Fandom: Originali
Genere: Triste/Malinconico/Introspettivo
Rating: PG
- Riflessioni di un malato terminale sui propri sentimenti.
AVVISI: Angst.
Commento dell'autrice: Questo racconto lo adoro. Lo adoro perché mi piace l'intensità dei sentimenti del protagonista, che si sforza di convincersi di aver perso la speranza, quando vorrebbe solo riaverla, la sua speranza perduta...
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Attraverso Le Foglie


Fuori è primavera. Anzi, la primavera sta esplodendo adesso con tutto il tripudio di colori ad essa annesso. Guardo le foglie verdi dell’albero qua di fronte, così tante, così piccole, si lasciano attraversare dalla luce del sole forte e splendente. Il tronco dell’albero è spesso e robusto, marrone scuro e bitorzoluto, trasmette forza. Immagino possa esserci un venticello leggero perché vedo l’erba che si muove, piano, tranquilla. Poggio la mano sul vetro della finestra. È caldo. Raggi solari. Calore vero. Autentico. Mi scosto.
Mi lascio andare sull’asettico lettino bianco freddo, guardando il soffitto, cercando di dimenticare l’esistenza di una vita fuori da questo edificio, la possibilità che quella vita sia mia, il calore del sole, il rumore delle foglie smosse dal vento, l’odore dell’aria davanti ad un panificio, tutto. Chiudo gli occhi e per un attimo non esiste più nulla, nulla a parte il mio corpo immerso in questo silenzio scuro ed immobile, e neanche più lo sento, solo il vuoto, e sto bene.
Ma poi ritorno alla realtà. La realtà è sempre peggiore, qualsiasi sia l’inferno in cui il tuo dio vuole farti credere. Lo so per esperienza, si può dire. L’esperienza di un malato terminale da un anno circa, seppur limitata, varrà a qualcosa, no? Devo ancora capire cosa… però… non credo di volerci pensare ora. Il mio cuscino sembra stranamente morbido, è quasi piacevole. Si, perché poi c’è questo. Quando mi va di evadere dalla famosa “realtà”, perfino questa stanza odiosa diventa il luogo ideale, e perfino quel cuscino, solitamente così freddo, può diventare amico e compagno nel sonno senza pensieri al quale, faticando, mi abbandono. E non mi riesce neanche questo, a volte. Si può dire che dormo due ore a notte da circa due mesi, e la cosa mi sta distruggendo – come se già questo dannato cervello non facesse la sua parte più che volentieri. Continuo a sentire queste fitte alla testa… mi bruciano gli occhi… e SI, ovviamente, trovandomi in ospedale, ho avuto modo di parlare col medico, il quale mi ha candidamente annunciato che, in fondo, “nella mia condizione è normale”. Il che, lo giuro, poteva anche essere sopportabile. Credetemi. Avrei potuto sopportarlo. Ma lui ha proprio dovuto aggiungere quel commento. Non ha potuto farne a meno. Per forza.
- Nelle tue condizioni è normale… ma tanto, stai tranquillo, fidati, durerà poco.
Ecco. Questo proprio non sono riuscito a sopportarlo. Su questa frase ho *dovuto* piangere. Risentire il sapore delle lacrime in bocca è stata una sensazione che avrei volentieri fatto a meno di provare, ma tant’è.
E l’unica cosa che voglio dire… che vorrei dire... cazzo… sei il mio fottutissimo *medico*… ricordi chi è quello col tumore al cervello? Sarebbe carino se tu evitassi di ricordargli… ogni maledetto minuto… che morirà presto…



Ma in fondo, me ne rendo conto… è… difficile pensarci, quando si parla con un malato. Nessuno fa caso al fatto che *comunque vadano le cose* voi siete sani ed io no. Voi vivrete, io no. Se lo scordano tutto. Perfino mia sorella. Mia sorella ogni tanto viene a trovarmi, ciao, come stai?, bene, tu?, potrebbe andare meglio…, e comincia a sfogarsi per tutte le sue disgrazie. Ho preso un’insufficienza a scuola, il tal ragazzo non mi ricambia, non sono stata capace di saltare la cavallina, hanno tolto dalla programmazione televisiva il tal telefilm che mi piaceva da morire…
Si lamenta continuamente. Con me. Io non ho potere di far nulla, e sto SICURAMENTE peggio di lei, ma lei CONTINUA a lamentarsi con me.
Dico sul serio, la gente si scorda di stare parlando con un malato.

Comunque sarei un bugiardo se affermassi che non ho anche io i miei momenti buoni. Che coincidono sempre con il *suo* arrivo. Lei. La ragazza che un tempo amavo.
Ci eravamo conosciuti d’estate, nel sole abbagliante di un parco deserto non molto grande. I raggi passavano tra le foglie proprio come fanno oggi, e forse è questo il motivo per il quale adesso mi viene voglia di pensare a lei. Era domenica, forse, una domenica di metà luglio, la città si era già svuotata quasi completamente. O magari era solo quel parco ad essere vuoto, non lo so, fatto sta che semplicemente là c’eravamo solo noi due. Io cominciavo ad intuire qualcosa del mio malessere, ma concretamente non sapevo ancora nulla, quindi vivevo la mia vita spensieratamente.
In ogni caso… eravamo lì, e passeggiando ci siamo ritrovati l’uno di fronte all’altra. E la prima cosa che lei ha fatto dopo aver incrociato il mio sguardo è stata sorridere. Aveva sorriso in maniera dolce e cordiale, abbagliandomi più del sole con lo splendore di quel viso. Era venuto spontaneo sorriderle di rimando. Poi, ognuno se n’era andato per la sua strada.
Il giorno dopo ci rivedemmo e fu lo stesso, e così ancora per una settimana. Poi, decisi che l’amavo e volevo conoscerla. Per cui, il giorno dopo l’avvicinai e ci presentammo. Ripenso ancora a quei giorni con un profondo senso di malinconia crescente nel cuore. Fu bello amarla.
Non siamo mai, effettivamente, stati insieme. Ci vedevamo nel parco senza appuntamenti ma sempre fiduciosi di ritrovarci, e dell’altro sapevamo solo il nome. Chiacchieravamo del più e del meno come vecchi amici non troppo intimi, ma le nostre conversazioni avevano un che di profondo che non saprei spiegare… e della cui esistenza non sono neanche tanto sicuro…
Poi, un giorno, venni a sapere del cancro, ed allora, così come avevo deciso di iniziare ad amarla, decisi di smettere. E funzionò. Adesso, infatti, non la amo più, e quello che mi prende quando la vedo è più un misto di tenerezza e rimpianti, che altro.
E per favore, non venitemi a raccontare idiozie del tipo “non puoi decidere quando e se amare” perché l’ho provato su me stesso, che non è così. Quella mattina estiva decisi di cominciare ad amare perché mi sentivo pronto per farlo. In ospedale, un pomeriggio nuvoloso di inizio autunno, con gli esami in una mano e mia madre in lacrime accanto, decisi di smettere perché temevo mi facesse soffrire troppo nel momento dell’addio. Quando lo decisi e cancellai il sentimento dal mio cervello, fu come liberarmi da un peso e mi sentii subito meglio.
Ovviamente, non la vidi più. Fisicamente. Perché, per il resto, il mio rimpianto di condensa nel suo sorriso, che sbuca fra i miei pensieri almeno una volta al giorno, e mi rassicura, mi rende sereno, ricordandomi il sentimento d’amore, rammentandomi che anch’io l’ho provato.

Sapere che sarei certamente morto è stato brutto. Ho sofferto, ed ho pianto tutti i miei sedici anni tra le braccia di mia madre, le cui lacrime di hanno ridato un senso di calore che forse da troppo tempo non sentivo più. Ma dopo è passato. Dico sul serio. Dopo un po’ ci si rassegna, rendendosi conto che è reale e che *non si può far nulla* per impedirlo. E si smette anche di soffrire, perché quando la speranza ti abbandona non hai più nulla per cui struggerti. Questo vale per il novanta per cento della giornata.
Nel momento in cui, però, riaffiora il volto di quella ragazza… in quel momento mi pare di ritornare un essere umano, di riacquistare le caratteristiche irrazionali e contro la rassegnazione tipiche degli uomini fiduciosi. E ricomincio a soffrire per la speranza mancante, perdendomi in un mare di “avrei voluto” impossibili da soddisfare, mi barrico sotto le coperte – l’amico letto – ed aspetto che i fantasmi passino.
Quando la mia testa fa di nuovo capolino fra la matassa disordinata banca, posso aprire gli occhi e tornare alla fredda realtà, aspettando l’infermiera che porta la medicina dicendomi “Ti trovo bene oggi” e pensando “Si vede che morirà presto”, e non posso fare a meno di riponderle anch’io, inconsciamente e senza rancore, “Ma vaffanculo”.
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