominato papà quando non dovevo, sento che vorrei dirle che mi dispiace di non averle dato il suo tempo, ma sento anche che vorrei rimproverarla, perché se lei aveva bisogno del suo tempo, io avevo bisogno della mia comprensione, era un mio diritto averla. Ed era un suo dovere darmela.
E quindi sento che, se parlassi adesso, dalle mie labbra uscirebbe solo un gran casino, e mi chiedo per quale motivo l’abbia chiamata, sapendo che non sarei riuscita a spiccicare una sillaba.
Mia madre mi sorride.
- Stasera faccio lo spezzatino con le patate. – annuncia, e scompare oltre la porta, nel corridoio.
Io mi appoggio al muro con la schiena. È freddo, molto, molto freddo, il freddo passa attraverso la maglia del pigiama e mi si appiccica alla schiena; è fastidioso. Mi discosto dalla parete e le spalle mi si curvano verso il basso, autonomamente, e anche il capo le segue nel movimento, e non c’è nulla che possa fare per fermarlo.
Ho paura, davvero, non capisco perché il mio corpo si muova da solo.
Non capisco perché i miei occhi stiano decidendo di piangere al posto del mio cervello.
Non capisco perché le mie mani tremino, e non capisco perché le ginocchia mi si raccolgano al petto, non capisco perché le mie braccia vadano a circondarle, e perché diavolo cerco di affondare tra le mie spalle?, e perché i capelli mi scendono giù sulle guance e sugli occhi, appiccicandosi alla pelle bagnata e salata?, e perché mi lamento?, e perché i singhiozzi mi fanno male allo stomaco?, e perché-
- Vale…?
Sollevo di scatto la testa, tanto che quasi la sbatto contro il muro.
Paolo mi fissa, sconvolto, a pochi metri da me.
- Che è successo? – chiede, apprensivo, sedendosi al mio fianco.
Scuoto il capo.
- Chiunque sia stato, è uno stronzo. – afferma perentorio, circondandomi le spalle con un braccio e stringendomi a sé, - I maschi fanno tutti schifo. E anche le femmine.
Per un momento, non capisco cosa stia cercando di dirmi.
Poi realizzo che non è importante. Che l’unica cosa importante è che sta cercando di consolarmi, al di là del significato delle sue parole, e anche al di là del motivo della mia tristezza.
E d’improvviso penso allo spezzatino.
E capisco che se mia madre non mi ha chiesto “che c’è?”, quando l’ho chiamata e non le ho detto nulla, non è stato perché non le importava saperlo, ma perché sapeva che non sarei stata in grado di dirglielo.
E poi penso ai maccheroncini e alle pennette.
E capisco che posso andare avanti anche se è tutto un casino e non riesco a sbrogliare certe matasse della mia vita familiare.
E infine penso allo spaghetto anomalo.
E capisco che è già bello che digerito nello stomaco di tutti. E che non ha senso continuare a pensarci. Sarà pur stato uno spaghetto strano, ma adesso è solo pasta.