Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG
AVVISI: Angst.
- "In tutte le relazioni, arrivati ad un certo punto, inevitabilmente qualcosa all’interno del rapporto cambia. Non si esaurisce né finisce del tutto, mai, perché qualcosa di te resta sempre negli altri e qualcosa degli altri resta sempre dentro di te, ma basta che si perda anche un solo mattoncino dell’incastro che teneva in piedi l’impalcatura del vecchio “noi”, perché ci si ritrovi davanti ad una scelta obbligatoria – perlopiù poco piacevole.
Quando accade, puoi decidere di restare te stesso e lasciare andare l’altra persona per la propria strada; in alternativa, puoi decidere che non se ne parla e cambiare forma anche tu, modificarti assieme alla relazione, fare di te stesso il collante che rinsaldi ciò che sembra si stia spaccando prima ancora di cominciare a piegarsi.
Con Steve… diciamo che l’abbiamo lasciata andare.
E diciamo pure che non l’ho deciso io, però."
Commento dell'autrice: No, non ho assolutamente nulla da dire, e anche se avessi qualcosa da dire giuro che la tratterrei ^^ È dedicata a una persona che non deve leggerla, e che se lo farà quando non sarà ancora pronta mi premurerò di picchiare personalmente con una scopa <_< *minaccia neanche troppo velata*
Certe cose sono molto stupide. Possono anche venire bene, ma restano sfoghi idioti. Solo che hai bisogno di buttarli fuori, perché come ripeto da giorni a chiunque chieda perché sto perdendo tempo, ognuno ha il proprio modo di elaborare i lutti XD
Perciò scusate. Ma spero possa servire anche a voi com’è servito a me XD
Pairing: Nessuno.
Rating: PG
AVVISI: Angst.
- "In tutte le relazioni, arrivati ad un certo punto, inevitabilmente qualcosa all’interno del rapporto cambia. Non si esaurisce né finisce del tutto, mai, perché qualcosa di te resta sempre negli altri e qualcosa degli altri resta sempre dentro di te, ma basta che si perda anche un solo mattoncino dell’incastro che teneva in piedi l’impalcatura del vecchio “noi”, perché ci si ritrovi davanti ad una scelta obbligatoria – perlopiù poco piacevole.
Quando accade, puoi decidere di restare te stesso e lasciare andare l’altra persona per la propria strada; in alternativa, puoi decidere che non se ne parla e cambiare forma anche tu, modificarti assieme alla relazione, fare di te stesso il collante che rinsaldi ciò che sembra si stia spaccando prima ancora di cominciare a piegarsi.
Con Steve… diciamo che l’abbiamo lasciata andare.
E diciamo pure che non l’ho deciso io, però."
Commento dell'autrice: No, non ho assolutamente nulla da dire, e anche se avessi qualcosa da dire giuro che la tratterrei ^^ È dedicata a una persona che non deve leggerla, e che se lo farà quando non sarà ancora pronta mi premurerò di picchiare personalmente con una scopa <_< *minaccia neanche troppo velata*
Certe cose sono molto stupide. Possono anche venire bene, ma restano sfoghi idioti. Solo che hai bisogno di buttarli fuori, perché come ripeto da giorni a chiunque chieda perché sto perdendo tempo, ognuno ha il proprio modo di elaborare i lutti XD
Perciò scusate. Ma spero possa servire anche a voi com’è servito a me XD
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COME CLEAN
In tutte le relazioni, arrivati ad un certo punto, inevitabilmente qualcosa all’interno del rapporto cambia. Non si esaurisce né finisce del tutto, mai, perché qualcosa di te resta sempre negli altri e qualcosa degli altri resta sempre dentro di te, ma basta che si perda anche un solo mattoncino dell’incastro che teneva in piedi l’impalcatura del vecchio “noi”, perché ci si ritrovi davanti ad una scelta obbligatoria – perlopiù poco piacevole.
Quando accade, puoi decidere di restare te stesso e lasciare andare l’altra persona per la propria strada; in alternativa, puoi decidere che non se ne parla e cambiare forma anche tu, modificarti assieme alla relazione, fare di te stesso il collante che rinsaldi ciò che sembra si stia spaccando prima ancora di cominciare a piegarsi.
Con Steve… diciamo che l’abbiamo lasciata andare.
E diciamo pure che non l’ho deciso io, però.
Sinceramente, credo di averlo detestato sul serio, in quel momento. E non mi era mai successo, con lui, perciò mi sono ritrovato del tutto impreparato di fronte a quel tipo di sentimento e ho fatto scena muta per tutto il tempo, rannicchiato sulla poltrona più scomoda dell’universo intero, con Stef accanto che sembrava in procinto di scattare per afferrarmi una mano come gesto consolatorio e il mio batterista che continuava a sciorinare perché su perché su montagne di rassicurazioni inutili che neanche ho percepito.
È stato davvero poco onesto da parte sua comportarsi così.
Avrebbe dovuto prima parlare da solo con me, così avrei potuto ricoprirlo d’insulti. Solo dopo sarebbe dovuto andare da Stef, che invece l’avrebbe trattato con riguardo e l’avrebbe rassicurato sul fatto che mi sarebbe passata presto. Io avrei avuto una scusa più che valida per restare incazzato a morte e chiudermi in uno scantinato per non parlare con anima viva fino a marzo, mentre Stef sarebbe andato in giro a sviscerare il problema coi giornalisti di tutto il mondo, e saremmo stati tutti più contenti. D’altronde, Stef adora le chiacchiere in libertà, non sarebbe stato un dramma per lui.
E invece no. Steve ha ritenuto opportuno trattarmi come l’adulto che ogni tanto dimentico di essere, dimenticando a propria volta di stare mettendomi nella condizione perfetta per provare a comportarmi come un bambino. E, non pago, ha frustrato la mia naturale spinta verso l’infantilismo con la presenza di Stef in quella stanza.
Un piano diabolico e perfetto, non c’è che dire.
È esattamente questo, quello che sto pensando adesso. Di fronte a un piatto di spaghetti alle vongole. Mentre la mia compagna distribuisce il condimento residuo dal pentolino ai piatti e incassa con un sorriso schivo e imbarazzato i complimenti di sua moglie. E sua figlia tenta con non troppo successo di imboccare mio figlio con mini-porzioni della banana schiacciata che ha nel piattino, sul seggiolone. E il mio batterista mi guarda, dall’altro lato del tavolo. E io so che dovrei cambiare terminologia. Smettere di pensare a Steve in questi termini – come “il mio batterista”, intendo.
…ma sono undici fottuti anni, cazzo. È impensabile che io perda l’abitudine in una settimana.
Il punto è il seguente.
È che dopo undici anni non ho più un batterista e non ho alcuna voglia di cercarmene un altro.
È che Steve mi ha detto di non voler più far parte dei Placebo, e l’ha fatto sorridendo.
È che, dopo che l’ha fatto, io ho fissato il vuoto per minuti interi, cercando di capire cosa fare della mia vita da adesso in poi, e dopo ho dovuto ricordare di essere Brian Molko e correre a rilasciare dichiarazioni idiote che solo a rileggerle mi danno la nausea.
È che non tutto ciò che ho detto alla stampa è completamente falso.
È che, al di là delle belle parole, di tutti i bei fiocchetti con i quali decoro il pacco enorme che sto lanciando sul mondo, mi sento davvero come alla fine di un matrimonio, con niente in mano se non un monte di debiti con me stesso e coi fan e un mucchietto di macerie sbriciolate dalle quali dovrò ricominciare in primavera.
È che non ho mentito, ho solo omesso particolari.
È che quei particolari, incidentalmente, erano le parti importanti.
Il punto è che forse io ho “bisogno” di un confronto, ma di sicuro non voglio affrontarlo.
Il punto è che, nonostante tutto, niente di ciò che sto pensando servirebbe a scuotere quel sorriso incrollabile dal volto di Steve.
Che io lo trovo crudele.
Che non lo è davvero.
E che non mi interessa.
Parlano tutti tranne me.
Helena chiede cose a Rita, Emily continua imperterrita a giocare con Cody mentre Steve lo tiene in braccio e cerca di fargli maneggiare due sonaglini a ritmo di qualcosa che non riesco a riconoscere.
Guardo tutto come non fossi qui, in questo momento, e credo sia una bella scena. Un quadretto amichevole, quasi familiare.
- Emily, a Cody hanno regalato una bellissima tastiera karaoke, per il suo compleanno… ti va di darle un’occhiata? – chiede Helena sorridendo, alzandosi dal divano sul quale stava chiacchierando con la moglie di Steve.
La bambina batte entusiasticamente le mani e prende goffamente in braccio mio figlio, arrancando verso la cameretta fra le risate tenere delle due donne.
Quando anche Rita abbandona i cuscini e guarda Helena, capisco che il momento si sta avvicinando.
- Andiamo a preparare il caffè? – chiede la mia compagna, fintamente distratta.
Rita annuisce e la segue in cucina.
Steve resta seduto nella sua poltrona, io resto seduto nella mia.
Lui sa che, se potessi, scatterei in piedi e correrei da Stef. Perché adesso avrei bisogno di lui. Adesso, che anche se scoppiassi a piangere o mi mettessi a urlare e tirargli addosso piatti, saprei di non avere nessuna scusante per farlo. Dopo una settimana, dopo tanti saluti e rassicurazioni al telefono, “continueremo a frequentarci, potremo ancora parlare di musica, non sono mica morto, Brian!”, adesso non avrei più nessuna scusa, nessuna bugia con cui mascherare la vergogna e l’imbarazzo e la paura.
Siamo io e Steve, l’uno davanti all’altro.
Sono io con la mia stupida nostalgia in anticipo.
È lui con la sua fottuta serenità, in anticipo anche lei.
Sentimenti come questi non dovrebbero venir fuori dopo anni dalla separazione…?
…in quei momenti in cui dici “sì, quello che c’era mi manca, ma ormai sto bene”…
Siamo troppo avanti rispetto ai tempi naturali delle cose, Steve… è per questo che ci sto male.
- Tu mi odi.
Sollevo lo sguardo.
Per meglio dire, non l’ho mai abbassato. Fissavo Steve, ma non lo stavo davvero guardando. Perciò si può dire che più che altro metto a fuoco la sua immagine e ritorno al mondo dei vivi.
- Stronzate. – dico d’impulso, sentendo un’ondata di calore sopraffarmi dai polmoni fino al collo.
Ho bisogno di una sigaretta.
Allungo una mano troppo incerta verso il tavolino accanto alla poltrona e sbatto un paio di volte contro la base del lume prima di raggiungere il pacchetto e catturarlo fra le dita.
Porto una sigaretta alle labbra e cerco l’accendino, ma non lo trovo. È rimasto sul tavolino. Faccio per prenderlo, ma da bravo gentiluomo Steve mi tira il suo. Io lo ricevo in pieno petto, lascio che rimbalzi e rotoli tranquillo fino al mio grembo e poi lo prendo e lo uso.
Steve ridacchia, e io glielo tiro nuovamente addosso. Fa esattamente lo stesso percorso al rovescio, solo che l’affarino, invece di fermarglisi in grembo come dovrebbe – come avrebbe fatto, qualche settimana fa – gli si blocca sulla pancia.
Ridacchio anche io.
- Hai già messo su la pancetta. – noto, con una punta di crudeltà, trattenendo il fiato perché lui non noti la mia.
- Rita mi ha rimpinzato! – dice lui orgoglioso, passandosi una mano sul ventre, - Intendo tenermela fino a quando non sarà necessario farla sparire, giuro!
Mi mordo le labbra.
Quando accadrà, non sarà Alex ad andarlo a recuperare e chiuderlo in palestra per settimane. Non saremo io e Stef a prenderlo in giro perché “è diventato perfettamente sferico!”. E lui non mi dirà più di badare ai fatti miei perché “non è che io sia messo meglio!”. E non guarderà Stef in cerca di approvazione, e lui non guarderà entrambi dicendo che siamo due botoli, scuotendo il capo con aria affranta. E poi non gli salteremo addosso con intenti omicidi, e non passeremo ore a litigare e tirarci calci e pugni a vicenda, e Alex alla fine non verrà a riacciuffarci per i capelli fissandoci inorridita e dandoci dei mocciosi. E io non replicherò più che “almeno abbiamo sudato”. E lei non risponderà che se ci manda in palestra è per evitare di doverci far picchiare pur di dimagrire.
E tutti questi “non più” mi fanno schifo.
- Non mi odi, allora? – riprende lui, dopo aver riposto l’accendino in tasca.
Roteo gli occhi e sbuffo.
- Da dove salta fuori questa storia? – chiedo infastidito.
- Da Stef. – ridacchia lui.
Lo fisso, sconvolto.
- Stef ti ha detto che-
- Ma no! – ride, stringendosi nelle spalle, - Dai, non ti sembra assurdo anche solo pensarlo?
In effetti, sì.
Solo che mi sto augurando che il mio comportamento degli ultimi giorni non abbia preoccupato Stef al punto da fargli ipotizzare una cosa simile. E che la preoccupazione non sia diventata così enorme da obbligare Steve a prenderne atto e fare qualcosa.
- Sei stato in giro, ultimamente?
Ecco, appunto.
- Non tanto. – dico, scrollando le spalle e guardando altrove, - Sono stanco.
- Neanche fuori a cena? Con Helena e Cody?
- Preferiamo le cene casalinghe.
Balle.
Helena adora il kebab ma non lo sa cucinare, e non so da quanto mi implora di portarla a mangiarlo da qualche parte.
“Il bambino…”, dico io.
So che è una scusa molto blanda, per “il bambino” basterebbe portare un omogeneizzato. Ma la fa sentire abbastanza in colpa da farla desistere.
Mi dispiace farle questo, davvero.
Mi dispiace sempre privare qualcun altro della libertà di fare qualcosa che ama.
Ma io non potrei avere la libertà di evitare qualcosa che invece non amo affatto…?
- Hai parlato con Stef? – continua lui.
Sono irritato, mi sembra di stare a colloquio con uno psicoterapeuta.
Mi è successo, in passato. Dopo la “pausa per vedere come va” si ritorna per un’altra seduta e lo psicologo ti chiede “hai fatto questo, hai fatto quest’altro, la tal cosa è andata in tal maniera oppure no”, e tu devi stare lì a rispondere “sì” e “no” evitando accuratamente i “forse” perché sono sintomo di confusione, e vorresti solo trovarti da qualche altra parte a dormire.
Che è esattamente quello che sta succedendo adesso.
- Cosa dovrei dirgli, scusa? – cerco di ridere, un po’ impacciato.
- Non so… visto che con me non parli, magari con lui-
- Ti ho chiamato tutti i giorni! – protesto imbarazzato.
- Già. – annuisce lui, incrociando le mani sullo stomaco, - Però non mi hai detto niente.
- Ma scusa… - borbotto, passandomi una mano sugli occhi, - Ti ho chiesto come stessero andando le vacanze, se qualcuno ti avesse già fatto qualche proposta, come stesse Emi, se fossi ancora stanco… cos’altro avrei dovuto dirti?
- Come stai tu, magari.
La sua sicurezza, l’ovvietà con la quale dice ciò che pensa, è disarmante.
Lui è venuto qui con la precisa intenzione di chiarire.
Di risolvere.
È terribile, mi sento schiacciato contro un muro…
- Perché i miei sentimenti dovrebbero essere argomento di discussione, scusa? – chiedo, sulla difensiva, - E poi, fammi capire, stai dando per scontato che io stia male?
Steve sorride appena, affondando nella poltrona.
- No, Brian. Figurati. – dice a mezza voce.
È davvero terribile che possa dire una cosa simile con tanta tranquillità.
…no, se ci penso è molto più terribile che abbia l’occasione di farlo. Tranquillità o meno.
- Sai perché l’ho fatto. – riprende, dopo qualche minuto di silenzio.
Faccio una smorfia e fisso la lampada.
- Quella che hai detto è una stupida scusa.
- No che non è una stupida scusa. – motiva pazientemente, continuando a fissarmi. Sento il suo sguardo addosso. – Non è più la mia cosa, questa. Non me la sento più di suonare per i Placebo. I ritmi sono troppo pressanti, e lo è anche l’attesa dei fan. Preferisco volare più basso. E, per dire la verità, per un po’ preferisco non volare affatto.
Incrocio le braccia sul petto, non sono né più né meno che un ragazzino testardo, né più né meno di un illuso che rifiuta di ammettere che è cambiato qualcosa.
- Non mi interessa quante altre volte ancora dovrò dirtelo, Brian. – puntualizza sicuro, - Continuerò a ripetertelo fino a quando non ti sarai abituato al pensiero.
- Non dovrebbe fregartene niente. – sputo fuori velenoso, facendomi scudo dietro l’astio, dal momento che la paura non basta più, - Se è questa la tua scelta, che io la comprenda o meno non dovrebbe fermarti.
- E invece è ovvio che mi frena, Bri. – asserisce lui. Odio questa freddezza nei suoi occhi. Perché non è davvero freddezza, è solo determinazione. Solo che non mi piace il significato che ha, perciò mi piace mascherarla da indifferenza, anche se non lo è affatto. – Mi frena perché ti voglio bene.
Affondo le unghia nel braccio.
Non fa male, sono corte.
Non dà nemmeno un po’ fastidio.
Mi torturo il labbro inferiore con gli incisivi, e questo già fa più male, soprattutto se insisto dove la pelle è più sottile e sensibile.
- Che stronzata. – sto vomitando rancore – A me non importerebbe. – sto vomitando bugie – Dovresti smetterla di farti problemi per cose simili. – sto vomitando una preghiera, Steve. Riporta tutto indietro e dimmi che non è cambiato niente.
Sorride, il mio batterista, e si alza dalla propria poltrona per venirmi incontro. Sono appena due passi, ma lo vedo avvicinarsi come se fosse stato lontano chilometri. Si china davanti a me, molleggiando sulle gambe piegate e ancorandosi con le mani ai braccioli della mia poltrona per non sbilanciarsi e cadere.
- Dovresti stare attento a dire meno stronzate tu, quando dai della stronzata a una cosa detta da altri. – fa presente, strizzando lievemente gli occhi.
Lo guardo.
Non posso assolutamente sconfiggerlo.
Non posso farlo passare per il cattivo di turno, per il traditore o per il disonesto.
Non posso far passare nemmeno me stesso per nulla di tutto questo.
Le cose vanno avanti. Si modificano. Mutano. Cambiano forma.
…puoi implorarle di restare uguali, ma loro non ascoltano…
Puoi aggrapparti a una speranza e cambiare con loro, pregando con tutte le tue forze che non si riveli un cambiamento vano.
O puoi rassegnarti e lasciarle andare.
Steve si solleva, qualche centimetro appena. Si sporge in avanti e mi poggia una mano sulla nuca. Mi attira a sé, e non faccio in tempo a pensare che a guardarci dobbiamo sembrare proprio ridicoli, che lui mi sta abbracciando stretto come facevamo nelle foto, quando fare cose simili stimolava la stampa a spiaccicare i nostri visi su ogni pagina di rotocalco utile.
Non sono mai stati falsi, i suoi abbracci. Neanche quelli pubblici.
Questo, poi, è così vero che fa quasi male.
Di sicuro toglie il fiato.
- Passerà. – sussurra, - Starai meglio. Andrai avanti.
Frasi di circostanza, Steve.
Cose che dici quando stai male anche tu ed è esattamente quello che vorresti sentirti dire.
Io non te lo dirò.
Perché non ci credo ancora – anche se so che hai ragione.
…per il momento, posso accettare che sia tu a pensarlo e affermarlo per entrambi.