Fandom: Originali
Genere: Introspettivo
Rating: R
- A Valentina decisamente non piace stare con suo padre. E portandola in campeggio per una settimana, lui non può che peggiorare la situazione...
AVVISI: Angst, Death.
Commento dell'autrice: Questa secondo me è una storia cazzuta XD Comunque, andiamo con ordine. , l'ambientazione campestre è una nota autobiografica. E , mio padre è uno stronzo. Ma no, non ho lasciato che si suicidasse buttandosi in un burrone XD Con questo, spero di aver risposto alle domandine morbose nella vostra testa <3 Parlando della storia, io mi sono divertita da morire a scriverla XD Sia perché, andiamo, mi ci ritrovavo e quindi era già di per sé divertente osservare situazioni che avevo vissuto con occhio diverso :D Sia perché c'è quel ragazzo che è spassoso XD Avevo bisogno di qualcuno che mettesse in testa alla protagonista l'idea della morte, o comunque del lasciar morire, e del dover fare qualcosa, ma che lo facesse con leggerezza, come non fosse poi una cosa così importante. Ora, ci sono solo tre categorie di persone che parlano della morte con leggerezza: gli scemi (e non intendevo usarne), le darkette e i pazzi. La scelta fra una femme-fatale darkettona e un gioviale pazzerello trentenne è stata dura XD Ma il pazzerello ha vinto, e con ottimi risultati, mi pare ù____ù Io lo adoro, è così stupido X'D In senso buono. Ringrazio moltissimo suinogiallo e Mary (non sue) per le importanti informazioni sul comportamento dei fulmini che si scaricano a terra X*
Nota: Questa storia ha partecipato al primo concorso della True Colors Community, ed è arrivata terza.
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CRIME

#10 Bianco e Nero


“Well I've had enough of these selfish cries
I hurt myself again not knowing why
It seems so easy to leave it all behind
And to void the truth I think I'd rather just go blind”
“Recognize” - Flaw



C’erano almeno tre cose, nel rapporto con suo padre, che la irritavano al punto che una volta o due, guardandolo, aveva desiderato vederlo morto. La prima era che quello non fosse realmente un rapporto, per quanto lui si ostinasse a considerarlo tale anche quando lei era la personificazione della freddezza, quando si trovava in sua compagnia. La seconda era che, nella sua ottusità, lui si considerasse un uomo degno e un padre amato. Sul serio. E come potesse crederlo, quando anche il più superficiale esame della situazione avrebbe dimostrato chiaramente il contrario, era un mistero. La terza… be’, la terza era una cosa sua. Era quella sua irritante e vergognosa incapacità di imporsi sugli altri, o almeno su di lui; quell’arrendevolezza che, malgrado quell’uomo la nauseasse, le impediva di stare a casa, come avrebbe voluto, e la costringeva ad andare con lui una volta ogni due sabati, per le prime due settimane d’agosto e un giorno per ogni festa comandata.
Non che non ci fossero dei lati positivi, in tutto questo. In fondo, suo padre era l’unico a darle dei soldi per uscire con le amiche e tutto il resto, e poi le faceva fare un sacco di cose e la portava in un sacco di posti che in sua assenza avrebbe solo potuto sognare, perché sua madre era una donna adorabile e tutto, ma era anche di una pigrizia sconcertante.
Eppure, nonostante gli evidenti vantaggi che portava frequentarlo, ogni volta che doveva lasciare casa sua per andare da lui si sentiva un po’ peggio, e il momento in cui lui la riaccompagnava a casa e lei scendeva dalla macchina e poi finalmente poteva varcare il portone del suo palazzo e correre su per le scale fino al suo appartamento e alla sua camera, quel momento assumeva connotati quasi mistici, e se avesse creduto di avere un’anima avrebbe detto sicuramente che era lei per prima a sentirsi alleggerita quando finalmente poteva smettere di vedere suo padre.
Erano passati ormai più di dieci anni da quando lui era andato via di casa, inseguendo la chimera di una donna giovane e bella che l’aveva abbandonato con un battito di ciglia senza neanche addurre una spiegazione. Più di dieci anni, e lei avrebbe dovuto essere forte, avrebbe dovuto essergli immune. E invece, chissà perché, malgrado lei lo considerasse poco più di un estraneo e infinitamente meno di un parente, continuava a farla soffrire. La faceva soffrire continuamente, bastava che aprisse bocca per dire una cosa qualunque, e lei si straziava. Non sopportava il suono della sua voce, non sopportava la sua voglia di divertirsi, non sopportava il suo essere irresponsabile, non sopportava neanche le sue idee, non sopportava il suo modo di pensare, tutto, di lui, le era odioso. E le faceva male costringersi ad ascoltarlo, ma non riusciva a smettere.
Questo, probabilmente, perché era una vigliacca. All’inizio, quando aveva riflettuto sui motivi della sua passività in quella situazione, s’era illusa di comportarsi così per bontà. Perché era una persona gentile. Sensibile. S’era detta “non gli dico di smettere di presentarsi a casa mia perché ho paura che lui poi possa prendersela con mamma e accusarla di avermi fatto il lavaggio del cervello e cose simili”.
Se l’era raccontata così per tantissimo tempo, prima di capire che no, non era bontà, e che non era nemmeno paura, non era neanche cercare di preservare la situazione nell’immobilità per evitare peggioramenti, no. Era qualcosa di più subdolo, era qualcosa di meno onorevole. Era qualcosa che, come persona, la rendeva nauseante. Era pigrizia.



*


L’estate era indubbiamente il periodo peggiore. Se, almeno, in inverno si trattava di un paio di giorni ogni quattordici, e comunque poteva sempre ignorarlo fingendo di dover studiare o qualche altra scusa idiota simile, d’estate non aveva neanche un appiglio cui aggrapparsi per evitare lo strazio.
Quindici giorni. Lei e lui soli persi da qualche parte in provincia.
Sì, perché lui aveva la fissazione del viaggio. Lui d’estate doveva partire, non poteva accontentarsi di andare al mare o in campagna o in montagna a qualche chilometro da casa come tutte le persone normali, no, lui doveva salire in macchina e costringerla a viaggi terribili per arrivare in qualche stupido agriturismo o qualche altra cosa come questa e obbligarla a passare là tutto il tempo, allontanandola da tutti i suoi amici e da tutti i suoi interessi per forzarla ad una full-immersion nei suoi.
- Pensavo di andare in campeggio! – le annunciò, entrando in casa dopo essere andato a fare la spesa, martedì mattina – secondo giorno di strazio.
- In campeggio? – chiese lei, quasi allarmata, presagendo il disastro, - Ma se non abbiamo neanche la tenda…
- In realtà era da un po’ che ci pensavo, per questo l’avevo già comprata. Quest’inverno.
Sconvolta, rimase a guardarlo, sperando stesse solo scherzando.
- Allora, che ne dici di partire domani?
- Domani?
- Sì. Tanto non è che andiamo in capo al mondo, andiamo a San Vito.
- …e dove sarebbe?
- In provincia di Trapani. Ho visto la pubblicità di un campeggio che sembra bellissimo. Anche il viaggio dovrebbe essere breve.
Non seppe che dire, perciò rimase zitta.
- Allora? Dai, sarà divertente. Solo io e tu.
Lo diceva, e lei lo sapeva che lo diceva con fiducia, con le migliori intenzioni. Solo che a lei già sembrava una condanna prima ancora di cominciare.



*


Non avrebbe potuto andare peggio.
Non solo la sudata interminabile del viaggio in macchina fino a San Vito – tre ore, altro che breve – non solo il caldo asfissiante sotto il quale avevano dovuto montare la tenda, non solo tutti gli inconvenienti più o meno tipici del campeggio – bagno alla turca e comunque irrimediabilmente sporco, acqua calda che andava e veniva, ma soprattutto andava quando era lei che si doveva fare la doccia, insetti, terra, noia e quant’altro – non solo, no, anche la pioggia.
Il sole li aveva salutati al loro arrivo, le aveva permesso di illudersi che avrebbe potuto eludere la compagnia di suo padre grazie a lunghe, infinite passeggiate sulla scogliera, e poi aveva pensato bene di fuggirsene via in una notte, lasciandoli – lasciandola – persa nel temporale.
E che temporale.
Lungo, fino a notte fonda, e violento, con raffiche di vento di inaudita potenza a sballottare la tenda qua e là mentre lei cercava di aiutare i picchetti nel loro disperato lavoro, piantando i borsoni più pesanti ai quattro angoli del pavimento in tela cerata, e mentre la pioggia battente impregnava le pareti e filtrava in piccole gocce ghiacchiate che le cadevano fra i capelli, sul collo e nella maglietta, riempiendola di brividi di freddo.
E quell’uomo. Quell’uomo del cazzo che dormiva beatamente. Che tre ore prima le aveva sorriso, aveva spento la torcia, si era accomodato sul materassino e le aveva detto che la tenda avrebbe sicuramente retto, che non c’era da preoccuparsi e l’unica cosa che potevano fare era dormire finché non avesse smesso.
Una parola. Soprattutto quando l’involucro che teoricamente dovrebbe proteggerti sembra avere tutta l’intenzione di volarsene via con la prossima sferzata e l’uomo che ti dorme accanto si appropria di un’intera piazza del materassino a una piazza e mezzo.
Simpatico.



*


Quando l’indomani mise il naso fuori dalla tenda, i suoi occhi non ebbero neanche il tempo di abituarsi a quell’assurda oscurità che vennero abbagliati da uno squarcio gigantesco, per quanto abbastanza lontano da non spaventare.
Per quale motivo fosse ancora notte, quando il suo orologio segnava qualcosa come mezzogiorno e mezzo, era un mistero. Non pioveva, ma le nuvole, nerissime e gonfie, erano talmente tante che si accavallavano confuse, al punto che era impossibile distinguere quando finiva una e cominciava l’altra, e il cielo sembrava dovesse trovarsi al di là di un tendone. Piccole, candide scariche accompagnavano le collisioni fra gli ammassi di nubi, ma queste erano talmente fitte che i fulmini rimanevano intrappolati fra di loro. Questo, almeno, era rassicurante.
- Senti… vado in bagno… - disse a suo padre, uscendo dalla tenda.
Scrutando la via per cercare di capire in quale punto del terreno fangoso fosse meno pericoloso mettere i piedi, cominciò ad avviarsi.
- Non fare troppo tardi! – gridò suo padre con tono fastidiosamente entusiasta, - Fra poco è pronto!
Lei lo ignorò e cercò di inerpicarsi sul vialetto sterrato che l’avrebbe portata alla strada asfaltata. Quando, finalmente, riuscì a raggiungerla, si sentì come avesse compiuto un’impresa straordinaria, e giurò di non andare in campeggio mai più, neanche a costo di morire.
I bagni erano straordinariamente frequentati, forse perché la gente s’era rotta di passare la giornata nella melma che circondava le loro tende. Lì, per quanto il locale non avesse pareti e gli unici posti veramente chiusi fossero gli scomodi bagnetti da un metro per uno, le piastrelle e il cemento impedivano all’acqua di annegare e distruggere le scarpe e i pantaloni, e perciò si andava lì per fare qualsiasi cosa, perfino per mangiare, appoggiati ai ripiani di mattoni accanto ai lavandini.
Suo padre no, invece. Eh. Suo padre doveva mangiare in tenda, perché la tenda aveva un locale riparato apposito, e poco importava che il suddetto locale poggiasse direttamente sul fango di cui sopra, no, lui non si sarebbe certo fatto fermare da queste piccolezze, lui e il suo dannato fornellino a gas vecchio di cent’anni.
D’improvviso, quando venne scossa da un brivido misto di freddo e urgenza, si ricordò che doveva andare in bagno, e corse verso l’unico che avesse ancora la porta aperta, rischiando di travolgere una bambina che stava seduta lì accanto e cercava di scostare il fango solidificato dalle suole delle sue scarpette di gomma.
Quando uscì, il posto era deserto. Di tutte le persone che ricordava ci fossero prima non ne era rimasta che una, e, a ben guardare, non ricordava di aver visto questa persona che c’era ora, prima di chiudersi la porta alle spalle.
E se ci fosse stato l’avrebbe ricordato.
Capelli cortissimi, tanto da non riuscire a identificarne il colore, espressione assorta, maglia rossa sdrucita, pantaloncini color kaki corti al ginocchio e infradito ormai talmente infangate da sembrare un tutt’uno col terreno, si lavava le mani, fissando con attenzione l’acqua che scorreva dal rubinetto e rigirandosi la schiuma fra le dita con cura quasi inquietante. Stava lì, si lavava e basta.
Lei lo imitò, concedendosi però molto meno tempo e molta meno attenzione, al punto che quasi pensò di non essersi lavata abbastanza a lungo.
Mentre lei si asciugava le mani, lui era ancora perso con gli occhi tra gli schizzi d’acqua e sapone.
Era un po’ spaventoso. Le sembrò di intuire perché tutti gli altri fossero spariti, ma cercò di non dar troppo peso a quel pensiero.
- Cos’hai usato per lavarti? – domandò lui all’improvviso. La voce era roca ma giovanile. Si chiese quanti anni avesse e non riuscì a immaginarlo.
- Che hai detto?
- Cos’hai usato per lavarti? Quale sapone? – insistette lui, sempre senza guardarla.
- Ah… non ne ho usato… - confessò lei, in imbarazzo, - Non ne avevo.
Lui, con un movimento lentissimo e pesante, trascinò una mano ancora bagnata ad afferrare il flacone che teneva accanto al lavandino, e glielo passò.
- Tieni. Usa questo.
Per la prima volta, sollevò lo sguardo su di lei e le sorrise.
- Devi sempre stare attenta alla tua igiene personale. Soprattutto in campeggio. È un posto sporco, non lo sai?
Un po’ disorientata dal discorso, annuì e prese il sapone, ringraziando. Si lavò di nuovo.
- Bene. – commentò lui, e sorridendo si asciugò e andò via.
Lei rimase a guardarlo scendere lungo la strada asfaltata, poi svanire dietro agli alberi del vialetto sterrato e riapparire poco dopo sulla piazzola delle tende. Lo vide fermarsi accanto a una tenda abbastanza piccola, poco distante da quella in cui stavano lei e suo padre. Quando poi lo vide entrare e chiudersi la cerniera alle spalle, posò lo sguardo sul ripiano accanto al lavabo e si accorse che aveva lasciato il flacone di sapone lì. Si disse che avrebbe dovuto ridarglielo, ma si ritrovò troppo spaventata per poterlo fare.



*


Ricominciò a piovere quasi subito, tanto che perfino suo padre dovette arrendersi di fronte all’impossibilità di continuare a mangiare seduti su una stuoia per terra, in quelle condizioni.
- Mi dispiace… - le disse, con espressione sinceramente affranta, - Avevano detto ci sarebbe stato bel tempo.
Quasi si commosse.
Scrollò le spalle.
- Fa niente. – disse, atona, strappando il velcro che chiudeva l’unica finestrella all’interno della tenda, e guardando fuori.
- Ti bagnerai… - constatò lui mentre già qualche goccia le si appiccicava sul viso.
- Fa niente. – ripeté lei, e fissò lo sguardo sulla tenda dell’uomo che aveva visto ai bagni.
Era completamente immobile. E le sfuggiva perché avrebbe dovuto pensare fosse giusto che si muovesse. Fatto sta che, siccome lui le era sembrato strano, non le sembrava possibile che, invece, la sua tenda fosse così anonima e tranquilla.
Un improvviso squarcio bianco nel buio la spaventò a morte. Tirò dentro il naso e si accoccolò sul materassino. Suo padre la coprì con un plaid, ma lei lo scostò immediatamente.
- Non sento freddo.
In realtà congelava e sentiva l’umidità impregnare ogni cellula, ma l’ultima cosa che desiderava in quel momento era che lui entrasse in modalità “mi-prenderò-io-cura-di-te”.



*


Per suo padre, il fatto che loro due potessero continuare a vedersi era di un’importanza vitale. Forse anche per questo non aveva mai smesso, perché aveva sempre avuto la netta impressione che se lui non avesse avuto quei due giorni ogni due settimane gli sarebbe successo qualcosa di terribile, qualcosa di cui poi lei avrebbe potuto sentirsi in colpa.
Viveva solo, con un cane pigro che non si premurava neanche di fargli le feste quando tornava alla sera, massacrato dal lavoro dell’intera giornata, e che era lui a dover cercare per concedere a sé stesso il calore di accarezzare qualcosa di morbido. Sua madre, una donna autoritaria e rigida per quanto innegabilmente affettuosa – almeno finché non le andavi contro – l’aveva praticamente diseredato e privato dell’appoggio della famiglia quando aveva abbandonato sua moglie. E la tipa dietro alla quale era morto era ormai sparita da anni, lasciandogli dentro qualcosa di irrisolto che gli impediva di provare a cercarsene un’altra.
Suo padre era un uomo infinitamente triste. Forse era per questo che la nauseava tanto. Era un uomo solo, era un uomo mentalmente e culturalmente povero – anche perché poteva pensare a poco oltre che al lavoro – e nel complesso era così… diverso da lei che ogni tanto si chiedeva come fosse stato possibile che lei crescesse in quel modo frequentandolo tanto.
In realtà non lo frequentava poi tanto, comunque. Giusto quanto aveva stabilito il giudice in sede di divorzio. Poi neanche lo chiamava. E questa cosa lo distruggeva, e lei lo sapeva. Era la sua piccola vendetta quando si sentiva incapace di fare altro.



*


Verso le cinque e mezzo del pomeriggio, suo padre dichiarò che non ce la faceva più a stare chiuso là dentro, e le chiese se le andasse di andare con lui fino in paese in macchina per accompagnarlo a comprare un pacchetto di sigarette e magari prendere un caffé.
Lei lo guardò come fosse stato pazzo.
Alla fine, lui andò via ugualmente, e, una volta rimasta sola, lei afferrò un libro dal suo zaino e cominciò a leggere. S’era portata dietro i libri che la prof di italiano aveva consigliato a tutti di leggere prima dell’inizio del quinto anno. Non le andava granché di immergersi nel “Piacere” di D’Annunzio, ma pensava che tanto non avrebbe potuto peggiorare la sua situazione, e che se c’era un momento, uno solo nella vita di un uomo, in cui forse era giusto mettersi a leggere un libro come quello, be’, quel momento era arrivato.
Si sbagliava.
Lo chiuse dopo poche pagine, spense la torcia e, aprendo la zip della tenda, guardò fuori per cercare di capire se stesse succedendo qualcosa. Era ancora notte, diluviava ancora.
E il tipo dei bagni stava immobile, nel mezzo della piazzola, bagnato come un pulcino.
Spalancò gli occhi, sconvolta. Sì, era strano. Era decisamente strano.
Guardando intorno vide di non essere l’unica presa dall’osservazione dello strano uomo: molte altre tende si erano dischiuse, a rischio di essere inondate d’acqua, e molti nasi facevano capolino dalle aperture, immobili e rossi per il freddo.
Quello che quel tizio stava facendo era una cosa pericolosissima.
Rimase a guardarlo fino a quando non si scrollò l’acqua di dosso e rientrò tranquillamente in tenda, lasciando la zip aperta.
Lei si sollevò in ginocchio, restando immobile al buio, col capo a lambire la tela, per molti secondi, e poi fece qualcosa che, se non fosse stata così disperatamente sola e abbandonata, non avrebbe fatto mai. Sfidando la furia degli elementi si precipitò fuori dalla tenda e corse verso quella dell’uomo, incespicando qua e là su ogni molle sporgenza del terreno. Ansimando, cadde in ginocchio sul pavimento e guardò fissa le gocce che dai suoi capelli cadevano e si schiantavano per terra.
- Hai fatto tardi! – disse lui con voce allegra, - La cena si stava raffreddando!
Lei sollevò lo sguardo e lui la baciò su una guancia, accarezzandole i capelli con un gesto talmente intimo che lei si spaventò.
Le sembrò molto giovane, in quel momento, ma quando lui si concentrò sui panini che aveva davanti, per scegliere quale fosse più giusto porgerle, le parse che fosse ritornato un po’ più vecchio.
Alla fine della sua riflessione, le diede un panino col prosciutto crudo e si sedette a gambe incrociate sul materassino che occupava tre quarti dell’ambiente, guardandola. Sorrideva come un bambino ed era ancora fradicio.
- Tu non mangi…? – chiese lei, imbarazzata. Era la prima cosa che diceva da quando era entrata là dentro, e le sembrò di una stupidità colossale.
Lui scosse il capo.
- Io non mangio mai! – disse, orgoglioso, - I militari si tengono in forma così!
Sì, era in forma, ma non sembrava magro come uno che non mangia mai.
- I militari si tengono in forma anche facendo la doccia sotto la pioggia?
- Sì! Tempra lo spirito.
- Capisco…
- Mangia. – le ordinò, perentorio, sempre sorridendo.
Un po’ intimorita dal suo atteggiamento, lei si ritrasse e poggiò il panino su un fazzoletto di carta per terra.
- Non ho molta fame, grazie… e poi non è ancora ora di cena…
L’espressione del ragazzo s’incupì.
- Non sei affatto cortese. – mormorò, afferrando con violenza il panino da terra e addentandolo.
- Ma… tu non eri quello che non mangiava mai…?
- Non posso sprecare il panino.
- Ma che c’entra, potevi sempre conservarlo!
- No, perché ormai te l’avevo dato!
Non capiva il senso.
Le venne spontaneo chiedergli quanti anni avesse.
- Trenta. – rispose lui.
- …posso essere sincera?
- Devi. – disse, incoraggiandola con sguardo sereno.
- Parli come un adolescente un po’ pazzo.
- Guarda che sei tu l’adolescente un po’ pazza.
- Cosa? Perché?!
- Chi si è infilato correndo nella mia tenda?
Be’, sì, era vero. Ma il modo in cui aveva reagito lui era stato ancora più strano della sua irruzione, alla fine dei conti.
- Ripensandoci… - disse lei, rilassandosi, - Penso che un panino potrei anche prenderlo.
- Ormai è tardi… - disse lui, serio, - Ormai è ora di colazione.
Mentre lei lo guardava, sconvolta, frugò in uno zaino gigantesco in un angolo e ne tirò fuori una tazza, un brick di latte e un pacco di cereali al cioccolato.
- Tieni, serviti pure! – disse gioviale, consegnandole tutto in mano.
Non si sentiva particolarmente in vena di mangiare latte e cereali, ma ricordò la reazione che aveva avuto quando s’era rifiutata di mangiare il panino e si costrinse a mangiarne almeno un po’.
Mangiarono in silenzio. Lui la guardava fissa e lei gli lanciava imbarazzate occhiate di sfuggita.
- Adesso devi andare via! – disse lui, agitandosi improvvisamente, quando ebbero finito di mangiare.
- Che? Perché?
- Perché sta arrivando mia madre! Se ti trova qui è la fine!
- …sei qui con tua madre…? Credevo fossi solo…
- Via, via! – le disse, spingendola poco delicatamente fuori dalla tenda, fin quasi a farla cadere nel fango.
- Ok, ho capito! Me ne vado! E vaffanculo! – sbraitò, infuriata, sotto la pioggia.
Lui sorrise.
- E poi sta tornando tuo padre.
- Come fai a dirlo?
- Vale! Che ci fai sotto la pioggia?
La voce di suo padre fendette l’aria e sovrastò perfino il rumore furioso della pioggia. Osservò l’uomo muoversi velocemente verso di lei, portando sottobraccio un sacchetto di plastica di quelli dell’Eurospin. Si voltò, cercando con gli occhi quelli del ragazzo, ma la tenda era chiusa.
Suo padre la raggiunse e la coprì con l’ombrello.
- Che ci fai qui?! – le chiese, sconvolto, - Sei fradicia!
- Avevo visto un gatto… - improvvisò lei, chiedendosi per quale motivo qualcuno avrebbe dovuto voler uscire dalla tenda per andare dietro a un gatto, con un tempo come quello.
- E che diavolo significa? – obiettò giustamente suo padre spingendola verso la tenda, - Va be’, dai, torna dentro che ti asciugo…
Lei si lasciò trascinare controvoglia, senza però opporre resistenza, ancora scossa.
Ci capiva un cazzo, di quel tipo.



*


Si svegliò in piena notte, accompagnata dal costante suono della pioggia e dal lieve bussare di qualcuno sulla tenda. Non disse niente.
- Vale… - mormorò una voce dall’esterno.
Era lui.
Terrorizzata dalla possibilità che suo padre si svegliasse, lo scavalcò e si affrettò a uscire dalla tenda, stringendosi nelle spalle nel disperato tentativo di risparmiare ad almeno un centimetro del suo corpo una doccia gelata.
Non venne colpita neanche da una goccia sola, un ombrello la protesse immediatamente quando mise fuori il capo. Lo reggeva lui. Però lui continuava a bagnarsi.
- Grazie… - mormorò, incerta sul da farsi, cercando di spingersi vicino a lui perché l’ombrello, seguendola nel movimento, lo coprisse almeno un po’. Il piano ebbe successo, ma lui non ne sembrò particolarmente entusiasta.
- Tienilo tu. – disse, lasciandole il manico in mano e scostandosi, per tornare a bagnarsi.
- Ti prenderai una polmonite! – disse, preoccupata.
Lui sorrise.
- Passeggiata? – le chiese innocentemente indicandole il sentiero.
- Ma è pericoloso…
- Non scivolerai. Promesso.
- Come fai a prometterlo? Non hai mica potere sulla mia sfiga o sulla stronzaggine del fango! E poi comunque che ore sono?
- E’ mezzogiorno. – disse lui, tranquillamente, guardando l’orologio che aveva al polso.
- …ma che mezzogiorno?! Saranno le tre o le quattro del mattino!
Si sporse, afferrandogli il braccio e guardando l’orologio. Era vecchissimo, e indubbiamente bloccato sulle dodici da chissà quanti anni.
- Guarda che quest’orologio è rotto…
- Ti sbagli, funziona benissimo.
Gli lasciò andare il braccio, arrendendosi, e nel movimento si accorse che portava la fede.
- Sei sposato…? – chiese, curiosa e un po’ incredula.
- No no – disse lui, scuotendo il capo, - E’ un anello magico che ho rubato a mio padre.
- …va be’, ho capito.
- Allora, ce la facciamo questa passeggiata?
Scrollò le spalle, e lui cominciò a camminare, prendendo il sentiero verso il mare.
- No, aspetta! – urlò lei, osservando quanto fosse ripido, - Lì è troppo pericoloso! Non ci voglio andare!
- Va bene. – disse lui, condiscendente, prendendo il sentiero nel verso opposto e dirigendosi così verso la strada.
Lei lo seguiva a mezzo metro di distanza.
- Allora… - disse, dopo molti minuti di imbarazzante – almeno per lei – silenzio, - …cos’è che fai, tu?
- Sono in campeggio, almeno fino alla fine della settimana.
- Sì, intendevo… cosa fai per vivere.
Lui la guardò, un po’ stupito.
- E’ facile… fa tutto da solo, basta che respiri. Il cuore è un muscolo automatico, non lo sai?
Basita, lei si fermò, e lo fissò come fosse scemo.
- Io intendevo che lavoro fai…
- Ah, ho capito! Devi essere più chiara quando parli, non lo sai? Sennò la gente non ti capisce. Comunque faccio il poliziotto.
- …il poliziotto? TU? Non ci credo neanche se me lo giuri!
- Ho anche una pistola, sai? Peggio per te se non ci credi.
Rabbrividì.
- Hai una pistola…?
- Sì, è ovvio, sono un poliziotto.
- Mh…
Non dissero più niente. Ascoltarono solo il rumore della pioggia battente sul terreno, e quello dei tuoni potenti che scuotevano il suolo, e lei quasi perse gli occhi nel fissare le scariche nitidissime che riempivano gli spazi fra le nuvole.
Lui la riportò alla tenda solo quando ebbe cominciato a piovere un po’ meno forte.
- Sei una ragazza simpatica, - le disse, salutandola con un sorriso, - anche se sei strana.
“Strana, io?”, si chiese lei, quasi divertita, mentre lo osservava sparire nella sua tenda.



*


L’indomani mattina smise di piovere verso le dieci e mezza, e suo padre decise di portarla a fare colazione al bar del campeggio.
- E’ un posto molto bello, io l’ho visto ieri, anche se sotto la pioggia ovviamente non era al suo meglio…
Lo seguì, più che altro perché aveva paura che se fosse rimasta in quella tenda un minuto di più se la sarebbe mangiata.
Passando davanti alla tenda del pazzo, cercò di capire se lui fosse dentro o no, ma la cerniera chiusa impediva qualsiasi tipo di ipotesi. Scrollò le spalle e lasciò perdere.
Il bar era effettivamente un posto molto grazioso. O almeno, doveva esserlo prima che il temporale folle delle prima ore della mattinata scoperchiasse il gazebo più piccolo e distruggesse il recinto bianco di quello più grande.
Guardò suo padre osservare il disastro e i poveri dipendenti affaccendati nel tirare su il salvabile, e lesse nei suoi occhi la consapevolezza del fallimento. Le fece una pietà infinita. Gli sfiorò una mano con due dita, e lui gliele strinse dolcemente. Lei si ritrasse.
- Mi dispiace… - le disse, affranto.
- Fa niente. – disse lei, scrollando le spalle, - Guarda, il chiosco del bar funziona. Possiamo prendere qualcosa.
Lui annuì con fiducia. Le offrì un cappuccino e un cornetto e continuò a chiederle se per caso non desiderasse dell’altro finché lei non sbottò annoiata che non voleva niente.
Rimasero in silenzio fino a quando lui non disse che si stava facendo tardi e che avrebbero fatto meglio a darsi una lavata e vedere di organizzarsi per il giorno, finché non pioveva. Lei gli consigliò di andare a lavarsi per primo, perché dal canto suo aveva ancora voglia di restare lì per un po’.
In realtà doveva soddisfare una sua intima fissazione. Da quando erano partiti insieme, lei non aveva speso un soldo, malgrado sia sua madre che sua nonna materna l’avessero abbondantemente rifornita in questo senso, e aveva lasciato che lui esprimesse l’affetto che provava per lei nel modo che gli era più congeniale, ovvero pagandole tutto quello che pensava lei non potesse permettersi. La cosa la infastidiva. Le piaceva essere almeno economicamente indipendente, nei suoi confronti.
Doveva comprare qualcosa coi suoi soldi.
Si avvicinò al bancone e cercò con gli occhi tra i pacchetti di caramelle in vendita, cercando di trovare qualcosa che incontrasse i suoi gusti e non rischiasse di nausearla per eccessiva dolcezza, ma non trovò nulla, quindi chiese un caffé.
Solo allora si accorse della biondina che, seduta su uno sgabello a sorseggiare una cioccolata calda, la fissava insistentemente, senza neanche provare a nasconderlo.
Si voltò a guardarla, infastidita.
- Sì? – chiese, poco delicatamente, aggrottando le sopracciglia.
La ragazza sorrise come a volersi scusare, e si strinse nelle spalle.
- Scusa, non volevo infastidirti… solo che non mi aspettavo di vederti qui, e allora…
- Per quale motivo non avrei dovuto?
- No, mi sono espressa male… è che io non mi aspettavo che avrei avuto la possibilità di parlare con te.
Sospirò.
- Scusa! – si affrettò a dire l’altra, ridendo, - Ho questo vizio, non sono mai chiara. Arrivo al dunque. Ieri notte stavo andando al bagno, sfidando l’iradiddio, incredibile la quantità di pioggia che mi sono presa in trenta metri, e guardandomi in giro chi vedo? Nientemeno che quel tipo! E siccome lo conoscono tutti e tutti sono abituati alle sue stranezze mi dico “va be’, capito, normale” e tiro dritto; poi mi volto ancora, giusto per curiosità e succede che vedo che è in compagnia! “Questo è strano!”, mi dico, soprattutto perché vedo che è con una ragazza, e stamattina becco te e guardacaso sei proprio tu!
Disorientata dal fiume in piena, guardò la ragazza con occhi pieni di smarrimento.
- Non capisco cosa vuoi dirmi. – confessò, stringendo i pugni.
- Insomma, niente, non è che voglio minacciarti o che voglio dirti tipo di stare alla larga da lui, capito, è solo che quel tizio è strano, ma strano assai, e quindi secondo me devi stare attenta, capito?
Annuì forzatamente.
- Com’è che lo conoscono tutti?
- Ma perché è tipo un cliente abituale, capito? Viene qui ogni anno. Pure io. A proposito, mi chiamo Vanessa, piacere.
- Valentina.
Si strinsero la mano.
- Comunque se non credi a me puoi chiedere a quella alla reception, che poi è anche la padrona di questo posto. Lei sa tutto, tipo, di tutti. Quindi saprà qualcosa anche di lui. Se non altro perché capito, io vengo qui da quasi nove anni e lui c’è sempre stato! Comunque niente, capito cosa volevo dirti?
Annuì.
- Ok. Allora adesso vado, che se oggi siamo fortunati e non ricomincia a diluviare forse possiamo farci una nuotata in piscina. Ciao! – disse, stampandole un bacione su una guancia come se la conoscesse da sempre e fuggendo via in uno svolazzare di gonnella cortissima e coloratissima.
Questa non era mica male. Era finita in quasi-intimità con lo scemo del villaggio.



*


Dopo averla osservata gravitare incerta intorno alla capanna delle informazioni per un tempo lunghissimo, la proprietaria del campeggio si decise a mettere il naso fuori dalla finestra e chiederle se per caso desiderasse qualcosa.
In quello stesso momento ricominciò a piovere.
- Venga, entri. – la invitò la donna aprendo la porta, - Non c’è motivo di stare là fuori.
Lei annuì e accolse l’invito con un sorriso imbarazzato, sedendosi sull’unica sedia vuota oltre a quella dove stava l’altra.
- Allora, in cosa posso esserle utile?
Si chiese se fosse giusto chiedere informazioni del genere. Si chiese anche se esporsi così non fosse del tutto inutile, dal momento che probabilmente le informazioni sui clienti erano informazioni riservate e la signora non gliele avrebbe mai date.
- Mi chiedevo… sa dirmi qualcosa sull’uomo che occupa quella piccola tenda blu accanto alla nostra, sulla piazzola…? La nostra è quella gigantesca verde…
La signora si preoccupò.
- Perché? L’ha infastidita?
- No, no, niente del genere, stia tranquilla… solo che ho sentito delle voci e mi chiedevo…
- Se preferite spostare la tenda da qualche altra parte non c’è problema, sa? Potete farlo oggi stesso, appena smetterà di piovere, s’intende…
- No, signora-
- Signorina. – ribatté la donna, piccata.
- Scusi. Non mi sento, intendo, io e mio padre, noi non ci sentiamo infastiditi, solo, capisce, era per curiosità personale, volevo solo sapere se poteva dirmi qualcosa su di lui…
La donna la guardò pensierosa per qualche secondo, prima di ricominciare a parlare.
- Vede, generalmente non facciamo molte domande ai nostri clienti. Basta che ci forniscano un documento d’identità per garanzia. E in questo senso quel signore è del tutto regolare. Solo che, praticamente, non è granché regolare con la testa, a quanto ho capito. Però, - aggiunse con tono rassicurante, - è del tutto innocuo, si fidi. Non ha mai fatto del male a una mosca, ed è già una decina d’anni che viene qui.
- Capisco… e… questi suoi comportamenti strani…
- Non so perché si comporti così. L’ha sempre fatto. Il punto è che non ha mai creato problemi, né per gli altri, né per sé stesso, quindi noi dell’amministrazione non ci siamo mai sentiti in dovere di fare niente.
- Mh… allora lei mi assicura che posso stare tranquilla? Intendo, che non è pericoloso proprio per niente?
La donna sembrò soppesare con calma le possibili risposte.
- Signorina, quanti anni ha lei?
- Diciassette.
- Be’, alla sua età dovrebbe sapere che con persone in queste “condizioni” non si può mai essere sicuri al cento per cento. Quindi, se la sua domanda voleva dire “è pericoloso che stia nella tenda accanto alla mia?” rispondo no, non è pericoloso. Ma se la domanda voleva dire “sarebbe pericoloso se cominciassi a frequentarlo?”, chi può dirlo. Mi capisce?
Sì, la capiva. E capiva anche il tono supponente e allusivo, lo capiva fin troppo bene, la nauseava, non aveva mai capito perché le persone non si lasciassero mai sfuggire l’occasione per stimolare la loro fantasia nelle maniere più morbose.
- Non si preoccupi, non intendo frequentarlo. – disse, infastidita, alzandosi in piedi.
La donna sorrise.
- In questo caso, non c’è nessun problema, no?
Lei annuì. La donna guardò fuori, pioveva ancora.
- Ha un ombrello? – chiese, osservando la sua maglietta a maniche corte.
Lei scosse il capo.
- Glielo presto. Buona giornata!



*


- Ti sei distratta molto, ultimamente.
Riconobbe subito la sua voce, e si voltò a guardarlo con uno scatto talmente veloce che l’ombrello le scivolò di mano e lei si bagnò tutta. Lui si chinò a raccoglierlo e glielo porse, sorridendole.
- In che senso? – chiese, tornando a ripararsi dalla pioggia.
- Nel senso che ti ho visto fare comunella col nemico. Non è stato molto carino da parte tua. Bisogna essere sempre fedeli al capitano, non lo sai?
- Prima di tutto, non ho fatto comunella con nessuno. - sbottò infastidita, - Secondo, chi sarebbe il capitano?
Lui ridacchiò.
- Ma io, ovviamente!
Le venne da ridere. Si appoggiò all’albero che aveva alle spalle, con un gesto molto civettuolo, rischiando di spaccarsi l’osso del collo scivolando sul fango. Lui non se ne accorse. Gli occhi gli brillavano. Sembrò captare l’invito. Le si avvicinò, poggiando il gomito sulla corteccia e la testa sulla mano, guardandola fissa.
- Non distrarti con le informazioni stupide. Concentrati su di me. – le bisbigliò a un centimetro dalle labbra.
Lei annuì.
Le sembrava così giovane. Aveva gli occhi vispi, di un verde chiaro e gelido che ipnotizzava. O forse solo lei poteva sentirsi ipnotizzata da un tipo simile.
Poi lui si allontanò e cominciò a camminare verso la sua tenda, come non fosse successo niente.
- Asp-
- C’è papà. – le disse, in tono canzonatorio, prima di sparire.
Puntualmente, suo padre apparve in lontananza, salutandola con una mano. Lei si rifugiò in tenda prima che lui potesse raggiungerla.



*


Quella notte, litigarono.
Lei si svegliò verso le tre, confusa e col mal di testa – ormai non facevano che dormire e mangiare, gli orari stavano cominciando a diventare indifferenti – accompagnata dalla solita, odiosa pioggia. Lui dormiva spensierato, allargandosi sul materassino.
Cercò a tentoni la torcia e, quando la trovò, la accese al minimo, facendosi strada fra le gambe di suo padre fino allo zaino dei libri. Aprendolo, per poco non morì. S’era totalmente allagato. Infilò una mano all’interno, rabbrividendo al contatto con l’acqua e con la superficie fradicia dei libri. Ne tirò fuori uno a caso e osservò le condizioni in cui era. Lo soppesò con cura fra le mani, lo aprì delicatamente, sollevò un paio di pagine stando attenta a non strapparle.
Le venne da piangere.
Suo padre mugugnò, aprì gli occhi e si mise seduto.
- Che…? – mormorò, massaggiandosi le tempie con le mani.
Lei lo guardò, disperata. Aveva tanto bisogno di una carezza consolatrice che non si sarebbe ritratta nemmeno se a dargliela fosse stato lui.
- Che è successo? – insistette lui, smarrito.
- Non lo vedi?! – sbottò, la voce rotta, - Si sono distrutti tutti!
Lui posò lo sguardo sullo zaino, esaminandone il contenuto da lontano.
- Ma cosa, i libri?
Lei annuì, sentendo le prime lacrime bruciarle gli occhi.
- Va be’, non è un problema. – disse lui con noncuranza, - Si possono sempre asciugare.
- Sì, ma si sono completamente rovinati! Alcuni erano vecchi!
Sollevò una copia degli “Indifferenti” di Moravia.
- A questo mamma teneva un casino! Era del ’65!
Ricominciò a rovistare, tirando fuori l’ultimo di Pennac, che non aveva ancora letto.
- Questo l’avevo comprato il giorno prima di partire! Coi miei soldi!
Distrutta, lasciò cadere il libro per terra e scoppiò a piangere, senza riuscire a frenare i singhiozzi. Suo padre continuò a guardarla, confuso, per tutto il tempo.
Si azzardò a dire qualcosa solo quando ebbe smesso di piangere.
- Vale, non capisco che cos’hai…
Lei sollevò lo sguardo, furiosa.
- Vaffanculo! – gridò, tirandogli addosso l’intero zaino e bagnandolo tutto.
Sconvolto, lui la fissò per un po’. Poi sembrò come risvegliarsi.
- Vai a cagare! – le urlò, gettando lo zaino di lato.
Lei si sollevò in piedi, rischiando di distruggere la tenda, afferrò l’ombrello e uscì.
- Aspetta, piove! – gridò suo padre cercando di liberarsi dal lenzuolo e fermarla.
- Me ne frego!
- Dove cazzo vai?!
- Non ti frega un cazzo di dove vado, vaffanculo! – gridò, dando un calcio alla tenda e allontanandosi di corsa.
Vagò a lungo fra il sentiero e la strada, annoiata dalla monotonia del percorso ma troppo spaventata dalle irregolarità del terreno per allontanarsi verso il boschetto poco distante. Si decise a ritornare verso la tenda solo quando il freddo le fu penetrato talmente nelle ossa da darle l’impressione di non avere più le mani, ma quando vide la familiare sagoma verde stagliarsi contro il buio della notte perenne in cui era piombato il campeggio, illuminata a scatti dai lampi furiosi del cielo e con la cerniera ancora aperta, in speranzosa attesa del suo ritorno, le venne da vomitare, e desiderò allontanarsi il più possibile da quel posto orribile, e sentì di star cominciando a piangere, e qualcuno la afferrò per le spalle e la strinse fortissimo, e lei si aggrappò al braccio che la stringeva appena sotto il collo, e vi piantò dentro le unghie, e sentì lui fare lo stesso sulla spalla che teneva fra le dita, e così rimasero, immobili, fino a quando lei non starnutì e lui la tirò dentro la sua tenda, senza spostarsi di un millimetro dal suo corpo.



*


Singhiozzò a lungo, stretta fra le sue braccia, strizzandogli il braccio fra le dita con forza inaudita, lasciandogli i segni delle unghie sulla pelle. E più lei stringeva più anche lui aumentava la presa.
Quando cominciò a sentire la spalla indolenzita, mollò il braccio, ben consapevole del fatto che lui non avrebbe mai lasciato per primo. Probabilmente, vedendola indietreggiare confusamente nella pioggia, s’era convinto che ciò di cui aveva più bisogno in assoluto in quel momento era essere abbracciata e sentire male da qualche parte.
Per poter piangere senza sentirsi troppo stupida mentre lo faceva.
Come ci fosse arrivato lui senza neanche conoscerla era un mistero, ma tant’è, stava cominciando ad abituarsi alle due doti di sensitivo folle.
- Scusa… - borbottò, tirando su col naso e cercando di ricomporsi e sciogliere l’abbraccio, ma lui non la lasciò andare.
La cosa la imbarazzò terribilmente.
- Quel gatto ti ha graffiata, vero? – le chiese lui con una vocina triste.
- Cosa…?
- Ho visto il gatto che ti saltava addosso, ho visto che ti graffiava e ti ho abbracciata. Lui quando mi ha visto si è spaventato ed è scappato via.
- Ah… - disse, disorientata, - Non me n’ero accorta…
Ma cosa, “non se n’era accorta”?! Non c’era nessun gatto! Era solo quella dannata tenda e quel suo cazzo di padre!
Sant’Iddio…
- Perché eri fuori a quest’ora? – le chiese, accarezzandole la spalla ancora dolorante, - Avresti potuto chiamarmi, ti avrei accompagnato…
- Avevo voglia di stare sola.
- Ah, ho capito. Hai litigato col tuo papà, vero?
Annuì.
- Anche io ho litigato con mia madre oggi! – disse lui in tono assurdamente trionfante, - Mi dici perché?
- Perché è uno stupido stronzo e non capisce niente.
- Lo siamo tutti. – asserì lui scrollando le spalle.
- Non è vero! – sì impuntò lei, voltandosi a guardarlo, - Non so come, ma tu mi capisci.
- Ma io sono il tuo fidanzato, è normale.
Si tirò indietro, improvvisamente terrorizzata.
- Che hai detto?
- “Ma io sono il tuo fidanzato, è normale”.
- Sì, guarda che tu non sei il mio fidanzato!
- Come no? Ma se stiamo insieme…
- Voglio dire, il mio comportamento avrà pure potuto essere ambiguo, ma non ti sarai messo in testa strane cose, eh? Se pensi che siccome sono venuta nella tua tenda allora finiremo a letto insieme, ti sbagli!
Lui la guardò stupito.
- Qua non c’è un letto. – constatò tranquillamente, guardandosi intorno.
- Letto, materassino, insomma, ma sei ottuso?!
Lui si mise in ginocchio e la raggiunse, lentamente, nell’angolino in cui s’era rincantucciata. Malgrado sentisse chiaramente di dover avere paura, non riusciva. E non voleva andarsene. Lui le diede una carezzina sulla testa.
- Abbiamo stabilito di aspettare dopo il matrimonio, non ricordi? – le disse dolcemente, guardandola con affetto.
Sospirò, socchiudendo gli occhi.
Si sentiva a disagio, ma era comunque meglio lì rispetto che con suo padre. Cercò d rilassarsi, tornando a sedersi compostamente vicino a lui.
- Vuoi la pistola? – le chiese lui a bruciapelo.
Lei sollevò lo sguardo su di lui, cercando di capire se facesse sul serio o meno. La sua espressione era indecifrabile, e i suoi occhi non volevano dire proprio niente, così come il tono della sua voce. L’aveva detto per scherzo? L’avrebbe fatto sul serio? Gliel’avrebbe proprio data, quella pistola?
E poi, a prescindere dal fatto che quell’uomo fosse o no davvero un poliziotto, una pistola nelle sue mani era comunque pericolosa.
- Allora, la vuoi? – insistette lui, sempre guardandola.
- Che ci dovrei fare, scusa? – chiese, agitandosi.
- Ammazzare il gatto, chiaramente.
Spalancò gli occhi.
- Eh?
- Ti ha graffiato. Ti ha fatto tanto male. Merita di morire.
- No, aspetta… il… il “gatto” non merita di morire… nessuno merita di morire, capito…?
Lui scrollò le spalle.
- In fondo, è solo un animale.
- No! – gridò lei, scattando in ginocchio, - Non è solo un animale! Togliti questa idea dalla testa!
- Se vuoi posso anche aiutarti.
- Non ci provare! Non provare ad andare ad ammazzarlo al posto mio, capito?!
Ancora, lui la guardò stupito, come non capisse le cose che stava dicendo.
- Non mi passa nemmeno per la testa. Devi farlo tu, io non ho nulla contro di lui.
- Non esiste! Ma lo sai che è un crimine? E io dovrei mettere a rischio la mia libertà per quello stronzo? Non esiste!
- Nessuno mette in galera una ragazzina perché ha sparato a un gatto…
- Sì, va be’, ho capito…
Esasperata, fece per uscire dalla tenda, ma lui ebbe un tremito improvviso, l’afferrò per un braccio e l’attirò a sé, stringendola forte, tappandole gli occhi con una mano. In quel momento, a circa quindici metri di distanza fra loro, un fulmine si scaricò sul terreno, annullando il buio per molti secondi. Ma lei non poté vederlo. Sentì solo il fragore di un tuono potentissimio, e lui che la stringeva, isolandola da tutto il resto.
La lasciò andare dopo molti minuti. Lei si stropicciò gli occhi e lo guardò.
- Un fulmine. – disse lui, a mo’ di spiegazione, - Se fossi uscita da qui sarebbe stato pericoloso.
Continuò a guardarlo. Lui le sorrise.
- Mi dispiace se sono stato brusco. Mi sono solo preoccupato.
Lei scosse il capo.
- Grazie… - bisbigliò, abbassando lo sguardo.
- Ehi… - la rassicurò lui prendendole il mento fra le dita e costringendola a guardarlo negli occhi, - E’ tutto a posto?
Annuì.
- Sembri scossa…
- Lo sono…
La strinse fra le braccia con rinnovata dolcezza.
- Se vuoi puoi restare qui per stanotte. – le disse in un orecchio, cullandola fra le braccia come una bambina, - Prometto che farò il bravo, se lo vorrai.
Si sentì indicibilmente commossa, scoppiò a piangere e lo abbracciò stretto, nascondendogli il viso sul collo e stropicciandogli la maglietta sulle spalle. Lui continuò a tenerla fra le braccia.
- Stai così male perché non riesci a liberarti. – disse lui, col tono di chi la sapeva lunga, - Devi fare qualcosa, e devi farlo tu.
Lei singhiozzò, annuendo.
- Sì, lo so… è che non sono abbastanza forte…
- Ma sì che lo sei… infondo non devi mica ammazzarlo sul serio. Devi solo parlare. Parlare non è faticoso. I muscoli della bocca non si stancano per qualche parola.
- Tu dici così, ma parlare è faticoso… parlare è una fatica infinita, è più faticoso di tutto il resto…
- Non è vero, parli così solo perché sei ancora piccola… parlare non è faticoso. Puoi farcela. Sicuramente.
Rincuorata dal pianto e dalle sue parole, ascoltò la pioggia sbattere sulla plastica che la circondava, finché non si addormentò.



*


La prima cosa che sentì, l’indomani mattina, fu la voce di suo padre che urlava il suo nome, da qualche parte all’esterno del caldo abbraccio dell’uomo ancora addormentato accanto a lei.
Le ci volle più di qualche minuto per capire. Ma quando realizzò non si sentì spaventata, non si sentì neanche il colpa e non si sentì in imbarazzo per la discussione che avrebbe dovuto affrontare con suo padre dopo avergli detto di aver passato la notte nella tenda di uno sconosciuto.
Si liberò lentamente dalla stretta del suo compagno, cercando di non svegliarlo, e uscì nel grigiore della mattinata colma di nuvole, per quanto quasi asciutta.
Suo padre era fermo in mezzo alla piazzola. Quando la vide, si immobilizzò. Aveva gli occhi rossi e gonfi, lo sguardo di un pazzo. Un pazzo vero.
Le si avvicinò a passo di carica, e quando lei pensava che avrebbe ricevuto uno schiaffo forte tanto da mandarla a terra lui invece la superò e mise mano alla piccola tenda blu alle sue spalle, cercando – senza riuscirci – di sradicarla da terra.
- Esci fuori, pezzo di merda! – gridò suo padre, quasi senza voce, strattonando la cerniera, cercando di aprirla.
Da dentro non giunse un movimento e neanche un lamento.
Quando lei riuscì a riprendersi dallo shock per averlo visto agire così, si precipitò accanto a lui, afferrandolo per una spalla e provando a fermarlo.
- Basta! Stai tranquillo! Non è successo nulla! È un mio amico!
Lui si voltò d’improvviso, e le diede lo schiaffo che prima non aveva avuto il tempo di darle. Non l’aveva mai picchiata.
Sconvolta dal dolore – ma mai quanto lui lo fosse da quello che aveva fatto – riuscì a mantenere un’espressione gelida e a fissarlo negli occhi con superbia.
- Ti sei calmato? – gli chiese, secca.
Lui si passò una mano sugli occhi.
- Scusa… - le disse, abbandonando le braccia lungo i fianchi.
Lei si voltò e camminò verso la tenda verde.
- Vieni. – ordinò, senza guardarlo.
Lui la seguì.
Tre quarti d’ora dopo, gli zaini erano pronti e la tenda chiusa nel suo involucro.
- Comincia a mettere queste cose in macchina. – disse, perentoria, - E aspettami lì.
Lui, troppo in imbarazzo, troppo addolorato, troppo triste e troppo deluso per potersi far valere come padre, annuì e obbedì, tenendo lo sguardo basso.
Lei bussò alla tenda blu.
- E’ andato via. – disse per rassicurarlo.
Lui le aprì subito la cerniera e la accolse all’interno, abbracciandola. C’era un sacco di paura, in quell’abbraccio.
- Avevo visto male. – disse lui, con voce un po’ tremante, - Non era un gatto, era una tigre. Ora capisco perché avevi paura.
Lei sorrise.
- No, no. Avevi ragione tu. Era solo un gatto. Io credevo fosse una tigre, ma non lo era.
- Però poco fa ha cercato di distruggere la tenda a zannate.
- Sì, lo so. Ma era sempre uno stupido gatto incazzato. Se fosse stata una tigre sarebbe riuscita ad entrare, no?
Lui si lasciò rassicurare dalla sua voce dolce, e si abbandonò sopra di lei, respirando tranquillamente.
- Stai andando via, vero? – le chiese, senza un frammento di dolore né di allegria nella voce.
- Mh. – annuì lei, accarezzandogli i capelli.
- Ci rivedremo presto. Dobbiamo sposarci. – le ricordò lui. Sogghignò, - E poi dobbiamo consumare.
Lei rise, ed era la prima volta che riusciva a farlo senza aver subito dopo voglia di piangere.
- Già. Hai ragione. – gli disse, - Adesso devo andare. Mi sta aspettando.
- Chi?
- Mio padre… probabilmente ha già messo in moto.
- Ah, capisco. Questo momento così è durato un po’ troppo poco, lo sai?
Sorrise, si spostò e la lasciò alzarsi e uscire.
- Attenta a dove metti i piedi. – le disse dopo che lei ebbe mosso qualche passo, - Verso l’autostrada ci sono un sacco di curve pericolose.
Agitò una mano in segno di ringraziamento e di saluto.
- Attenta, mi raccomando! – continuò lui, - Ci sono dei tratti in cui manca il guard-rail!
- Sì, sì… - disse ad alta voce, senza voltarsi, perché lui potesse sentirla e, finalmente, rassicurarsi.
- Aspetta, ancora una cosa!
Non fece caso alla strana vicinanza della sua voce, perciò, quando si voltò per tranquillizzarlo definitivamente sulla sicurezza della sua vita, e se lo trovò davanti, sorridente e con un pacco in mano, quasi perse l’equilibrio per la sorpresa.
- Quasi mi dimenticavo! – disse, con la voce più allegra del mondo, - Sono innamorato di te!
Lei arrossì e si rese conto di non riuscire a pensare a niente.
Era la prima volta che le facevano una dichiarazione d’amore.
- Questo è per te! – le disse, porgendole il pacchetto, - Aprilo poi. Ti aiuterà. Ti voglio bene!
La abbracciò, con impeto e con calore; durò solo un attimo: quasi subito, lui si separò da lei e tornò in tenda quasi saltellando per l’allegria.
La dolcezza di quell’abbraccio, e di ogni abbraccio, e di ogni parola che le aveva detto da quando l’aveva vista per la prima volta, si condensò tutta nel suo sorriso. Strinse il pacco fra le braccia e s’incamminò verso la macchina. Mentre costeggiava la strada, andando verso l’uscita del campeggio, passò sopra al segno che aveva lasciato il fulmine cadendo a terra, la notte precedente. Una grande chiazza rotonda di erba carbonizzata e terriccio smosso. Le sembrò fosse stato importante non esserci andata di mezzo. Le sembrò fosse stato importante che lui gliel’avesse impedito.



*


Mentre percorrevano la strada tutta curve che li avrebbe condotti all’autostrada, non poté fare a meno di pensare a quanto idiota fosse stata l’ostinazione di suo padre nel trattenersi in campeggio così a lungo, nonostante il tempo orribile. Durante la loro permanenza lì avevano visto la gente che era lì prima di loro cedere dopo la prima notte di temporale. Avevano visto nuova gente arrivare, e avevano poi visto quella stessa gente smontare tutto alla prima occasione favorevole e fuggire via da quell’inferno. E così via, per un altro gruppo di sfigatissimi campeggiatori.
Questo, pensò, diceva molto di suo padre. Diceva molto della sua incapacità di vedere e riconoscere i propri errori, diceva molto della sua incapacità di cedere anche solo di poco, piuttosto che ammettere che magari l’idea che aveva avuto non era stata esattamente la migliore. Diceva anche quanto fosse facile, per lui, ignorare i disagi che creava negli altri pur di continuare a illudersi che fosse tutto rose e fiori.
Per questo, non era molto di buonumore quando, dopo molti minuti di guida silenziosa, suo padre mormorò “Scusa per poco fa…”, con voce rotta, in attesa di redenzione.
- No. – disse, secca, guardando il mare oltre lo strapiombo su cui si affacciava la strada, cercando di fissarsi sul suo grigio intenso per scansare l’immagine delle goccioline di pioggia che scivolavano lente sulla superficie del finestrino, e che le ricordavano lui.
Suo padre si morse il labbro inferiore.
- Senti, lo so che non avrei dovuto darti uno schiaffo… in fondo, ormai sei grande. Chi sono io per impedirti di passare la notte con chi vuoi?
- Appunto.
- Però cerca di metterti anche nei miei panni, cos’avrei dovuto fare?
- Tacere, per esempio.
Era sempre stata fredda con suo padre. Ma mai indisponente al punto di infastidirsi da sola.
Lui sospirò.
- Va be’, non smetterai certo di volermi bene per una cosa come questa… - ironizzò, accennando una risatina.
Lei lo fissò.
- Smetterei. Te lo assicuro. Lo farei, se solo prima ti avessi voluto bene davvero.
Suo padre si voltò a guardarla, smarrito. Frenò improvvisamente, fermandosi nel mezzo della strada. Fortunatamente, non c’erano macchine né davanti né dietro di lui.
- Sei pazzo? – gridò, spaventata, - Potevi causare un incidente!
- Che intendi? Cosa volevi dire poco fa? – chiese lui a voce bassa, sempre guardandola con quell’aria innocente e ignara.
Sospirò. Strinse il pacchetto fra le mani.
- Non ti ho mai voluto bene. Ho lasciato che tu lo credessi perché non avevo abbastanza coraggio per dirtelo in faccia.
- Quanto hai aspettato per dirmi questa cosa…?
- Sempre. Tutta la vita. Ora posso dirtelo perché dopo una settimana come questa me ne sento finalmente in grado.
- No, non è vero… quando eri piccola… mi ricordo che quando eri piccola mi volevi bene…
- Certo. Ti adoravo. Come tutti i bambini piccoli adorano il loro papà, è naturale, te lo dice l’istinto, è così. Ma sei uno stronzo. Sei un egoista. Sei una persona che, non ci fossero in mezzo legami di sangue, non penserei mai di frequentare. Quindi basta, non voglio più vederti.
Lo osservò stringere la presa delle mani sul volante, fino a che le nocche non si fecero bianchissime. Si lasciò ipnotizzare da quel graduale cambiamento di colore. Sarebbe stato comunque più interessante di vederlo mentre cominciava a piangere.
- Non puoi farmi questo, Vale… ti prego…
- No.
- Ti prego… io faccio una pazzia, se dici che non vuoi vedermi più… te lo giuro, Vale, non scherzo…
Sospirò.
Le costò uno sforzo enorme. Più di quanto non avrebbe mai pensato, dopo essersi svuotata tanto con quello che gli aveva detto. Ma aprì la portiera e scese dall’automobile. Si bagnò tutta e non le interessò. Chiuse lo sportello e osservò il volto di suo padre sbiancare e diventare spaventoso, attraverso il finestrino bagnato.
Si allontanò di qualche passo.
Lui gridò. Piantò il piede sull’acceleratore, e lei osservò la macchina fare la sua strada fino al burrone, e gettarsi giù come fosse stata senza peso.
Si precipitò sul ciglio della strada, guardando in basso, attenta a non scivolare.
Vide la macchina sbattere qua e là sulle sporgenze della roccia. Immaginò dovesse fare male, trovarsi là dentro.
Poi, a un certo punto, la macchina si schiantò contro uno scoglio, e si accartocciò su sé stessa. Allora sì, allora fu sicura che, se suo padre era ancora abbastanza cosciente per sentire dolore, quello doveva aver fatto male, e… fu soddisfatta. Sinceramente. E spensieratamente.
Mentre osservava la carcassa bruciare, impigliata fra gli scogli più alti, senza neanche l’acqua del mare a coprire quello scempio di lamiere contorte annerite dal fuoco, capì che per quel disastro era colpevole quanto suo padre, ma la sua colpa non era averlo lasciato uccidersi in quel momento e in quel modo, no, la sua colpa era avergli dato abbastanza speranza da impedirgli di farlo prima.
 
 



“Then everything erupts
My life has come unglued
And the ties that they have left me…
…What am I to do?”
“Recognize” - Flaw
back to poly

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