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AVVISI: Angst, Death.
- "A volte può capitare che persone normalissime abbiano delle vere e proprie premonizioni. [...] A me successe quando avevo quindici anni. Ero appena un ragazzino, ma quando conobbi Sebi capii che lui avrebbe cambiato la mia vita."
Commento dell'autrice: Non posso credere di averla finita. Non ci ho creduto nemmeno per un attimo, anche quando ero a poche righe dal finale, ho continuato a credere che l’ispirazione sarebbe scemata e poi scomparsa e che questo sarebbe rimasto uno fra i tanti documenti incompleti ed abbandonati che ho fra le originali in cartella. Ed invece no. L’ispirazione non s’è fermata ed ho scritto come un treno fino alla fine l’80% di una storia che… non saprei neanche dire se amo o meno.
Non scrivevo originali – originali vere, escludendo, perciò, la flashfic che più che una storia è una fotografia un po’ strana che ho pubblicato qualche giorno fa – da più di un anno. Ricominciare a farlo mi ha lasciata un po’ spiazzata, e non so veramente cosa aspettarmi da questa storia, nel senso che non ho la minima idea di come la accoglierà chi la leggerà, principalmente perché non riesco a capire bene cosa ne penso nemmeno io che l’ho scritta. Ma questo, probabilmente, è perché ho appena finito. E perché be’, l’ho scritta io, e nessuno mi convincerà mai a smettere di credere fermamente nell’assunto secondo cui chi scrive ha la visione meno chiara in assoluto di ciò che ha scritto XD
Comunque sia, la storia mi è stata ispirata più che dalla canzone – comunque bellissima <3 – dal video di Dead Sound, dei Raveonettes, che potete vedere qui e che io vi consiglio caldamente. I versi in calce all’inizio della storia appartengono a lei.
In originale, per questa storia, avevo pensato qualcosa di piuttosto diverso. Ambientato in un altro periodo storico, tanto per cominciare – voleva essere un omaggio a Quadrophenia, bellissimo film diretto da Franc Roddam e prodotto dagli Who, nonché ispirato al loro omonimo album – prendeva le mosse negli anni settanta a Brighton (unica cosa rimasta del plot originale XD) e parlava di cose noiose come la morte delle illusioni e compagnia bella, ma in realtà voleva essere solo un pretesto per mostrare la “lotta ideologica” fra mod e rocker <3 che è una delle cose della storia della contestazione giovanile inglese che più mi affascina in assoluto X3
Poi, però, mentre facevo appunto ricerche su Brighton, mi sono imbattuta nell’incendio della West Pier del 2003 ed ho sentito un fortissimo bisogno di scriverci qualcosa su *O* Comprendendo che non avrei mai potuto conciliare i due bisogni (visto che avrebbe significato mettere in atto una distorsione temporale non indifferente! XD) ho ceduto all’ispirazione più pressante ed ho slittato tutto di una trentina d’anni.
Questo è ciò che ho ottenuto. E sinceramente spero solo non faccia troppo schifo XD
PS: Scritta per il concorso sulla memoria e il ricordo indetto da Nacochan ed Izumi sul forum dell’EFP.
PPS: Vorrei ringraziare tanto le ragazze che si sono prese cura di questa storia prima che io mi lasciassi convincere a mandarla al concorso. Un bacio speciale a Nai, dunque, senza la quale non avrei mai cominciato a scriverla, ed uno altrettanto speciale a Ross, Vale e Misako, che l’hanno letta e betata in anteprima, e senza le quale non sarebbe stata accettabile neanche un quarto rispetto a quanto è adesso. Un bacio particolarmente significativo va infine a Caska, perché anche se non era obbligata a farlo mi ha rassicurata come solo lei sa fare. Vi lovvo tutte <3
DEAD SOUND
As I wonder where you are
Hits the ground with a dead sound
Know you ain't got far
A volte può capitare che persone normalissime abbiano delle vere e proprie premonizioni. Non dipende da capacità innate, né da abilità che sia possibile acquisire col tempo. Non dipende dalla loro età, né dall’allenamento al quale potrebbero sottoporsi per incrementare queste doti.
Sono momenti. Capitano.
Non a tutti. Ma a molti. Non è una cosa eccezionale. È solo una cosa.
A me successe quando avevo quindici anni. Ero appena un ragazzino, ma quando conobbi Sebi capii che lui avrebbe cambiato la mia vita. Non era niente che avesse a che fare con l’amore o l’attrazione, ed in effetti ero davvero troppo ingenuo per concepire anche solo lontanamente cose simili – l’unica persona dalla quale mi sentissi sinceramente attratto era David Beckham, e posso giurare non ci fosse niente di sessuale in quell’amore – ma era qualcosa di altrettanto profondo. Di altrettanto radicato in me.
Quando premonizioni simili hanno a che fare con le vite delle altre persone, puntualmente queste ultime vengono inglobate. Le loro esistenze diventano parte della tua. Le assimili, in un certo senso. Le rendi una parte del tuo organismo, fino a che nessuno può davvero fare a meno dell’altro. E finisce con l’essere un rapporto mutuale, perché un uomo non può vivere senza un cuore, ma anche un cuore da solo non è che si ritrovi con molto di meglio da fare se non smettere di battere.
Credo sia questo che ho fatto con Sebi. E che lui ha fatto con me.
E con Alice, ovviamente. Tendo sempre a non includerla, quando faccio ragionamenti simili, perché lei è venuta molto dopo me e lui.
Ma Sebastian l’ha voluta quanto ha voluto me. L’ha voluta possedere tanto quanto ha voluto possedere me, l’ha voluta dominare tanto quanto ha voluto dominare me, e l’ha voluta devastare tanto quanto ha voluto devastare me. Perciò è doveroso che le riconosca anche la sua giusta dose di dolore.
Il problema è che io e Sebastian eravamo accomunati dall’egoismo. Un po’ come tutti i maschi, in fondo. È per questo che continuo a buttarla fuori. Che l’ho sempre buttata fuori. Che, quando l’ho vista seduta a quel tavolo, completamente sola, l’ultima volta che ci siamo incontrati, ed ho ricordato che era stato nello stesso modo che l’avevo vista anche prima di lasciare Brighton, dopo la morte di Sebi, non ho fatto niente. Non mi sono avvicinato, non ho neanche mostrato di conoscerla.
Lo so, è un comportamento deprecabile.
Ma avrei voluto che Sebastian fosse una cosa solo mia, e non è potuto esserlo.
Almeno il suo lutto, voglio tenerlo tutto per me.
A Brighton c’è un bel mare. Di solito le coste sono sempre piene di scogli e fare il bagno è un dramma. La spiaggia di Brighton, invece, è bellissima: liscia ed immensa, si fonde col mare come se volesse baciarlo ad ogni ondata. Pure coi baci ti resta dentro una traccia, no? La scia bagnata dell’onda che si ritira è la traccia che resta sulla spiaggia di Brighton.
Non ero così romantico prima di conoscere Sebastian. Era lui quello poetico. Era lui quello che voleva scrivere canzoni. Era lui che poteva stare per ore seduto sulla banchina a fissare la Manica e desiderare ardentemente una nave per partire.
“L’Inghilterra è soffocante”, diceva sempre, “Si danno un sacco di opportunità alle persone sbagliate. E i talenti restano nascosti”.
Non so perché credesse che nel resto del continente la musica potesse essere diversa. Probabilmente dipendeva appunto dalla sua visione estremamente romantica della vita: se non hai ancora visto qualcosa, non c’è alcun motivo di immaginarla orrenda.
Si nutriva di sogni. Si nutriva del suo sogno. Si nutriva anche dei tuoi, se glielo permettevi. È quello che ha fatto con Alice, in fondo. Anche lei voleva cantare. Però non aveva nulla da dire.
A Sebastian era bastata un’occhiata per capire che lei poteva rappresentare il suo trampolino di lancio. Una ragazza modesta. Una bella voce. Un faccino pulito. Un carattere gentile.
Poco talento.
Sebastian rifulgeva di un talento tutto proprio. Non gli piaceva frequentare le persone, ma quando lo faceva sceglieva solo gente anonima. Non perché si sentisse minacciato dal resto del mondo, ma perché trovava stimolante far fruttare il proprio talento mettendolo a disposizione di chi non ne aveva nemmeno una briciola.
Alice arrivò che era appena inverno. Arrivò che avevamo diciassette anni.
Arrivò che io già cominciavo a pensare cose strane.
Arrivò, soprattutto, nel momento in cui Sebastian aveva più bisogno di lei.
Ma sto tremendamente affrettando i tempi. Non è ancora il momento di tirar fuori Alice. Proprio non mi va.
Dicevo del mare di Brighton.
Rimarco tanto perché ovviamente è su quella spiaggia che ho conosciuto Sebastian. In una giornata di sole qualunque, in piena estate. I miei genitori non potevano sopravvivere senza un po’ di sana spensieratezza balneare, era ciò che li aiutava a superare il resto dell’anno. Lavoravano entrambi duramente, in fabbrica, e comunque non riuscivamo a raccogliere particolari gruzzoli durante il periodo lavorativo, perciò quando riuscivano a prendere le ferie era al mare che andavamo. Mi hanno sempre portato con loro, ed è così che, piano piano, anche dentro di me s’è sviluppato questo strano tipo di affetto dipendente nei confronti della spiaggia. Ho un sacco di bei ricordi di quei luoghi.
Il migliore resta slegato dalla mia famiglia.
Ma anche per parlare di questo è troppo presto.
In ogni caso, non voglio fare un resoconto dettagliato di tutta la mia esistenza fino ad ora. Anche perché è stata un’esistenza pure fin troppo misera: nulla di speciale, nulla di particolare. Nulla tranne Sebastian, chiaramente.
Vagava per la spiaggia come non avesse la benché minima idea di dove stesse andando. Come se, anzi, non volesse neppure muoversi davvero, ma ritenesse che stare immobile in un punto potesse sembrare come inappropriato di fronte al dinamismo incredibile che scuoteva in profondità l’intera popolazione balneante estiva.
Io restavo immobile sotto l’ombrellone e lo osservavo distrattamente. Non aveva neanche attirato in maniera particolare la mia attenzione: era solo un ragazzo magro e pallido che vagava per la spiaggia in costume da bagno, i ricci umidi a ricadere con estrema nettezza sulla pelle chiarissima del collo e gli occhi persi nella folla. C’era, e come c’era lui c’era anche una bambina in costume rosa che scavava nella sabbia tanto in profondità da dare l’idea volesse arrivare minimo in Australia, e c’era anche una coppia di anziani signori raggrinziti ma sfoggianti un’abbronzatura tanto perfetta da sembrare finta, ed una giovane donna incinta sola sulla riva che faceva il bagnetto al proprio enorme pancione accarezzandolo con devozione.
I particolari li ricordo tutti.
Li ricordo tutti perché nel momento in cui lui crollò seduto al mio fianco, sospirando esausto e facendosi aria con una mano, io cominciai a fissare lo sguardo ovunque per non fargli notare il mio imbarazzo ed il mio senso di disagio. Un senso di disagio che lui non sembrava neanche percepire, peraltro.
- Fa sempre tanto caldo, da queste parti? – mi chiese con aria annoiata, scrutando attentamente il mare denso più di gente che d’acqua.
- …è agosto… - mi limitai a fargli notare, stringendomi lievemente nelle spalle.
- A Birmingham ad agosto non c’è tutto questo caldo. – rimarcò lui, incredulo, inarcando le sopracciglia. Poi si voltò verso di me e sorrise, - Dovrò abituarmi, suppongo.
E non c’era più nessun artificio mentale o segnale corporeo che potessi utilizzare per non far sembrare quella che stavamo avendo una conversazione vera e propria. Dovevo rassegnarmi ad esserne parte, se non volevo esser preso per cretino dopo neanche due secondi di conoscenza.
- Vieni da Birmingham?
Lui annuì serenamente, senza staccarmi gli occhi di dosso: erano enormi e castani e profondissimi. Stranamente magnetici. Dico stranamente perché non è che fossero particolari o che. Però erano brillanti. Tanto. Sembravano volerti scrutare sin dentro, senza il minimo riguardo. Senza il minimo pudore. Senza neanche il minimo scambio, perché quanto al resto erano espressivi come due sassi: non riuscivi cioè a scorgere niente oltre quella pozza di curiosità.
- Come mai ti sei trasferito?
Lui scrollò le spalle e guardò altrove. Il suo sguardo non subì mutazioni d’alcun genere: non s’incupì, non si fece distante, nulla di nulla.
- I miei genitori hanno da fare qui.
- Oh. – ripiegai, sentendomi addosso la sensazione di avere indagato più del consentito, - E resti molto?
Lui tornò a guardarmi, sorridendo enigmatico.
- È un trasferimento permanente. – rispose, - Non sono mica di passaggio.
Io annui, un po’ imbarazzato, e tornai a guardarmi intorno. La giovane donna era riuscita a risollevarsi in piedi e si stava dirigendo un po’ affannata verso la propria sedia a sdraio, sotto un ombrellone poco distante. Il prendisole bagnato scendeva lungo le cosce incredibilmente magre, caricandole d’acqua, che scorreva giù in rivoli spessi e gonfi fino a terra. Si abbattevano sulla rena con violenza. Affondavano fra i sassi, si schiantavano sulle superfici lisce e lucide, rotolando sui fianchi rotondi dei ciottoli e bagnando il terriccio già umido di sotto.
- Non conosco nessuno qui. – disse lui. Io percepii a stento la sua voce bassissima fra gli innumerevoli ticchettii delle gocce che non potevo davvero sentire, ma che la mia mente stava replicando con tanta efficacia dentro le mie orecchie. – Ti andrebbe di uscire insieme, qualche volta?
Annuii senza nemmeno pensarci su. E lui mi prese in parola.
Nel ricordare la storia del mio rapporto con Sebastian, non potrei mai andare per tappe fondamentali. A ben vedere, da romanzi e film, sembra sempre che le storie si muovano per gradi. Prima un grado, poi il superiore e così via fino alla completezza e alla fine della vicenda.
L’amore non funziona così. L’amore non comincia e non finisce, l’amore è ed è da sempre, o non è amore affatto. A parte l’intuizione fondamentale di cui sopra, non c’è niente che possa essere identificato come “un momento preciso” in cui si scopre di amare qualcuno. C’è quando te ne accorgi: ma quando te ne accorgi l’hai sempre saputo. C’è quando lo concretizzi, in una carezza o in un bacio o in un semplice sguardo romantico: ma anche lì, quando accade lo sapevi già.
L’amore vive di ricordi. I ricordi dei miei quattro anni con Sebastian sono tutti legati al mare. Sono celeste acceso e blu profondissimo, e si tingono di rosso ardente sul finale.
Sul molo, a Brighton, c’è un pontile. Su questo pontile ci sono due edifici. Uno ormai è stato ricostruito – anche se in realtà non è mai stato granché solido, e continua a non esserlo – mentre l’altro porta ancora i segni di ciò che l’ha distrutto.
Quando io e Sebastian ci siamo conosciuti, questi due edifici – le Brighton Pier, anche se a Brighton sarebbe piaciuto che l’Inghilterra ricordasse solo quella buona delle due – specialmente la West Pier, erano già in stato di decadimento. Il comune continuava a pagare restauri ed attività che avrebbero potuto rilanciarli come sale da concerto o cinema o casinò o chissà cos’altro, ma la verità era che in pochissimi li frequentavano e che intere zone degli edifici erano perlopiù del tutto vuote per la maggior parte del tempo.
In quei luoghi, io e Sebastian passammo mesi. Mesi davvero. Né io né lui eravamo grandi frequentatori di pub e discoteche. Preferivamo di gran lunga farci i fatti nostri. Lui amava stare seduto sulla balaustra, un foglio di carta scarabocchiato ed una penna in mano, i piedi pendenti a strapiombo sulle onde che si infrangevano contro i pilastri che reggevano l’edificio e lo sguardo perso nel vuoto, all’orizzonte. Io amavo stargli accanto. Sentirlo mugugnare melodie a bassa voce. Ascoltarlo fantasticare di quanto gli sarebbe piaciuto sfondare nel mondo della musica, con qualche produttore bravo, che avesse davvero fiuto e sapesse fare il proprio lavoro, ed andare in giro per il mondo a spacciare alle masse le proprie idee ed i propri sentimenti come droga.
“Abbiamo fra le mani il sedativo più legale che c’è”, bisbigliava, sorridendo lievemente, “Ce l’abbiamo nella testa. In bocca e fra le labbra. Ci serve solo qualcuno che ci aiuti a venderlo”. E poi mi guardava e mi chiedeva se sapessi suonare la chitarra. Ed io rispondevo di no. Che ero negato. Che non volevo nemmeno provare ad imparare, perché mi erano bastate le orrende figure che avevo fatto in middle school col flauto per capire di voler stare il più lontano possibile da qualsiasi strumento per tutto il resto della mia vita. E lui sorrideva ancora e rispondeva che non era un problema, andava bene lo stesso, tanto gli sarebbe piaciuto avermi accanto comunque, strumenti o meno.
Lo ripeteva di continuo. Ripeteva di continuo un sacco di cose. Ripeteva le cose come se se le dimenticasse.
Lui le dimenticava sul serio.
Io avrei dovuto capirlo subito.
Ma ero affascinato. Ero stupido.
Ero convinto lui fosse una persona fuori dal comune. Non facevo caso alle sue stranezze. Come quando arrivava d’improvviso a casa mia e quando gli aprivo la porta mi guardava come se non avesse idea del perché si trovasse lì e confessava di volermi chiedere qualcosa anche se non ricordava cosa.
Sebastian era sempre molto distratto. O molto confuso. E sembrava guardare sempre altro, mai te, anche se ti stava parlando.
A muoversi per tappe non sono gli amori, sono le separazioni. Sono quelle che hanno momenti ben definiti: momenti che le decidono, momenti che ne portano il compimento.
La storia della mia separazione con Sebastian è cominciata con l’arrivo di Alice, ma non è stata colpa sua. Lui se ne sarebbe andato comunque, ed io non sarei comunque stato in grado di colpevolizzarlo. Lei è solo uno stratagemma che uso – che ho sempre usato – per catalizzare la rabbia che comunque non sono mai riuscito a impedirmi di provare.
Nel dicembre del duemiladue, io avevo diciassette anni. Il ventinove di quel mese vide una delle tempeste più potenti che la costa del Sussex ricordasse. Erano passati più di due anni dalla prima volta in cui avevo visto Sebastian, e la maggior parte di quegli anni io e lui l’avevamo trascorsa a fare gli equilibristi fra le tavole di legno che ci cedevano sotto i piedi sul pontile della West Pier.
La notte del ventinove dicembre, una parte della West Pier crollò in mare e si disperse fra i flutti. Io e Sebastian la osservammo svanire fra le onde da due punti diversi della città – io fra le pareti di casa mia, lui fra quelle della sua – e quando il giorno successivo ci rivedemmo entrambi non potemmo fare a meno di scoppiare a ridere perché, cercando di quantificare i danni che erano stati fatti ai nostri ricordi in quel posto, inevitabilmente erano venuti alla luce anche episodi ridicoli e divertentissimi, come le innumerevoli volte in cui avevo rischiato la vita per andare a recuperare le ostriche attaccate ai pilastri sommersi o le altrettanto innumerevoli volte in cui Sebastian aveva concluso le mezze canzoni che ogni tanto improvvisava con una pernacchia, perché non avrebbe saputo come porre un punto altrimenti.
Due giorni dopo, per la precisione nella notte fra il trentuno dicembre duemiladue e il primo gennaio duemilatre, Sebastian posò gli occhi su Alice. La madre di non ricordo che ricchissimo compagno di scuola aveva organizzato un party per l’inizio dell’anno, ed era stato invitato praticamente tutto l’istituto più qualche amico di famiglia, fra i quali figuravano i nuovi vicini di casa. Ovvero Alice e i suoi genitori.
Così piccola, pallida, bionda e discreta com’era, non finirò mai di stupirmi d’essere stato il primo a notarla. Stava tutta raccolta in un angolo, avvolta in un corto vestito in velluto viola ch’era quanto di più brutto e al contempo di più affascinante avessi mai visto addosso ad una ragazza di quell’età, appollaiata su una sedia che sembrava essere l’ultimo posto al mondo in cui desiderasse trovarsi.
Feci in modo di indicarla discretamente e chiesi a Sebastian se l’avesse mai vista.
Sebastian la guardò ed i suoi occhi brillarono come fari nella notte.
- Forse… - rispose, - Ma forse sognavo.
Non posso neanche dire quanto mi fece male sentirglielo dire.
Alice aveva una voce sottile e melodiosa. S’intrecciava tanto bene con quella di Sebastian – anch’essa sottile ma più ruvida e maschile – da darti i brividi lungo tutta la schiena.
Io li sentii cantare insieme una volta sola, e ne conservo il ricordo di un momento inquietante, commovente e dolorosissimo. Le loro voci sembravano nate per fondersi. Come il mare e la spiaggia. Come Sebastian e i sogni. Come me e la mia idea di lui. Cose nate per completarsi. Cose nate per trovarsi. Cose nate per stare unite.
Il venti gennaio duemilatre, un’altra parte della West Pier collassò su se stessa. Ne fece le spese la sala concerti. Era abbandonata da anni, ma era lì che avevo ascoltato Sebastian ed Alice esibirsi, con me come unico pubblico. Era stato lì che, di fronte all’enormità di complimenti che Sebastian le aveva riversato addosso in quell’occasione, l’avevo vista arrossire e stringersi nelle spalle. Era stato lì che avevo dovuto per forza prendere atto del fatto il magnetismo obliquo di Sebastian non fosse una mia esclusiva. Che i suoi effetti potessero essere tranquillamente percepiti anche dagli altri. Che Alice, per esempio, ne fosse colpita in pieno.
Era stato lì che avevo dovuto arrendermi alla sconfitta. Alice era innamorata di Sebastian. E Sebastian aveva bisogno di Alice.
Era il mio ultimo anno di liceo. I miei volevano mandarmi a studiare a Londra. Avevano lavorato tutta la vita solo per questo, glielo dovevo.
E sentivo che presto Sebastian ed Alice avrebbero preso il largo, avrebbero attraversato la Manica come Sebastian aveva sempre voluto e sarebbero diventati famosi. Per lui non sembrava più così importante ci fossi io al suo fianco. Alice sembrava bastargli. Sembrava occupare tutti gli spazi. Sembrava essere a posto così.
Io non saprei veramente collocare cronologicamente i fatti. Non hanno davvero avuto un ordine cronologico. Potrei elencarli, ma sarebbero una massa di informazioni confuse. Potrei dire che Sebastian ogni tanto spariva, per due o tre giorni, e tornava sempre un po’ più cupo e angosciato. Potrei dire che le sue distrazioni diventavano sempre più consistenti. Che la sua capacità di concentrazione sembrava scemare di giorno in giorno. Che si stava facendo sempre più riservato e restio a parlare di ciò che faceva, soprattutto quando spariva. Potrei anche dire che aveva cominciato a bere e che prendeva antidolorifici a ritmi impressionanti.
Se faccio l’elenco dei fatti non riesco proprio a ricavare niente di utile. Vedo solo dei momenti scollegati. Immagini cui non riesco a trovare un senso.
La maggior parte del tempo, Sebastian la passava con Alice. Ma sarebbe ingiusto dire mi avesse dimenticato: ero io ad allontanarmi da lui. Mi gettavo nello studio, frequentavo altra gente, facevo altro. Provavo a vederlo il meno possibile, ma lui continuava a cercarmi. Continuava a cercarmi, ma ogni volta che mi aspettava sotto casa al suo fianco c’era anche Alice. Ed io non riuscivo a sopportarlo.
La notte fra il ventisette e il ventotto marzo, Sebastian passò a prendermi sotto casa. Era una bella notte primaverile, fresca ma umida abbastanza da costringerti pure a sudare. Era perdutamente ubriaco. In un sacchetto aveva tre bottiglie di birra e un paio di panini.
Alice non era con lui.
- Andiamo in spiaggia? – mi disse, ridendo senza un perché.
O forse un motivo c’era ed a me non andava di starci a pensare. Se quel motivo c’era, fu lo stesso per cui risi anch’io ed accettai.
Non facemmo altro che ridere. E parlare. Di niente. Non gli dissi nulla di ciò che provavo, perché sapevo che non l’avrebbe ricordato. Non era solo una questione dipendente dal fatto lui fosse ubriaco: Sebastian non ricordava un sacco di cose, perciò ti dava l’idea di dare importanza solo a ciò che gli interessava davvero. Io non dovevo essere in cima alla lista, o almeno così supponevo. Perciò lasciai perdere. Pensai solo a divertirmi. A riempirmi gli occhi della sua immagine, a godere del silenzio della spiaggia e del vuoto che ci circondava, spingendomi quasi a credere io e lui fossimo gli ultimi esseri umani rimasti sulla faccia della terra.
Ricordo che, ubriaco com’ero, pensai di essere felice. Io e lui e basta: nessuno avrebbe potuto intromettersi.
Ubriaco com’ero, però, scorsi appena l’avvicinarsi di uno yacht illuminato a giorno da una baia non lontana alla West Pier. Lo scorsi appena e non dissi niente, continuai a ridere seguendo la traccia delle risate di Sebastian, e non so perché ridevo ancora quando vidi una minuta ombra scura sporgersi oltre il parapetto dell’imbarcazione e le prime piccole e timide fiammelle sprigionarsi lungo le venature e le crepe del legno, innalzandosi verso il cielo come volessero prendere il volo.
Ridevo ancora, e quando le fiamme avvolsero l’intero edificio smisi immediatamente.
Scoccava la mezzanotte, ed io compivo diciott’anni.
Di fronte a me, completamente ubriaco, Sebastian rideva e fissava l’incendio. I suoi occhi brillavano del riflesso delle fiamme. Il loro naturale e profondissimo castano sembrava essere stato completamente spazzato via, al punto che il suo stesso viso non sembrava più che il riflesso del disastro che stava osservando.
Io restavo dietro di lui, e ricordo che da un certo punto in poi non feci altro che piangere. Piangevo e piangevo. E sibilavo “bastardi” fissando il motoscafo illuminato e rumoroso di risate allontanarsi verso la baia dalla quale era venuto.
Sebastian si voltò a guardarmi e mi sorrise.
- Ehi… - sussurrò, avvicinandosi a me e passandomi un braccio attorno alle spalle, - Che c’è? Sbronza triste?
Io scossi il capo e mi slanciai verso di lui, stringendolo forte, aggrappandomi a lui come avevo fatto centinaia di volte quando risalivo dalle consuete arrampicate lungo i pilastri della West Pier e non mi sentivo tanto sicuro degli appigli che avevo usato per scendere. Mi aggrappai a lui e singhiozzai a lungo contro il suo collo, perché ero confuso e mi sembrava di non riuscire a ricordare più niente di quanto avevamo vissuto fra quelle vecchie ed ammuffite pareti di legno, ed avevo la certezza che quell’amnesia che profumava di fumo e cenere fosse dovuta unicamente a quell’incendio.
- Guarda che è tutto a posto… - mi rassicurò lui, quasi cullandomi. Si separò a me e mi baciò a fior di labbra. Fu il primo ed anche l’ultimo gesto romantico che ebbe nei miei confronti. Fra quelle stesse labbra raccolse anche le mie lacrime, e poggiò la fronte contro la mia, scrutandomi dolcemente negli occhi. – È un buon compleanno speciale, non lo vedi? Dal fuoco e da me.
- Non ti capisco… - biascicai incerto, passandomi una mano sugli occhi per asciugarli.
- Non devi capirmi. – ridacchiò lui, stringendomi forte ancora per un attimo, prima di separarsi da me, - Noi due non ci lasceremo mai, vero? – mi chiese poi, sorridendo lievemente. Ed io, per negare, scossi il capo tanto forte che mi venne la nausea.
Lui rise e mi prese per mano, trascinandomi velocemente verso la riva.
- Facciamo il bagno! – mi disse, chinandosi a sfiorare il pelo dell’acqua con due dita, - È tiepida!
Richiamo gli istanti alla memoria uno ad uno. La sensazione dell’acqua sulla pelle. Le prime sirene dei vigili del fuoco in avvicinamento. Il crepitio delle fiamme ed il rombare insidioso delle onde. I vestiti appiccicati addosso. La risata allegra di Sebastian. Il suo respiro vicinissimo quando riemerse a pochi centimetri da me e per un lungo istante non fece che guardarmi, enigmatico, mordendosi le labbra come avesse voglia di dirmi qualcosa ma si stesse obbligando a tacere. Lo sciabordio quasi discreto del mare attorno al suo corpo quando s’immerse nuovamente e si allontanò da me.
Il suono del battito del mio cuore che diventava man mano più forte e più veloce mentre lui non riemergeva. La mia voce che chiamava il suo nome, incrinandosi di più ogni volta che non riceveva risposta. Il mio sbracciare convulso fino a riva, il modo disperato e ridicolo in cui mi appesi al braccio del primo uomo che trovai strillando che Sebastian era sparito, non tornava su, e la voce dell’uomo che poneva domande cui non mi interessava rispondere, “Chi sei? Che ci fai qui? Perché stavate nuotando a quest’ora? Non hai visto che c’è la West Pier in fiamme?”, ed in fiamme non c’era solo la West Pier, c’erano i miei occhi, il mio cervello, il mio stomaco, i miei polmoni, ogni dannato centimetro del mio corpo bruciava come volessi piangere tutto. E non riuscivo a versare nemmeno una lacrima.
L’autopsia ci disse che Sebastian aveva un tumore al cervello.
Ci diede tutto ciò di cui avevamo bisogno per spiegarci ogni singola stranezza, ogni singola distrazione ed anche quella morte spaventosa che s’era imposto.
Tutti, in città, lo presero come l’ultimo gesto di disperazione di un ragazzo pieno di sogni che non avrebbe mai potuto realizzare.
Non so, sinceramente, come la prese Alice.
So come la presi io, però: come la certezza inoppugnabile quello fosse esattamente il finale che Sebastian voleva per sé. Un’uscita di scena in grande stile. Senza nemmeno un rimpianto. Credo avesse baciato anche Alice, prima di venire a prendere me. Non lo so con certezza – non potrò mai saperlo, non solo perché non gliel’ho chiesto allora e non potrei mai chiederglielo adesso, ma perché in realtà non ho mai avuto voglia di farlo – ma ne sono abbastanza convinto. Probabilmente, prima di uccidersi, quella sera, voleva dirmi anche qualcos’altro. Ma, se non l’ha fatto, vuol dire che non l’ha ritenuto necessario.
Voglio fidarmi.
Ho lasciato Brighton l’estate successiva a quel marzo. Vivo a Londra da allora. A Sebastian penso così spesso che ormai ha smesso perfino di fare male.
Richiamo tutti quegli istanti alla memoria. Li richiamo uno ad uno perché la mia memoria ne è ancora satura. So che l’aria era densa di suoni, quella notte: le urla, le fiamme, le risate, il mare, il mio cuore. Richiamo le immagini. Sopprimo i rumori. Nelle mie orecchie, sono morti anche loro.