Genere: Introspettivo.
Pairing: Charlie/Don.
Rating: R
AVVISI: Angst, Lime, Incest, Spoiler per la quinta stagione.
- Charlie non ha più il suo nullaosta, e non può più aiutare l'FBI nella risoluzione dei casi. Questo turba sia lui che Don molto più di quanto non dovrebbe.
Commento dell'autrice: In queste ultime settimane la Rai ha ripreso finalmente la programmazione di Numb3rs, cominciando a mandare in onda la quinta serie <3 E io, visto ciò che succede nelle prime due puntate della serie, non potevo proprio risparmiarmela, questa storia XD Titolo rubato all'omonima canzone dei Placebo.
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Di fronte al suo rifiuto di rispondere ad una domanda vagamente curiosa sul caso che sta seguendo, Charlie sorride appena, un po’ imbarazzato. Don cerca di ripetersi che il suo no non è stato né troppo netto né troppo sgarbato, e che comunque, anche quando lo fosse stato, non può permettersi di essere troppo morbido. Charlie, normalmente, ha già abbastanza potere di fargli fare qualsiasi cosa anche contro la sua volontà, non è un privilegio che può estendergli anche al suo lavoro. O meglio, era un privilegio che era molto felice di potergli concedere fino a qualche settimana fa. Ora, semplicemente, non può più. È una cosa con la quale entrambi devono venire a patti, e se Charlie, coi suoi sorrisini colpevoli e minuscoli e con quel modo spaccacuore che ha di evitare il suo sguardo, è convinto di essere l’unico a soffrire di questa situazione, be’, si sbaglia di grosso. Hanno solo un modo diverso di soffrirne, ma ne soffrono entrambi.
- Non fare quella faccia. – borbotta burbero, - Lo sai che—
- Sì, lo so. – sorride più apertamente Charlie, anche se la nota triste nella sua voce è forte, e piega gli angoli delle sue labbra in modo da rendere tristissimo anche il più dolce dei sorrisi, - Scusami, non avrei dovuto chiedere.
In realtà Don vuole che suo fratello gli faccia delle domande. Lo vuole presente, vuole che gli chieda tutto, vuole che ficchi il naso in affari che non gli competono per appropriarsene, come fa sempre. Lo vuole disperatamente, come vorrebbe potergli rispondere,  ma dal momento che non può vuole solo che Charlie chieda, in modo da potergli dire di no, e farlo sentire in colpa, e punirlo, e punirsi.
Tutta questa situazione, si dice, è ridicola. Charlie è stato un idiota, ed anche lui. Che avrebbe dovuto immaginarlo, avrebbe dovuto pensarci, avrebbe dovuto almeno provare a fermarlo. Molto probabilmente non ci sarebbe riuscito, e questa è una cosa di cui è ben cosciente, ma è devastato dalla consapevolezza di essere stato tanto stupido da non fare nulla per cercare di prevenire questa situazione disastrosa.
- Mi dispiace. – mugugna. Non è neanche davvero sicuro di aver detto proprio quello, s’è limitato a biascicare delle lettere a caso sperando che poi l’aria le plasmasse per renderle qualcosa di vagamente comprensibile, e la mente di Charlie portasse a termine il compito, lavorando di fantasia, per tirarne fuori qualcosa di sensato. Comunque non ha importanza, perché subito dopo aver parlato si dirige speditamente verso la camera degli ospiti, visto che è tardi, ha sonno, domani vuole fare una buona colazione e sostanzialmente non ha alcuna intenzione di mettersi in macchina e guidare fino a casa, neanche se dovesse valergli la vita.
- Ricordi – lo ferma Charlie, e parla così piano che Don lo sente per miracolo. Hanno entrambi questo brutto vizio di non dire le cose. O di dirle male. Finiranno a mettersi nei casini sul serio, prima o poi, Don lo sa. – Ricordi quando stavi ad Albuquerque? Ogni tanto ti scrivevo delle lettere.
- Che cosa? – chiede confusamente, voltandosi a guardarlo. Charlie sta guardando fisso il pavimento, e sorride ancora, anche se il suo è un sorriso lontano. – Non ricordo di aver letto nessuna lettera da parte tua, in quel periodo. – riflette, - O in qualsiasi altro periodo.
- Sì, - ridacchia Charlie, grattandosi la nuca, palesemente in imbarazzo. Don guarda le sue dita sfilare fra i riccioli neri alla base del collo, e deglutisce. – Sì, perché non te le spedivo. Non l’ho mai fatto. Le scrivevo, le conservavo per qualche giorno… non le rileggevo mai, comunque. E poi le buttavo via.
Don torna indietro, lasciandosi andare sulla poltrona e guardando suo fratello, che invece resta in piedi, proprio accanto a lui. Vorrebbe invitarlo a sedersi e parlare un po’, ma per qualche motivo le parole suonano inappropriate perfino mentre prova a chiedersi come sarebbe pronunciarle davvero, perciò rinuncia.
- E cosa mi scrivevi? – chiede invece, sorridendo appena. Charlie ridacchia, ancora imbarazzato.
- Cose di cui non ti sarebbe interessato minimamente. – ammette, stringendosi nelle spalle, - Scoperte che facevo, calcoli particolarmente affascinanti che mi riuscivano, magari dopo qualche giorno di tentativi. E ti facevo il riassunto delle partite di baseball che papà guardava mentre io studiavo, perché immaginavo che non avessi il tempo di vederle. – sbuffa una mezza risata, sospirando. – Non è che capissi un accidenti di baseball, naturalmente, perciò, insomma, erano riassunti un po’ campati per aria. E poi… - si prende qualche istante, prima di proseguire, come fosse incerto sulla possibilità di pronunciare davvero quelle parole, - e poi ti chiedevo qualcosa di te. Cose che non ricordavo, o che non avevo mai saputo. Tipo quale fosse il tuo colore preferito, o cos’avessi mangiato per pranzo. E, ecco, sì, anche se stessi seguendo qualche caso interessante.
Don sorride, cominciando ad intuire dove Charlie voglia andare a parare. Lo intenerisce rendersi conto una volta di più di quanto Charlie senta il bisogno quasi fisico di far precedere ciò che vuole dire da un’introduzione, perché è ogni volta come se sentisse la necessità di spiegare se stesso per motivare ciò che vuole dire davvero. Don vorrebbe dirgli che lui non è come i suoi allievi all’università, lui non ha bisogno di preamboli per capirlo. Solo che poi si rende conto che non è vero, e questa cosa un po’ lo rattrista. Anche lui ha bisogno dei preamboli, quando si tratta di Charlie. Ed ha bisogno di una legenda, di coordinate, per capirlo, perché quando gli si presenta e fa le cose senza spiegarsi, il più delle volte, suo fratello gli è incomprensibile. E gli ultimi avvenimenti ne sono una prova.
- Non avrei potuto parlartene, sai? – dice, sempre sorridendo. Charlie sorride a propria volta.
- Lo so, - annuisce, - e proprio per questo, quando ho ricevuto il mio nullaosta… è stato un po’ come chiudere un cerchio, no? Avevo finalmente la possibilità di ricevere una risposta a delle domande che avrei sempre voluto farti, e che mi era mancato il coraggio di porti. E per la prima volta non solo non contava niente il fatto che io non avessi avuto quel coraggio, ma non contava niente nemmeno che il tuo lavoro dovesse restare segreto, perché tutti gli ingranaggi s’erano incastrati nel modo esatto. Capisci? Io non dovevo chiedere. A te bastava rispondere. Ed entrambi potevamo farlo.
È doloroso sentirlo parlare al passato di una condizione simile. Don vuole assolutamente che suo fratello possa tornare a smetterla di porgli domande. Vuole tornare a rispondergli senza doversi far chiedere niente, e si chiede come sia stato possibile, da parte propria, ignorare quanto potesse farlo sentire bene ciò che s’era creato fra loro negli ultimi anni. Hanno dovuto toglierglielo, per obbligarlo a realizzare.
Charlie si guarda intorno con aria un po’ incerta, come volesse verificare di trovarsi davvero solo con lui in quel momento, come volesse avere la certezza di poter parlare liberamente.
- C’era un’altra cosa. – aggiunge quindi, deglutendo a fatica ed evitando a tutti i costi i suoi occhi, - C’era un’altra cosa che ti dicevo, nelle lettere.
Don lo guarda e manda giù un blocco d’aria tanto duro e pesante da sembrare di cemento. Cerca i suoi occhi e loro continuano a sfuggirgli, e l’unico pensiero lucido che si permette è che si sta enormemente pentendo di essersi seduto, perché ora si sente in trappola – non può alzarsi e scappare – ed anche in soggezione – Charlie è lì, in piedi, col suo segreto sulla lingua, e lui, malgrado sia il fratello maggiore, non può che sentirsi minuscolo a guardarlo dal basso, in quella posizione.
- Cosa? – chiede con un filo di voce. Non è sicuro di volerlo sapere, dopotutto.
Charlie lo guarda fugacemente, appena per un attimo, e poi si inumidisce le labbra. Don segue il movimento della sua lingua cercando di fare in modo che lui non se ne accorga.
Quando Charlie riprende a parlare, quasi balbetta.
- Io e te – dice, la voce che trema, - siamo sempre stati lontani. Anche quando vivevamo insieme, anche quando eravamo piccoli, noi eravamo così diversi, Don, e io ho sempre pensato che non saremmo mai riusciti ad avvicinarci. Ed era una cosa che mi faceva stare così male che--  - si interrompe, rompendosi in una risatina nervosa, - così male che non saprei nemmeno spiegartelo, non facevo che pensarci. E ti ho odiato quando sei andato via, perché anche se capivo che non era per allontanarti da me che lo stavi facendo, il mio— non lo so. Il mio corpo, forse, pensava automaticamente che fosse quello, il motivo.
- …Charlie, non ho mai pensato di andarmene per allontanarti da te. – dice Don, inarcando le sopracciglia verso il basso, sinceramente rattristato. Sulle labbra di Charlie si disegna un sorriso imbarazzato.
- Lo so, ma non ho mai potuto controllarla, questa cosa. Io— io non sono come te, tu sei bravo a controllare le emozioni, io esplodo come un esperimento di chimica fallito, ogni volta. E faccio un sacco di danni, e— quando sei tornato, io ti ho odiato ancora di più. Perché il mio corpo continuava a sentire che te n’eri andato per colpa mia, e che poi, quando eri tornato, non era stato grazie a me, e se fosse dipeso da te avresti tranquillamente continuato a restare dov’eri. Non so se capisci cosa intendo. – biascica in una risatina confusa, - È una cosa così ridicola. Lo era anche allora, e provavo a spiegartelo nelle lettere, ogni tanto. Ti chiedevo cosa fosse, cosa pensavi potesse essere, ma poi le lettere facevano la fine che ti ho detto, e quindi tu non mi hai mai risposto. Non mi hai mai detto cosa ne pensavi. E alla fine ho dovuto capirlo da solo, capisci?, perché-- - il suo monologo si fa più concitato, accompagnato da un gesticolare nervoso e insensato che agita Don fin dentro le viscere, costringendolo a conficcare le unghie nei braccioli della poltrona, - perché sennò sarei esploso, Don. Io avevo bisogno di una risposta, e non potevo chiedertela, perciò ho dovuto darmela, capisci? Dimmi che lo capisci.
- Lo— lo capisco. – annuisce Don, e vorrebbe alzarsi in piedi ed abbracciarlo, giusto per farlo sentire un po’ più tranquillo, ma non ci riesce, perciò resta seduto. – Cos’è che ti sei risposto? – chiede alla fine, deglutendo pesantemente. Ha paura di ciò che suo fratello potrebbe dirgli, ma d’altronde, si dice, questa situazione deve finire. C’è qualcosa di poco chiaro, fra loro, ed è poco chiaro proprio perché nessuno di loro due ha mai avuto il coraggio di porre all’altro la domanda giusta. Ora quel coraggio c’è, forse perché sono più vicini di quanto non fossero un tempo, forse solo perché è notte e sono soli e questo rende tutto molto più ovattato, apparentemente meno pericoloso, e Don ha l’impressione che, qualsiasi cosa Charlie possa dirgli in questo momento, lui riuscirebbe a farsela passare addosso senza troppi drammi, per cui vuole che, se una risposta dev’esserci, sia adesso. Perché ora è giusto, ora va bene. Ora può gestirla, o almeno così crede.
Charlie si morde un labbro, si gratta la nuca, si accarezza il collo come volesse scioglierne i muscoli o dissipare l’imbarazzo che lo tiene teso quasi fino allo spasmo, e poi lo guarda. Schiude le labbra, fa per dire, qualcosa, guarda di nuovo altrove, e Don è così nervoso che potrebbe anche saltare in piedi e prenderlo a pugni, o prendersi a pugni, e quando Charlie torna a guardarlo e mormora un “io credo che tu mi piaccia” stentato e imbarazzato e balbettato e soffocato e tenero da morire, il suo braccio scatta automaticamente, senza che lui possa fare niente per controllarne il movimento.
Lo afferra per il colletto della camicia, lo strattona verso il basso con violenza, tant’è che il primo bottone vola via e si perde da qualche parte sul pavimento, invisibile nell’oscurità che avvolge la stanza. E Don, stupidamente, per un secondo – per quel secondo in cui è ancora in grado di sentirsi in colpa perché le proprie labbra stanno sfiorando quelle di Charlie – spera che sia lui che suo fratello possano fare la stessa fine di quel bottone, diventare invisibili, perdersi per sempre, e non tornare più.
L’unica cosa che si perde, invece, è l’equilibrio di Charlie, che gli frana addosso mentre le sue ginocchia cedono un po’ per la sua spinta ed un po’ per il bacio, appena si fa più umido e affamato e incomprensibilmente arrabbiato – o forse solo affannoso e spaventato. Don sente le mani di suo fratello piantarsi con forza sulle proprie spalle, mentre cerca di aiutarsi a trovare un equilibrio nuovo ed una nuova posizione, standogli praticamente inginocchiato in grembo, in bilico nel tentativo di non fargli male.
Continua a baciarlo sempre con la stessa foga mentre lo sente sistemarglisi meglio addosso, schiudendo le gambe e scivolando seduto sulle sue ginocchia con una naturalezza che già da sola lo fa impazzire, e rallenta un po’ il ritmo solo quando sente il suo respiro cominciare a farsi faticoso e pesante. Si allontana, ma non troppo, e il suo respiro caldissimo s’infrange in brividi altrettanto caldi sulle sue labbra gonfie, umide e sensibili. Lo guarda nel buio, Charlie ha gli occhi chiusi, la fronte poggiata contro la sua, cerca di tornare a respirare ad un ritmo normale e i suoi lineamenti sono finalmente rilassati, tranquilli, quasi riposati. Sembra più piccolo  di quanto non sia – e più bello di quanto lui non l’abbia mai visto.
- Immagino che la tua risposta sia questa. – sorride appena Charlie, parlando a voce bassissima, senza muoversi di un millimetro.
- Immagino di sì. – risponde lui, sollevando una mano ad accarezzargli una guancia. Il sorriso di Charlie si allarga un po’.
- Non sento il bisogno di chiederti altro. – dice in un soffio, e Don ride.
- Anche perché io non saprei cos’altro risponderti. – ribatte. Charlie apre gli occhi, lo scruta in silenzio, sorride ancora. Poi lo bacia lievemente sulle labbra, e poco dopo si rimette in piedi.
- Dormiamoci su. – suggerisce. Don si chiede se intenda da soli o insieme, ma prima ancora che abbia il tempo di porre la domanda Charlie risponde, tendendogli una mano. È una domanda anche quella, dopotutto. E Don risponde stringendola.
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