Ispirata ad Hanging By A Moment di Lemonade.
Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Angst, Spin-off.
- Tom è andato via da poco, ed a Jörg non resta che pensare. Ricordare il passato, riflettere sul futuro. E contemplare un presente immobile che non gli piace, ma che probabilmente era l'unica soluzione possibile.
Note: Lemmina scusaaaaaaaah ç___________________ç
Ma andiamo con ordine è_é!
Allora, immagino tutti conosciate Hanging By A Moment, che è semplicemente una delle fanfiction più belle che siano mai state scritte <3 Al di là dei vari gruppi in cui potrei inserirla (fra le AU, fra le RPS, fra le fic sui Tokio Hotel – e, soprattutto in quest’ultima categoria, per quanto mi riguarda nel fandom italiano è effettivamente il massimo) è proprio una storia meritevole. E splendidamente scritta. E descritta. E gestita. E narrata. E… io la amo ç_ç Non tanto quanto ami la Lemmina in sé, si intende, perché la Lemmina è il MIO amore ù.ù Come ben sa da quella lontana notte estiva bresciana in cui i nostri cuoricini fangirlanti battevano all’unisono di fronte all’esimia figura del signor Molko T^T Ma questa è un’altra cosa è_é”””
Comunque, una delle cose che più ho amato in assoluto in Hanging è stato il rapporto fra Jörg e Tomi, che Lem ha descritto divinamente T_________T Siccome tutti sappiamo come va a finire (._.), mi è sembrato giusto fare alla loro storia il tributo che meritavano (o meglio, spero di esserci riuscita XD Perché meritavano tanto, e non so se è quello che sono riuscita a dare loro ç.ç). Comunque non è solo dopo gli ultimi sviluppi della storia, che ho deciso di scriverlo. In realtà che li voglio spinoffare è una realtà nota da secoli o.o Da quando ho cominciato ad aiutare Lemmina nel betaggio <3 Li stra-amo, ecco ç^ç
Chiaramente, visto che come spinoff è altamente spoileroso O_ò non so quando la Lemmina lo pubblicherà è_é In ogni caso, è il mio regalo di Natale per lei <3 Oddio, come fic è triste ç_ç” È per questo che mi dispiacevo, all’inizio XD Spero solo che vi piaccia <3 Ma soprattutto che piaccia a te, Lem :**** Ti adoro e non vedo l’ora di rivederti <3 Baciotti >***<
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AN DEINER SEITE
every act of love is separateness

Quando vivi da solo con un figlio per anni ed anni, sai perfettamente che la tua situazione non è paragonabile neanche alla lontana con quella di altri genitori calati in contesti più “normali”. Certo, non ti spingeresti mai a dire che loro non siano affezionati ai propri pargoli come te, ma è questo che pensi il più delle volte, quando tuo figlio fa qualcosa di abbastanza stupido o abbastanza bello da dartene l’occasione. C’è sempre qualcosa di diverso rispetto agli altri genitori, nella nota angosciata con la quale registri una cattiva notizia e in quella orgogliosa con la quale ne accogli una buona. Nello sguardo di un genitore che vive da solo col proprio figlio si riflette un affetto del tutto diverso.
Anche se, in realtà, “affetto” non è la parola giusta.
Per dire, io non l’ho mai pensata in questi termini. Fin da quando sono andato a vivere solo con Tom, non è mai stata “affetto” la parola che ho richiamato alla mente pensando a lui. Piuttosto, era “amore”.
Sì, sono sempre stato convinto di essere innamorato, completamente innamorato di mio figlio. Di lui, e di tutto il suo carico di irruenza e stupidità. E di coraggio, e di apertura. E di dannata bontà.
Forse è per questo che adesso sono qui, seduto su questa sedia in questa squallida cucina, da solo.
La luce della lampada, alta e gialla su di me, rimanda la sagoma scura della mia testa sul tavolo al quale ho appoggiato i gomiti. Scruto questa pozza grigio sporco e mi dico che non ho visto abbastanza spesso questa macchia e quella di Tom sfiorarsi su questa superficie legnosa, perché avremo mangiato insieme in questa casa… oddio, forse non è mai successo. Sono stato così impegnato ultimamente che proprio…
…comunque non ha senso piangere sul latte versato.
Se è vero che ogni separazione è un atto d’amore, è in questo che voglio credere per evitare di impazzire.
*
Quando i gemelli sono nati, in realtà io e Simone avevamo problemi già da un pezzo. Mi scoccia ammetterlo, perché mi è sempre piaciuto considerarmi una persona “diversa” rispetto alla media degli stronzi sposati con figli che conoscevo – persone in grado di mettere incinta una donna nella speranza che il nuovo nato facesse da collante per un rapporto che già vedevano sfaldarsi fra le loro mani – ma in realtà è esattamente così che è andata anche fra di noi. Se non altro, vivere la situazione mi ha aiutato a capire che si dovrebbe dare meno degli stronzi agli altri se non si ha la più pallida idea di cosa stanno passando.
I figli aiutano davvero a cementare i rapporti, ma li cementano nel modo sbagliato. Non ti aiutano a richiamare alla mente tutti i buoni sentimenti coi quali sei partito quando hai deciso di dividere la tua vita con la persona che amavi, ma vi impantanano entrambi in una rete di obblighi e responsabilità che più passa il tempo più diventa difficile dipanare.
Per i primi mesi, dopo la nascita di Bill e Tom, io e Simone siamo davvero stati convinti di poter ricominciare da capo, e farlo per bene. I nostri rapporti erano ancora disgustosi, e io provavo nei confronti del dovermi svegliare al suo fianco giorno dopo giorno lo stesso identico ribrezzo che, ne sono sicuro, provava lei. Ma c’erano due bambini di mezzo. Non eravamo più solo noi. Non potevamo prendere decisioni avventate che avrebbero potuto rovinare loro la vita.
Dovevamo stare attenti, sopportare, e prima o poi sarebbe passata. Ci saremmo abituati. Ne saremmo venuti fuori.

Sinceramente. Non so chi abbia smesso di crederci prima. So solo che a un certo punto è successo. E, nel momento in cui me ne sono accorto, stavamo già discutendo di chi avrebbe dovuto tenerli.
*
Un bambino piccolo per casa non è come un cucciolo tenero e spensierato cui basta dare qualche carezza e abbondanti dosi di cibo perché stia bene, sia felice e ti sia riconoscente. In realtà, un bambino per casa ha ben poco di tenero e spensierato, e somiglia più a un’enorme carico di responsabilità, appallottolato come in un pacchetto e compresso come sottovuoto, che rotola per l’appartamento in un costante tentativo di uccidersi e uccidere te per riflesso.
Questa era una cosa cui non volevo credere, prima che i gemelli nascessero. Intendo, che si potesse raggiungere un grado di empatia e dipendenza talmente alto da sapere con certezza che, nel momento in cui tuo figlio verrà a mancare, sarà esattamente come sentire la mancanza di un pezzo del tuo stesso corpo.
In realtà è esattamente così che succede. Per dire, quando era molto molto piccolo, avrà avuto nove o dieci mesi, Bill riuscì a mettere le mani su una di quelle sorpresine degli ovetti di cioccolato della Kinder. Lui e Tom amavano succhiare il cioccolato fino a farselo sciogliere sulla lingua, e poi pretendevano li si portasse davanti allo specchio per fare le linguacce alle proprie immagini riflesse, ridendo come pazzi per il colore marroncino che la lingua aveva assunto. Perciò, io e Simone compravamo costantemente quintali di quella roba. E io ne portavo sempre una confezione da tre quando tornavo da lavoro, la sera.
Conservavamo le sorpresine perché eravamo sicuri che ai bambini avrebbe fatto piacere ritrovarsele in mano quando avrebbero avuto quattro o cinque anni e sarebbero stati in grado di giocarci. Per questo, le tenevamo in una specie di boccia di cristallo posata in mezzo alla consolle che c’era in soggiorno.
Non ho idea di come fece Bill a ficcarci le mani e tirarne fuori una di quelle stupide tartarughine hawaiane giocattolo. Ma lo fece. E dopo averla tirata fuori decise che il luogo migliore nel quale poteva stare era la sua bocca, perciò fu lì che la infilò.
Quel giorno io sono morto due volte.
Prima nel vedere la sua espressione stravolta mentre tossiva forsennatamente, cercando di liberarsi del giochino che gli ostruiva la gola.
E poi quando il dottore, in ospedale, ci disse che avrebbero dovuto fargli una lavanda gastrica per tirarlo fuori.
Una lavanda gastrica.
Un bambino di dieci mesi.
Il mio bambino di dieci mesi.
Coi figli è sempre così, comunque. Se c’è una sensazione umanamente percettibile come quella che si prova mentre si sta morendo, è esattamente quella che provi quando tuo figlio mette in pericolo la propria vita con qualche atto sconsiderato. Quella vampata di calore improvvisa e poi di gelo impietoso che ti si abbatte addosso, confondendoti. Il cuore in mezzo alla gola che ti strozza. Il dolore sordo all’altezza dei polmoni. La nausea. Dev’essere così quando si muore. Dev’essere così perché è troppo orribile per essere altro.
*
Io non ho “scelto” Tom.
Non ho scelto Tom perché, in uno sciocco tentativo di prendere Simone per stanchezza e convincerla a lasciarmi tutti e due i bambini, mi sono rifiutato fino all’ultimo di scegliere qualcosa come lei pretendeva.
L’unico risultato che ottenni con quella tecnica di logoramento fu che alla fine Simone decise per entrambi, prese Bill e scappò a Loitsche dai suoi genitori.
Fu una scena patetica, davvero. Tornai a casa, e lei doveva aver calcolato male i tempi, perché aveva già preparato le valigie all’ingresso ma non era ancora completamente pronta.
Stringeva già Bill fra le braccia, però. E questo mi bastò per capire in un secondo l’intera situazione e fiondarmi nella cameretta dei gemelli, dove ancora Tom giaceva nella propria culletta, fissando con aria ammaliata le apine volanti del carillon sopra di lui.
Simone mi raggiunse subito dopo. Mi guardava con aria sconvolta, non aveva ancora detto una parola. Io staccai gli occhi da Tom e li piantai su di lei, mentre lasciavo scivolare una mano sulla pancia del piccolino, più in una vera e propria affermazione di possesso che non in un tentativo di protezione.
Provò ad avvicinarsi, stringendo a sé Bill, che per contro si mise a piangere. Il gemellino lo imitò, come succedeva sempre quando uno dei due stava male, ed io le strillai di non avvicinarsi e non provare neanche a toccare mio figlio.
È orribile a dirsi, ma in quel momento a Bill non pensai affatto. Lo vidi già in braccio a lei e pensai automaticamente di averlo già perso, e che non ci sarebbe stato niente che io potessi fare per strapparglielo di dosso.
Lo pensai perché sapevo che non ci sarebbe stato niente che lei potesse fare per strappare Tom da me.
E quindi la osservai cercare di calmare il bambino cullandolo dolcemente, mentre io provavo a mia volta a placare Tom accarezzandogli il pancino, e poi la vidi ritirarsi un passo dopo l’altro, senza smettere di guardarmi con l’aria di una bestia in trappola. Gli stessi occhi rossi iniettati di sangue e di una tale quantità di furore da paralizzarti dalla paura. Gli occhi di chi, lo sai, è pronto ad azzannarti al primo passo falso.
Usci dalla mia casa e dalla mia vita, ed io permisi che lo facesse portandosi via Bill.
Da allora, molto semplicemente, Tom è stato tutto.
Fino a poco fa, lo era ancora.
*
I bambini hanno bisogno di essere amati. Quando mia madre e mio padre discutevano della mia educazione, e lui le faceva notare che tendeva ad essere un po’ troppo morbida nei miei confronti, era così che lei rispondeva sempre. I bambini hanno bisogno di essere amati. Perciò necessitano di qualcuno che, non importa in che modo, li faccia sentire accolti, protetti ed apprezzati.
Io so di non essere un buon padre. Amo mio figlio ma ho sempre trovato i modi più sbagliati di dimostrarglielo. Quando, per il compleanno, gli ho comprato quella carretta di moto, è stato esattamente per questo. Non navighiamo nei soldi – e adesso che la cosa cambierà, sinceramente, mi sembra un po’ assurdo che, di tutti i soldi che guadagnerò con il nuovo lavoro, non spenderò per Tom neanche un centesimo – ma sapevo che desiderava un mezzo di locomozione. Purtroppo, non sono mai stato un genio quando si trattava di fiutare gli affari. Ho visto il motorino mezzo scassato e mi è sembrato che, rimettendolo in sesto, se ne potesse tirar fuori qualcosa di decente, perciò l’ho preso. Per qualche ora ho anche creduto possibile che Tom si esaltasse davanti alla prospettiva di improvvisarsi meccanico per rimetterlo in sesto. Già me lo vedevo nel cortile davanti casa, seduto sul selciato, il cappellino per traverso, le macchie d’olio e grasso sulla faccia e sulle dita e una chiave inglese in mano, fissare la moto con aria inquisitoria, mordicchiandosi le labbra e giocando col piercing come suo solito mentre cercava di venire a capo del mistero del serbatoio bucato o qualcosa di simile.
È strano. Conosco Tom da sempre e mi è sempre sembrato di osservarlo con estrema attenzione… eppure ero ancora disposto a pensare potesse interessarsi a qualcosa di simile. Un ragazzo che gioca a basket, ascolta solo hip hop e va in skateboard. Ma quanto devo essere stupido…?
*
Tom avrebbe potuto desiderare di andar via di casa autonomamente già molto tempo fa. Non avrei mai potuto biasimarlo. Non ho fatto che scarrozzarlo in giro per gli Stati Uniti come un pacco postale da quando è nato, in fondo. E spesso non sono stato a casa. Non ci sono stato quando lui ha avuto bisogno di me. Non è solo colpa del fatto che quando devi lavorare per due finisci anche a cercare di trovare il tempo per essere due, dimenticando che è impossibile.
No, il lavoro è soltanto un incidente di percorso. Non ci fosse stato, probabilmente non gli sarei stato vicino comunque. Per paura, per pigrizia, per incapacità. Per così tante di quelle cose…
Non mi sarei stupito, se mi avesse guardato negli occhi e mi avesse detto “vado via”.
E quello che mi uccide, adesso, è proprio che lui non l’ha mai fatto. È sempre stato al mio fianco. Quando avevamo il frigo vuoto perché non mi pagavano, quando tornavo a notte fonda e la pasta orrenda che aveva preparato s’era trasformata in colla sul tavolo davanti a lui, ma lui restava comunque ad aspettarmi. Quando mi chiedeva di aiutarlo a ripetere le lezioni ed io lo ignoravo o mi scusavo blandamente perché non avevo tempo da dedicargli. E anche durante tutte quelle volte in cui sbagliavo a mettergli il pannolino e lui finiva per insozzare il tappeto del soggiorno e io poi mi arrabbiavo e lo sgridavo, dicendogli anche cose orribili, strillando che non era un cane e avrebbe dovuto imparare a controllarsi. A un bambino di due anni e mezzo, lo dicevo. Merda d’uomo che non sono altro. O quando dimenticavo di mettere la crema dopo averlo lavato e il giorno dopo me lo ritrovavo col sederino tutto rosso e gli occhi colmi di pianto. E Tom ha imparato subito a trattenere le lacrime. Davvero troppo presto. O quando ha dovuto imparare da solo ad andare in bici, senza che fossi io a tenerlo fino a quando non si fosse sentito abbastanza sicuro di andare da solo sulle due ruote. E altre migliaia di episodi. Altre migliaia di occasioni. Altre migliaia di perché. Lui mi ha fanculizzato, mi ha preso a parolacce, mi ha incolpato di ogni crimine possibile, come tutti i figli e come tutti gli adolescenti, ma è rimasto. Sempre.
Se non l’avessi buttato fuori, sarebbe perfino rimasto ancora.
*
Comunque sia, sto solo cercando di giustificarmi, lo so. So di non aver preso la decisione giusta, mandando Tom a stare con sua madre e suo fratello. So che, se non faccio niente per cambiare l’opinione che ha di me da quando l’ho mandato via, conserverà per sempre il ricordo di un padre bastardo e questo potrebbe fare di lui un pessimo padre a propria volta. Così come un ottimo padre, in effetti non si può mai dire, ma è comunque una possibilità.
L’unico problema è che in una situazione simile non poteva esistere una decisione corretta.
Nel mare delle scelte sbagliate, dovevo solo scegliere la meno orribile.
È l’enorme problema dell’essere genitori. Scegli, e non scegli solo per te stesso. Sbagli, e non ferisci solo te stesso.
Per questo, ti può capitare di avere degli attimi di sconforto. Momenti in cui vorresti non dover scegliere niente. Non dover decidere affatto. Momenti in cui, pure se sei felice di avere un figlio perché, anche se è un cliché, resta una delle cose più belle che la vita possa darti, daresti qualsiasi cosa per non essere responsabile di un’altra vita oltre alla tua.
Non è la pressione che questa responsabilità ti esercita addosso, a farti sbagliare. Tu sbagli a prescindere. Ed è questa la cosa peggiore, in fondo. Che ci provi, ad essere migliore. A far bene. Ad essere una persona che renda orgoglioso te stesso e i tuoi figli.
E fai casino comunque.
*
Mandando Tom a stare dai Trümper, a chi ho fatto il regalo di Natale?
A lui o a me stesso?
*
In ogni caso, presto partirò. Mi fa un po’ rabbia che, dopo sedici anni di affetto – magari fuori dagli schemi, magari non propriamente canonico, magari non esattamente l’affetto che vorresti da un padre, ma affetto comunque – la prima parola cui Tom penserà ricordandomi sarà “bastardo”. Mi rattrista e mi ferisce, al punto che preferirei non si ricordasse affatto di me. Preferirei cancellare completamente tutta la sua vita fino ad adesso sia nei suoi ricordi che nei miei. Azzerare tutto. Ripartire da zero.
Sì, forse questa sarebbe la soluzione corretta.
Guardacaso, come spesso accade con le soluzioni corrette, è impossibile da attuare.
Io ormai ho quasi cinquant’anni. Mi sono abituato a non prendermela con la vita solo perché spesso non si è in grado di salvare tutti.
…solo, mi sarebbe piaciuto salvare almeno Tom.
Non esserci riuscito, forse, dovrebbe rassicurarmi.
In fondo, io ho fallito. È questo che mi dice la sofferenza di Tom e anche questo inspiegabile rimorso che provo. Tutto questo dolore mi dice che ho fallito. Che ho sbagliato tutto. Che è giusto che paghi.
Io la mia possibilità di agire e sbagliare l’ho avuta.
È giusto l’abbia anche Simone. Se non altro perché sembra che con Bill abbia fatto un buon lavoro, ecco.
Sembrava anche a me, con Tom. Avrò sbagliato anche allora, probabile.
E allora è meglio che il mio errore sia stato l’ultimo della serie.
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