Fandom: Originali
Genere: Commedia, Introspettivo.
Rating: PG-13.
AVVISI: Boy's Love.
- La famiglia Percy custodisce un segreto: la casa che abita è infestata da un fantasma. Benjamin - appunto, il fantasma - comunque, non sembra affatto una presenza inquietante. Almeno, a giudicare dalla semplicità con la quale tutti sono riusciti ad accettarlo...
Commento dell'autrice: Scritta per la terza Disfida dei Criticoni, questa è la seconda originale “corposa” che scrivo da più di un anno (anche se poi, vista la struttura, penso risulterà piuttosto immediata, altro che corposa XD) e non è passato ancora abbastanza tempo, da quando l’ho conclusa, per averne un parere oggettivo. Insomma, la amo T_T La trovo tenera T_T D’altronde, se uno le cose non le ama non le divulga nemmeno, perciò non stiamo qui a prenderci in giro u.u”
Comunque! La sfida, anche in questo caso (come per Totgeliebt, sui Tokio Hotel, scritta per lo stesso concorso, anche se in una differente sezione), era usare tutta una serie di cosine come ispirazione per la storia. Qui, avevo la foto di un pescatore, quella del classico cartone di latte, New York, New York di Moby coi Debbie Harry (che però non sono riuscita ad usare >.<), Beautiful Day degli U2 (che ho utilizzato nel momento in cui Anne dà a Chester del caso disperato e lui risponde che non lo è – uno dei versi della canzone, infatti, è “I know I’m not a hopeless case”), una citazione di Foscolo (ed anche lei, purtroppo, non sono riuscita ad usarla), una citazione di Pitagora (quel “Gli amici condividono tutto” che è un po’ il leit-motiv della storia XD) ed una citazione di Hesse (che è praticamente tutta la battuta in cui Benjamin chiede a Chester se è proprio vero che non sa ballare, e che in originale è “So you can't dance? Not at all? Not even one step? . . . How can you say that you've taken any trouble to live when you won't even dance?”).
Alla fine, sono riuscita ad utilizzare ben cinque prompt su sette T^T che era il minimo per entrare in una sorta di hall of fame del concorso <3 Sono contenta di esserci riuscita.
La sorellina di Chester si chiama Meggie in onore della mia adorata Meg <3 Che è una puccia ed io amo <3
Ringrazio lo staff dei Criticoni per avermi dato la possibilità di scrivere qualcosa che mi ha divertito tanto – e che, oltretutto, era un’originale! Non ringrazierò mai abbastanza chiunque mi obblighi moralmente a scrivere originali! XD – e spero che a voi lettori questa storia sia piaciuta tanto quando a me è piaciuto buttarla giù. Grazie <3
PS: Questa storia ha tantissimo a che fare con Daniel Pennac. Daniel Pennac è il mio scrittore preferito. Il motivo per cui scrivo. Il motivo per cui non posso sentire qualcuno dire “capro espiatorio” senza scoppiare sistematicamente a ridere. Il motivo per cui ringrazio per l’esistenza dei francesi – l’unico motivo per cui ringrazio per l’esistenza dei francesi. Il motivo per cui Daniel e Daniele sono nomi che utilizzo spessissimo nelle originali. Il motivo per cui Benjamin si chiama Benjamin. Ed anche il motivo di tutta un’altra serie di cose pucciose che, anche se adesso non mi vengono in mente, fanno di me ciò che sono. Inoltre, è il motivo per cui i capitoli di questa storia si chiamano così (le varie parti di Monsieur Malaussène, il monologo teatrale che Pennac ha tratto dal proprio omonimo libro, titolano allo stesso identico modo e nello stesso identico ordine). Quindi, oltre ovviamente a creditarlo, lo ringrazio di cuore <3 Anche se lui, probabilmente, non lo saprà mai, io lo amo T////T
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BENJAMIN
PRESENTAZIONE


Chester era definito dall’intero mondo adulto un “ragazzo problematico”. Il problema di Chester consisteva nel fatto lui fosse un semplice adolescente come tutti gli altri, solo che per gli adulti non è mai facile riconoscere i normali controsensi dell’adolescenza per ciò che sono.
Perciò.
Era diligente, il suo comportamento non presentava sbavature, la sua educazione era ineccepibile, non perdeva mai la calma, faceva sempre i compiti e poteva contare su un’intelligenza che gli permetteva di raggiungere ottimi risultati, aveva un sacco di amici, non era mai depresso o scostante, parlava di ogni cosa, rideva spesso, non si drogava, non beveva, trattava bene le sue sorelle, era paziente con i capricci di Meggie e comprensivo con le isterie di Anne ed era piuttosto benevolo anche con i suoi genitori, con i quali si comportava sempre in modo devoto e riconoscente.
Però.
Vestiva solo di nero, portava una capigliatura improponibile che impediva al mondo di vedere metà del suo viso per un motivo incomprensibile, continuava a cerchiarsi gli occhi con la matita come se la sua massima aspirazione fosse stata diventare un panda, mangiava pochissimo e si esponeva al sole ancora meno, detestava visceralmente qualsiasi forma di sport, pretendeva di andare a vedere almeno un concerto al mese – indipendentemente da dove fosse organizzato l’evento e da quanto tutte le manovre di acquisizione del biglietto, spostamento e pernottamenti vari avrebbero richiesto in denaro – aveva continui scatti d’ira quando qualcuno provava a fargli notare che il suo comportamento, in ambito psichiatrico, sarebbe già stato diagnosticato come un disturbo bipolare della personalità e, cosa più scioccante di tutte, non aveva alcuna intenzione di frequentare il college, ma progettava di diventare un musicista vagabondo e, presumibilmente, squattrinato a vita, non appena finito il liceo.
Il risultato di tutto questo era che Chester si ritrovava compreso e spalleggiato dai propri coetanei – ragazzi che, come lui, progettavano di lanciarsi alla conquista del mondo subito preso il diploma per far contenti “papi e mami” – adorato dalle proprie sorelle – che lo vedevano come la personificazione umana di una fascinosa creatura della notte un po’ stramba ma perfettamente integrata nella società, pur con tutte le riserve del caso – e continuamente accerchiato da miriadi di adulti – i suoi genitori in primis – che non potevano fare a meno, giustamente, di preoccuparsi per il suo futuro.
Ben, fortunatamente, non faceva parte di nessuna di queste categorie. Non fomentava le sue stranezze, ma neanche le osteggiava apertamente. Questo gli consentiva di poter giocare su più fronti: se, da un lato, quando Chester arrivava lamentandosi e strepitando di essere un incompreso, poteva ridere bonario e commentare che lo trovava preciso e identico a suo figlio quando aveva la sua età – con l’unica differenza che suo figlio andava in giro con dei completini orrendi e, in occasione dei concerti, si dipingeva delle stelle in faccia – dall’altro lato, quando “mangiava” uno dei sogni in cui Lucy e Richard sfogavano le loro paure – e che coincidevano quasi sempre per Lucy con un figlio drogato, coi capelli lunghi fino al sedere e con indosso nulla tranne un gilet ed un paio di pantaloni in pelle marrone che viene a chiedere l’elemosina in famiglia, e per Richard con un figlio ugualmente drogato ma coi capelli rasati a zero, borchiato di tutto punto e che va in giro con una spranga di ferro, con la quale minaccia i genitori quando viene a fare l’elemosina in famiglia – poteva tranquillizzare entrambi dicendo loro che trovava improbabile sia che Chester diventasse un hippy o, a scelta, un naziskin, sia che non recuperasse il senno prima della maggiore età.
“I ragazzi sono così.”, diceva, “Io lo so bene: mio figlio è scappato coi T-Rex! E poi è diventato un avvocato!”.
La storia del figlio scappato coi T-Rex non aveva mai mancato di affascinare Chester. Lucy avrebbe potuto giurare di aver ascoltato con terrore il suo unico figlio maschio, allora appena undicenne, vagare per la casa alla ricerca di Ben per implorarlo di raccontare quella storia come favola della buonanotte.
In realtà, il ricordo di Lucy era inesatto: erano tutti e tre i suoi figli che vagavano per casa alla ricerca di Ben per implorarlo di raccontare quella storia come favola della buonanotte. E se la cosa era giustificabile per Meggie, che allora aveva quattro anni e prendeva per favole della buonanotte pure le istruzioni degli elettrodomestici, altrettanto non lo era per Anne, che invece di anni ne aveva sedici, e che per pretendere una favola della buonanotte – di qualunque tipo essa fosse – era comunque un po’ troppo grandicella.
Tuttavia, col tempo, sia Anne che Meg erano cresciute piuttosto bene: la maggiore aveva lasciato i propri interessi virare verso l’ingegneria nucleare e la piccola aveva imparato a riconoscere le favole vere da quelle finte. Perciò, per quanto riguardava le due, gli indecorosi episodi di agguati in camicia da notte al povero Ben, che chiedeva solo di poter vedere per la trecentesima volta il finale di Assassinio Sull’Orient Express, erano scivolati nel dimenticatoio.
Chester, invece, era cresciuto strano. Perciò tutte quelle piccole ed apparentemente innocue richieste di racconti – la storia del figlio, così come la cronaca dell’unico concerto di Bowie cui Benjamin avesse mai assistito (ed a Chester Bowie neanche piaceva!) ed altri episodi di vita brava on the road – assumevano d’improvviso un risalto tutto particolare.
Comunque, quella storia Chester la chiedeva ancora, ogni tanto. E, quando la chiedeva, a tutti faceva piacere ascoltarla. Anche perché era, in effetti, incredibilmente avventurosa: tutto era iniziato la notte in cui Gavin, il figlio di Ben, era tornato a casa, fasciato in una tutina bianca scintillante con una scollatura talmente ampia che mostrava perfino l’ombelico, ed aveva preteso di cominciare a farsi chiamare Miracle, da quel momento in poi. Ben parlava di quell'episodio sempre con estrema tragicità, perché la sua povera moglie, pace all’anima sua, era rimasta tanto turbata dalla vista della scena che era scoppiata sistematicamente in lacrime ed era stata inconsolabile per giorni e giorni. La cosa non aveva potuto che peggiorare nel momento in cui Ben aveva provato a farle capire che, con un nome come Gavin, era semplicemente ovvio che loro figlio avrebbe prima o poi attraversato la fase in cui avrebbe preferito farsi chiamare altrimenti. Lei l’aveva presa male: quel nome era stato una sua scelta.
In seguito all’apparizione in tutina ed al cambio di appellativo, Gavin era entrato nel proprio periodo di ribellione: tornava a casa all’incirca per un paio d’ore ogni tre giorni e solo per mollare la biancheria sporca e ritirare quella pulita, incombenza esaurita la quale poi tornava a sparire per altre eternità, lasciando i poveri genitori con un magone in gola e preoccupati fino alla paranoia.
Poi, una volta, senza dare avvisaglie di nulla, era sparito per un mese. Ben e sua moglie avevano pianto tutte le loro lacrime, avvisato la polizia, aspettato col cuore in gola e pianto ancora: niente. Il loro adorato bambino sembrava svanito nel nulla.
Stavano giusto apprestandosi a celebrare il funerale, con tanto di bara vuota sulla quale piangere le ultime lacrime residue, quando avevano sentito un rumore sospetto provenire dal piano di sopra, al quale si trovavano la soffitta e la camera di Gavin, ed erano quindi saliti per controllare.
Al momento del loro ingresso nella camera, Gavin stava scavalcando la finestra. Ed era completamente nudo.
Era seguito ovvio scoppio d’isteria da parte della povera signora moglie, addizionato a pianto di ringraziamento per il buon Signore che le aveva ridato il suo cucciolo, cui poi aveva fatto da coronamento un legittimo accesso d’ira da parte di Benjamin, che aveva sistematicamente pestato il sangue del proprio sangue al grido di “Adesso ti do il resto!”, prima ancora di sentire le sue ragioni.
Ragioni che poi Gavin s’era premurato di spiegare subito dopo, mentre sua madre lo ricopriva d’impacchi alla valeriana per cercare di attenuare il dolore delle botte.
In sostanza: era andato al concerto dei T-Rex che s’era tenuto in città il mese prima, e subito dopo lui ed un altro paio di amici erano riusciti ad infilarsi nel backstage. Lì, uno dei succitati amici, il cui nome in codice era diventato Samantha, aveva a quanto pareva fatto colpo sul tastierista, il quale li aveva cordialmente invitati a passare il resto del tour con loro in qualità di roadie. “Capisci, papà? Non era un’opportunità che potessi perdere!”, aveva affermato Gavin accorato. Un secondo prima di essere nuovamente ricoperto di botte.
Una volta ripresosi, Gavin aveva giustificato la propria nudità dicendo di aver dovuto barattare i propri vestiti in cambio di un passaggio su un camion adibito al trasporto delle vacche, per tornare in città. Ci tenne a precisare di aver dovuto fare proprio il viaggio assieme alle vacche stesse, e suo padre ci tenne a rimarcare che era il minimo dovesse aspettarsi come contrappasso dalla vita, visto la via dissoluta che aveva scelto.
A quel punto, Gavin s’era illuminato tutto ed aveva dichiarato di aver messo la testa a posto, e di aver capito cosa volesse fare della propria – apparentemente – inutile esistenza. Mentre sua madre faceva il segno della croce e suo padre preparava l’ennesima scarica di ceffoni, il sorriso di Gavin s’era allargato e lui aveva annunciato di voler diventare un avvocato.
Con conseguente scoppio di gioia e riconciliazione familiare annessa.
“Qual è la morale della favola, bambini?”, chiedeva Ben, ogni volta che terminava il proprio racconto.
A rispondere era puntualmente Meggie, che si sentiva sempre molto divertita dai complimenti che gli adulti le facevano quando diceva proprio ciò che ci si aspettava da lei: “Che bisogna divertirsi quando si è giovani, perché poi da grandi si deve diventare tristi e seri!”, cinguettava con quella sua vocetta zuccherina, e Benjamin le scompigliava i capelli come un soffio di vento, mentre Lucy e Richard si guardavano negli occhi e sospiravano, commossi dalla consapevolezza che almeno uno dei loro tre figli avrebbe sicuramente avuto una vita modesta, umile e rispettabile.
Certo, poi la piccola se ne usciva con ragionamenti del tipo “Da grande sposerò Ben ed infesterò questa casa assieme a lui per l’eternità”, ma vista la sua giovane età non c’era proprio di che preoccuparsi.
Chi, invece, li preoccupava, era proprio Chester. Che a sedici anni ancora inseguiva il sogno della fuga col primo gruppo musicale fosse approdato nelle vicinanze e sembrava non avesse la benché minima intenzione di uniformarsi a tutta quella massa di persone normali che saranno pure state tristi e serie, ma almeno campavano coi loro soldi.
Ben rideva e minimizzava. Anne sbuffava e tranquillizzava: quando Chester avrebbe messo il naso fra i libri di testo del college, sarebbe rinsavito all’istante – ed i suoi genitori cercavano di glissare sul fatto l’aver messo la testa a posto non aveva graziato lei di un nuovo intelletto funzionante, dal momento che a ventuno anni si ritrovava ancora al primo anno di college con due o tre esami dati.
Meggie sembrava, in fondo, l’unica a capire veramente suo fratello. Soprattutto quando, nei momenti in cui lo vedeva più sfiduciato, si avvicinava a lui e, bonaria, concedeva “Tranquillo, fratellone: quando sarai grande, potrai diventare un fantasma anche tu!”.
Chester sorrideva e le accarezzava lentamente la testolina bruna: alle volte, diventare un fantasma sembrava davvero l’unica opportunità alla quale gli fosse concesso di pensare.

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