Fandom: Originali
Genere: Generale.
Rating: R.
AVVISI: Het, Slash, Threesome, Angst. (In continua evoluzione.)
- "Nonostante gli sforzi congiunti dei più eminenti scienziati e dei governi della Terra riuniti in assemblea, nonostante gli svariati tentativi operati nei più disparati modi, attingendo a piene mani alle più varie risorse dell'intelletto umano, mettendo a punto le più sofisticate tecnologie che consentissero di risparmiare la maggior percentuale di risorse naturali e artificiali fornite dal pianeta, non è stato possibile evitare il collasso dell'ecosistema. [...] Oggi, primo gennaio 2161, il primo contingente militare terrestre, guidato dal generale Robert Carnival, muove i primi passi sul suolo di Minthe.
E qui comincia la nostra storia."

Note: Raccolta delle varie entry che ho scritto per le Chronicles of Minthe. Ogni capitolo è dedicato a un personaggio diverso, ed i capitoli (corrispondenti ognuno ad un'entry) sono ordinati cronologicamente.
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THE CHRONICLES OF MINTHE
GIORNO 15/16/17/18/19/20/21/22: DANIEL PORTMAN

HDR #535AS35B, in dotazione al soldato semplice Portman, D. N° matricola: 594726.
Registrazione #11.
Data: 15/01/2161
Ora: 06.03.44
Condizioni fisiche: CODICE GIALLO, livelli di acetilcolinesterasi nel sangue superiori alla norma. Diagnosi: stato d'ansia.
Coordinate geografiche: 46°22'N, 2°21'E.

Mi sveglia una specie di ruggito basso, sordo e cupo. Un suono non esattamente minaccioso, ma neanche esattamente rassicurante. Apro gli occhi nel primo sole del mattino, ancora basso sull’orizzonte, freddo e piuttosto debole, e mi guardo intorno, cercando di capire da dove possa provenire.
Trovo un enorme gatto a due code che mi fissa con aria piuttosto irritata, le grandi zampe ben piantate nel terreno. Le code si muovono nervosamente, ondeggiano dietro di lui, a destra e a sinistra. Trattengo il respiro nell’osservare i dettagli del suo pelo dorato cosparso di macchioline irregolari grigio scuro, le orecchie appuntite come quelle di una lince e i grandi occhi verdi dalla pupilla verticale, nerissima, un taglio netto sullo sfondo screziato dell’iride. Ricordo quest’animale, era nelle diapositive che ci facevano osservare durante l’addestramento. Kiritai, lo chiamano qui. È un gatto davvero grosso.
Tiene fra le zanne una specie di capra di piccole dimensioni. Gli occhi spenti fissano il vuoto immobile della morte. La sua cena, suppongo. E la sua tana, immagino, sentendo scricchiolare sotto le dita il comodo letto di foglie secche sul quale mi sono addormentato.
Deglutisco e cerco di ricordare cosa ci hanno detto a riguardo di questi animali nel corso dell’addestramento. Predatori notturni, sì, cos’altro. Preferiscono attaccare gli erbivori. Zanne affilate. Non mi torna in mente niente che possa aiutarmi ad allontanarmi senza irritarlo.
Un vociare indistinto proviene da qualche parte alla mia destra. È abbastanza lontano. Vorrei provare a guardare in quella direzione, ma ho paura che se smetto di fissarlo il kiritai mi attaccherà. Le sue due code continuano ad ondeggiare incerte a destra e sinistra, le orecchie si abbassano appena e poi tornano ben dritte con uno scatto. Ha gli artigli sguainati, lasciano tracce nel terriccio morbido sotto le sue zampe.
Le voci devono provenire dall’ospedale da campo, mi dico, e poi noto che il kiritai non sembra turbato al sentirle. Anzi, sembra piuttosto abituato al loro suono. D’altronde, non siamo poi molto lontani da Miloto, o da quello che ne resta. Deve essere uno di quegli animali selvatici abituati alla presenza dell’uomo come una creatura da non temere, ma dalla quale è meglio tenersi alla larga.
Cercherò di fare lo stesso, gattone. Non ti temo – mi scivola il sudore gelato lungo la spina dorsale, ma non ti temo –, però è meglio se sto alla larga da te.
Raccolgo lentamente le gambe sotto il corpo, mi sollevo sulle ginocchia ed indietreggio, tenendo entrambe le mani sollevate. Il kiritai segue i miei movimenti con attenzione. Almeno ha smesso di ringhiare.
Continuo ad allontanarmi sulle ginocchia per un paio di metri. Sarei più svelto, se mi alzassi in piedi, ma i cespugli che mi nascondono sono bassi e ho paura che qualcuno dall’ospedale possa vedermi. Devono essersi accorti della mia assenza, ormai. Mi chiedo come stia il ragazzino, come stia sua sorella. Poi scuoto il capo perché non posso lasciarmi distrarre, non adesso.
Lascio il letto di foglie libero per il suo legittimo proprietario e il kiritai si limita ad accucciarsi, lasciando finalmente andare la propria preda. La tiene saldamente fra le zampe anteriori e lecca pigramente il sangue che sgorga dalle enormi ferite aperte dalle sue zanne sul suo collo. Smette immediatamente di degnarmi di qualsiasi attenzione, ed io lo fisso, incerto sul da farsi.
I cespugli si interrompono a pochi passi da me. Il sole si sta alzando, le voci si fanno più alte. La vita all’ospedale da campo riprende a muoversi frenetica e, quando sollevo appena il capo per sbirciare, vedo che stanno arrivando nuovi feriti dalla città e dalle campagne circostanti. Se ancora avevo qualche possibilità di lasciare questo posto, ormai è del tutto impossibile. Mi vedrebbero, mi catturerebbero. Non voglio finire di nuovo in quel buco.
Il kiritai, tutto preso dalla sua colazione, continua a non degnarmi neanche di uno sguardo. Mi seggo, appoggiando le spalle al tronco di un albero vicino e raccogliendo le ginocchia al petto. Gli lancio un’occhiata circospetta ma lui continua ad ignorarmi, ed io sospiro sollevato. Se sono fortunato, sbranerà la sua capra e poi sarà sazio a sufficienza da dormire per tutto il resto del giorno. Una volta tornata la sera, potrò provare a scappare.
Cerco di spiare l’ingresso dell’ospedale da campo oltre la fitta trama delle foglie e dei rami che si intrecciano nel folto dei cespugli, ma vedo solo macchie di colore, brandelli di abiti sdruciti, le lunghe tuniche bianche macchiate di sangue dei medici. E le voci della gente che urla, delle gente che soffre, della gente che muore, che si affievoliscono soltanto quando, in un fragoroso scrocchiare di ossa e lacerarsi di carne, il kiritai comincia a sbranare la sua preda.



HDR #535AS35B, in dotazione al soldato semplice Portman, D. N° matricola: 594726.
Registrazione #12.
Data: 15/01/2161
Ora: 12.56.43
Condizioni fisiche: CODICE GIALLO, livelli di albumina nel sangue inferiori alla norma. Diagnosi: principio di malnutrizione.
Coordinate geografiche: 46°22'N, 2°21'E.

Ho fame. Il kiritai sta ronfando tranquillo a pochi passi da me ormai da un paio d’ore, la grande testa quadrata appoggiata sulle zampe incrociate. Non l’ha neanche mangiata tutta, la sua stupida capra. Ne ha mangiato tutte le interiora, l’ha svuotata come una zucca di Halloween, l’ha rivoltata come un calzino e poi ne ha lasciata lì più di metà. Probabilmente la conserva per cena.
Io non mangio da due giorni e ho così tanta fame che anche la carne cruda mi fa venire l’acquolina in bocca.
Lancio un’occhiata incerta al kiritai. Forse, se mi avvicino silenziosamente…
Neanche mi avesse sentito pensare, quello apre un occhio e mi fissa. Ringhia piano, in segno di avvertimento. Io sollevo le braccia e scuoto il capo, e torno a sedermi composto con la schiena contro il tronco. Questo basta a tranquillizzarlo, e lui torna a ronfare.
In breve, si diffonde nell’aria un odore penetrante ma estremamente piacevole, come di brodo di pollo. Immagino venga dall’ospedale, dev’essere il pranzo per i feriti. Il mio stomaco romba come i vetri alle finestre durante un temporale, e mi sfugge dalla bocca un gemito disperato. Se non mangio qualcosa subito, comincerò ad autodigerirmi.
E poi mi piove una zampa di capra sulla testa.
Mi volto a guardare il kiritai, sbattendo gli occhi. Sta dormendo esattamente nella stessa posizione in cui dormiva prima, l’enorme corpo che si gonfia e si sgonfia appena al ritmo dei suoi respiri. Sembra che non si sia nemmeno mosso, eppure quella roba non può essere venuta che da lui.
La prendo fra le mani, lanciandole un’occhiata dubbiosa. Non so nemmeno come mangiarla, questa cosa, ma credo che mi farò venire qualche idea.



HDR #535AS35B, in dotazione al soldato semplice Portman, D. N° matricola: 594726.
Registrazione #13.
Data: 17/01/2161
Ora: 15.34.43
Condizioni fisiche: CODICE VERDE.
Coordinate geografiche: 46°22'N, 2°21'E.

Non so bene cosa pensare. Vivo fra i cespugli da due giorni, ormai. Il kiritai mi porta del cibo ogni volta che torna dalla caccia. Stamattina, oltre alla solita coscia di capra, mi ha portato anche della frutta. Non riesco a spiegare il piacere che ho provato nell’affondare i denti nella polpa umida e zuccherina di quella specie di enorme melone arancione dalla buccia spessa dopo aver faticato mezz’ora per aprirlo sbattendolo ripetutamente contro un sasso, con in testa fissa la consapevolezza che sarei probabilmente stato in grado di digerirlo, a differenza della carne cruda che, oltre a sfamarmi, mi ha riempito lo stomaco di dolori per due giorni.
Ricordavo che fossero animali piuttosto intelligenti, ma non avevo idea che lo fossero fino a questo punto. Avrei potuto fuggire, due giorni fa, ma il kiritai mi aveva già offerto la zampa della sua capra ed io non avevo alcun altro posto in cui spostarmi. Né una direzione da prendere.
Non ce l’ho neanche adesso. Sembra che l’unico altro essere vivente a cui importi qualcosa della mia esistenza sia questo enorme gatto peloso dalle orecchie a punta e dagli enormi occhi verdi, che ogni mattina all’alba torna dalla sua battuta di caccia, stacca un pezzo dalla sua ultima preda, me lo offre e poi si raggomitola al mio fianco per riscaldarmi, facendo le fusa così forte che l’eco mi rimbomba nelle orecchie anche quando poi lui si allontana.
È una brava bestia. L’ho chiamata Trish, anche se è maschio.
Mi sciacquo il viso nell’acqua bassa del piccolo ruscello che Trish mi ha mostrato nella mattinata di ieri, quando ha cominciato a sentirmi annaspare per la sete. Appena sente l’acqua schizzare e sgocciolare, solleva immediatamente il capo dalle zampe e si volta a guardarmi, le orecchie che si abbassano e poi si drizzano veloci, e poi ruotano appena sul loro asse per captare qualsiasi altro suono nelle vicinanze.
Lo osservo voltarsi in direzione dell’ospedale e gattono vicino a lui, poggiandogli una mano fra le scapole. Guardo nella sua stessa direzione e spalanco gli occhi, tendendomi tutto in un fiotto improvviso di emozione che non riesco a spiegarmi quando vedo il ragazzino uscire dall’ospedale, accompagnato da un medico e da un uomo più alto di lui, che tiene la bambina fra le braccia. Le sue gambe penzolano giù dalle braccia dell’uomo, completamente senza vita. Non sono rimaste cicatrici e tutte le sue ferite si sono richiuse senza lasciare traccia. Nessuna traccia tranne quella.
Abbasso lo sguardo sulla ferita ormai chiusa sul palmo della mia mano. La crosta sta già cominciando a venire via, lasciandosi dietro uno strato di pelle più bianca e liscia del resto che non cambierà più colore né grana per tutto il resto della mia vita. Il mio segno.
Chiudo la mano a pugno e torno a guardare i quattro. Aspetto che il medico torni dentro e che il ragazzino e gli altri comincino ad allontanarsi, e poi scivolo fuori dai cespugli, correndo loro dietro.
“Ragazzino!” gli dico, agitando una mano nella sua direzione. Lui sente la mia voce, si gira e mi lancia un’occhiata allarmata, fermandosi nel mezzo della strada sterrata.
“Neih!” strilla, protendendo le braccia verso di me per fermarmi. Nel mentre, l’uomo si volta, vede la scena e, veloce come un fulmine, posa la ragazzina per terra e sfodera un lungo coltello da una piega della sua veste. Supera il ragazzino con un balzo e mi punta il coltello alla gola, sento la lama affilata graffiarmi la pelle nonostante la barba e sento il ragazzino strillare “Neih!” un’altra volta, la voce rotta, e poi improvvisamente tutto il mio intero corpo viene sbalzato all’indietro, io finisco con la schiena per terra e le gambe per aria sbattendo entrambi i gomiti e Trish si avventa contro l’uomo, ruggendo inferocito.
“Trish, no!” urlo io, sollevandomi in piedi di scatto, inciampando e poi lanciandomi addosso al kiritai, stringendolo al collo e riuscendo a tirarlo via un secondo prima di vedergli affondare le zanne nel collo dell’uomo. Non mollo la presa e continuo a tirare, “No, Trish, no!” gli sussurro, cercando di calmarlo. Lui ringhia ancora, ma obbedisce come se il significato della situazione non gli sfuggisse per niente e quell’attacco fosse solo un modo per mettere in chiaro che io non vado toccato.
Nel frattempo, il ragazzino si è avvicinato all’uomo e lo guarda da tutte le parti, come per assicurarsi che stia bene. Scambiano qualche parola che non riesco a identificare, e poi lo vedo correre verso la sorella ed inginocchiarsi al suo fianco. Le chiede probabilmente se sta bene, accarezzandole i capelli con dolcezza, e lei annuisce, un piccolo sorriso ad incresparle le labbra rosa come fiori di pesco. Poi torna a guardare me, e lo fa con occhi strani, il sorriso che le si allarga sul volto.
Non ho tempo di riflettere su cosa possa voler dire, perché il ragazzino si alza e mi viene incontro, furioso. Mi afferra per le spalle e mi tira su, Trish ringhia e lui si fa indietro, ma io lo accarezzo sulla testa e il mio gattone-guardia del corpo si placa. Il ragazzino, invece, no. Sentendosi legittimato dal fatto che sto tenendo a bada il kiritai per proteggere lui, comincia a spintonarmi. Trish brontola e si accuccia a qualche passo da me, evidentemente stufo di difendere un uomo che non vuole essere difeso. Leggo negli occhi del ragazzino tutta la frustrazione che sente nel non potermi nemmeno chiedere cosa ci faccio ancora qui e perché diamine mi sia messo in testa di seguirlo.
Mi urla qualcosa nella sua lingua, qualcosa che non capisco e che non mi interessa nemmeno capire. Mi spintona un’altra volta e mi manda lungo disteso per terra, poi si volta e fa cenno all’uomo, che nel mentre si è chinato a recuperare la bambina, di rimettersi in marcia.
Io mi alzo in piedi, mi sistemo addosso i vestiti logori e sporchi, mi avvolgo nel mantello che ancora porta attaccate addosso tracce di un profumo non mio e lancio un’occhiata al kiritai. Lui scatta subito in piedi e capisco che non me ne libererò più. Gli sorrido, grato, e comincio ad arrancare dietro il ragazzino.
Lui ci mette un paio di secondi ad accorgersi che lo sto seguendo, ma quando accade si volta istantaneamente verso di me, sferrandomi un’occhiataccia oltraggiata. “Neih!” grida, avvicinandosi apposta per spingermi a indietreggiare, “Neih! La’h meth!”
Non gli rispondo, e lui riprende a camminare dietro all’uomo e alla bambina. Io riprendo a camminare dietro di lui, Trish non mi molla un secondo e il ragazzino, dopo un altro paio di secondi, si volta, mi vede e lascia andare un lamento frustrato, tornando indietro per spingermi di nuovo e ripetermi “Neih! Neih!”, ma io fingo di non capire, e continuo a seguirlo.
La scena si ripete identica ancora un paio di volte. Poi, il ragazzino si rassegna.
Cammino seguendo la scia del suo profumo selvatico.



HDR #535AS35B, in dotazione al soldato semplice Portman, D. N° matricola: 594726.
Registrazione #14.
Data: 21/01/2161
Ora: 11.35.24
Condizioni fisiche: CODICE VERDE.
Coordinate geografiche: 47°14'N, 0°43'W.

Siamo in viaggio da quattro giorni, ormai. È curioso quello che sta succedendo, viaggiamo quasi l’uno di fianco all’altro ed è ormai evidente che la mia presenza, se non accettata, viene comunque tollerata sia dal ragazzino che dall’uomo, ma entrambi si rifiutano di considerarmi come una cosa effettivamente esistente. Mi trattano come una seccatura, una specie di male necessario. Non mi infastidisce troppo, mi basta che non mi caccino via.
Ogni notte, Trish va a caccia, ed ogni mattina all’alba torna carico di ogni sorta di strambo animale commestibile, da uccelli dal piumaggio vistoso grassi come tacchini e vagamente rassomiglianti a dei piccioni obesi alle sue amate capre. Ogni tanto torna perfino con qualche pesce.
Abbiamo realizzato una sporta con la pelle essiccata di una delle capre, e conserviamo lì il cibo, immerso nel sale ed in altre spezie che l’uomo aveva con sé nel proprio bagaglio. Ogni giorno, verso mezzogiorno, ed ogni sera, verso le sei, ha luogo l’unico rituale che condividiamo tutti. Accendiamo un piccolo falò ed arrostiamo la carne, mangiando tutti insieme, in completo silenzio. Trish, accucciato vicino a me, mangia soddisfatto la sua dose di carne cruda, e sembra non chiedere altro che la mia mano fra le orecchie, dalla vita.
Il modo in cui si è affezionato a me così rapidamente mi commuove quasi. Quella zampa di capra tirata sulla testa è stato il primo gesto di affetto incondizionato che io abbia ricevuto da che sono arrivato su questo pianeta. Mi sembra di non ricambiare abbastanza, ma d’altronde non ho idea di cosa potrei fare per ricambiare le gentilezze di questo felino enorme. Sembra che proteggermi e prendersi cura di me lo ripaghi abbastanza, comunque. Ogni tanto si avvicina e strofina l’enorme testone contro il mio fianco, infilandomelo sotto un braccio e facendo le fusa quando gli gratto il collo, e sembra felice abbastanza così. Sentendosi utile e coccolato.
Ieri ho lasciato che la bambina gli si sedesse in groppa. Mi è stata addosso tutto il tempo, nel corso degli ultimi giorni. È l’unica del gruppo che sembri non solo considerarmi, ma essere addirittura interessata, quasi incuriosita da me. Non potrei giurarci perché, anche se mi parla tutto il tempo, non capisco una parola di quello che dice, ma credo che ricordi di avermi vista quand’era ferita, quando le ho sollevato quella pietra enorme di dosso. Dall’inflessione della sua voce, sembra che mi ricopra di domande, ogni volta che costringe l’uomo a lasciarla in braccio a me, ma ovviamente non posso rispondere a nessuna di esse. Il ragazzino, ogni tanto, quando la vede insistere troppo, la rimprovera aspramente. Poi, si volta verso di me e si abbassa a farmi un cenno col capo, mormorando qualcosa che credo sia una parola di scuse.
Comunque, i giorni di viaggio sono stati lunghi e la bambina non può camminare. L’uomo la porta in braccio senza lamentarsi, ma per quanto piccola e leggera sia è comunque difficile reggerla così a lungo. Perciò, ho indicato la groppa di Trish, e lui ha obbedito diligentemente, avvicinandosi ed offrendo la schiena. L’abbiamo sistemata a cavalcioni e il ragazzino le ha detto di reggersi forte al collo del kiritai. Lei ha obbedito, e cavalca ormai da ventiquattro ore come una professionista. Trish non sembra infastidito da lei. Agita le sue due code lentamente, morbidamente, lanciandomi occhiate di tanto in tanto e facendo le fusa quando scorge un mio sorriso di approvazione.
È quasi mezzogiorno, e comincio ad avere fame. Il sole batte senza pietà sulla mia testa, ed il caldo verso quest’ora è sempre intenso abbastanza da costringerci a fermarci. Deviamo dalla strada sterrata che stiamo ostinatamente percorrendo da quando ci siamo allontanati dall’ospedale e, superato un piccolo boschetto ombroso, ci ritroviamo in una radura tutta verde e rosa. L’erba è alta e morbida, ed emana un profumo buonissimo che si fonde con naturalezza col profumo dei fiori rosa che punteggiano tutto il prato. Non appena li vede, Trish emette un miagolio estasiato, e comincia a saltellare. La bambina, reggendosi forte al suo collo, ride divertita, e rischia quasi di scivolare quando lui, felice, piega il collo per strappare un petalo rosa e rigirarselo sulla lingua.
Vedo che non lo morde, si limita a succhiarlo, e, incuriosito, ne strappo uno a mia volta, mettendolo in bocca. Sa di zucchero di canna con un quasi impercettibile retrogusto piccante, è buonissimo. Lancio anch’io un gridolino che assomiglia parecchio al miagolio del mio gattone e mi inginocchio accanto al suo grosso muso, strappando un petalo dopo l’altro per mangiarli. Il ragazzino mi rivolge un sorriso divertito e quasi impietosito, e sia lui che l’uomo si inginocchiano a propria volta, raccogliendo un gran numero di fiori e conservandoli in una sacca.
Siamo tutti così presi dai fiori rosa che quasi non notiamo il piccolo lago a pochi metri da noi. Nel momento in cui i miei occhi scorgono il riflesso brillante della luce del sole sulla superficie dell’acqua, il cuore mi fa un salto nel petto. Sono giorni che non faccio un bagno.
Senza neanche pensarci, scatto in piedi e comincio a togliermi i vestiti di dosso. Sono così luridi che mi si sono quasi appiccicati alla pelle, è un sollievo poterli sfilare e buttare per terra senza nemmeno pensarci. Non so neanche cosa indosserò dopo, e non m’importa. Per quanto mi riguarda, posso andare in giro nudo per tutto il resto del viaggio, se questo mi consentirà di fare un bagno adesso.
L’urlo stridulo e lancinante che sento provenire da qualche parte alle mie spalle mi frena proprio un attimo dopo aver lanciato per aria le mutande, e un attimo prima di lanciare per aria me stesso verso il lago. Congelato sul posto, mi volto verso il ragazzino, che sta fermo in mezzo al prato con le mani sulla faccia e le dita larghe per lasciare scoperti gli occhi. Che, dico, se vuoi coprirti il viso, lo stai facendo male, ragazzino.
“Cosa?” chiedo, anche se so che non può capirmi.
“Vasra t’neih!” strilla lui, avvicinandosi di corsa e raccogliendo il mantello da terra per avvolgermelo attorno alle spalle, “T’veis!”
“Che—” sbotto io, “No, voglio farmi il bagno.” Mi scrollo il mantello di dosso e poi mi volto verso il lago, indicandolo. “Visto? C’è un lago. Voglio—”
“Vasra t’neih!” ripete lui, inorridendo ancora una volta. È rosso fino alla punta delle orecchie. Io mi guardo e la consapevolezza di essere nudo mi colpisce, ed arrossisco un po’. La sensazione non è abbastanza intensa da costringermi a rivestirmi, però. L’idea del bagno ha ancora la priorità.
“Eh, che sarà mai,” scrollo le spalle, girando su me stesso e riprendendo a trottare verso il lago, “Sei un maschietto anche tu, in fondo, no?”
Lui non mi risponde. Lo sento correre via e il secondo dopo sono immerso nell’acqua gelata del laghetto fin sopra la testa. Resto immerso finché il fiato me lo consente, e poi riemergo schizzando tutto intorno ed esalando un sospiro soddisfatto mentre mi riempio i polmoni di aria fresca nonostante l’umidità che risale dall’acqua. Trish è accanto a me, sulla riva. Mi preme il muso contro una guancia e, mentre io rido, si china a bere. Mi appoggio con i gomiti sull’erba, sentendo le formiche farmi il solletico sotto gli avambracci, e non m’importa nemmeno. Sbatto i piedi nell’acqua e mi sento rinato.
“T’veis,” dice il ragazzino. Lo guardo al contrario, da sotto in su. Stringe il mio mantello fra le mani, porgendomelo con insistenza.
“No, dai!” borbotto, scuotendo il capo, “Non ancora. Fra un po’.”
Lui sospira, anche se non ha capito cosa ho detto deve intuirne il significato dal tono della mia voce. Si volta a guardare l’uomo, che nel mentre sta disponendo un po’ di pietre in circolo per accendere un falò. La bambina è seduta poco distante da lui e sta intrecciando una corona di fiori, svelta come se lo facesse per mestiere.
Il ragazzino sorride, guardandoli. È molto più carino, quando si rilassa.
“È tua sorella, vero?” domando. Lui si volta a guardarmi, sbattendo le palpebre con aria confusa. “Sorella,” ripeto. Cerco di ricordare la parola nella sua lingua. “Comar?”
Lui sbuffa una mezza risata. “Crest,” dice. Io mi scuso, ridendo. Ho sbagliato di nuovo lingua. Però annuisce, quindi è sua sorella davvero. “Avar,” aggiunge quindi, indicando l’uomo. Ricordo questa parola. È suo padre. Sono la sua famiglia.
Gli sorrido, annuendo. “Sono contento che ce l’abbiate fatta e siate insieme,” dico. Non so se mi capisce, ma annuisce e sorride anche lui.
E poi si mette a fare qualcosa che non comprendo subito.
“Saiah,” dice, indicando la ragazzina. Poi indica l’uomo: “Vartih.” Sto chiedendomi se non siano per caso i loro nomi, quando lo vedo puntare il dito contro la superficie dell’acqua. “Shaili’h,” dice, e poi punta lo stesso dito contro il cielo: “Taba,” e capisco che sta cercando di insegnarmi la sua lingua.
“Ah, no!” lo interrompo subito. Non ne ho proprio voglia, non adesso. Adesso voglio solo rilassarmi, stare a mollo come un pesce e non pensare a niente finché non dovremo per forza andare via. Lo afferro per un lembo della sua tunica e strattono forte, costringendolo ad una piccola capriola e poi ad atterrare con un tuffo nient’affatto discreto a un metro circa dalla riva. Schizza ovunque, e schizza ancora di più quando, pochi istanti dopo, riemerge, agitando le braccia, scuotendo la testa ed inspirando affannosamente.
“Thal’smen!” mi ringhia contro, ed io scoppio a ridere, anche se dal tono sembrava abbastanza un insulto.
“Inye!” grida il padre del ragazzino, la voce profonda, carica di rimprovero. Il ragazzino si volta verso di lui e, gesticolando come un ossesso, cerca di spiegargli le proprie ragioni. Io non li ascolto già più e continuo a ridere come un bambino, mentre Trish, contagiato dall’entusiasmo e dall’eccitazione generale, saltella un paio di volte a destra ed a sinistra e poi si decide a tuffarsi in acqua insieme a me.
Mentre lo osservo riemergere con un miagolio spaventatissimo ed arrampicarsi a fatica con quelle sue enormi zampone su per la riva, mi stendo sull’erba e guardo il cielo terso di mezzogiorno. È difficile ricordare che c’è una guerra che va avanti, a qualche chilometro da noi, quando tutto quello che ti circonda ride.



HDR #535AS35B, in dotazione al soldato semplice Portman, D. N° matricola: 594726.
Registrazione #15.
Data: 22/01/2161
Ora: 23.45.34
Condizioni fisiche: CODICE GIALLO, livelli di acetilcolinesterasi nel sangue superiori alla norma. Diagnosi: stato d'ansia.
Coordinate geografiche: 47°13'N, 1°33'W.

È molto più facile quando, invece, cominci a vedere il fuoco graffiare il cielo violaceo della notte, e capisci che il luogo verso il quale ti stavi dirigendo ormai non esiste più.
Lo leggo negli occhi del ragazzino, di suo padre e della bambina quando cominciamo a scorgere le prime case in fiamme, le colonne di fumo scuro più alte delle montagne, il crepitio del fuoco che mangia il legno delle abitazioni, la paglia nei fienili, che rende incandescente l’aria, che la rende irrespirabile.
Non è rimasto niente. Arriviamo alle porte del villaggio, e sono bruciate anche loro. Le colonne di mattoni scuri sono state abbattute dalle bombe, il fuoco ha divorato tutto il resto. Le strade sono lastricate di cadaveri di uomini, donne, bambini ed animali. La puzza di carne carbonizzata è nauseante.
Pochi passi lungo la strada, e il ragazzino cade sulle ginocchia, piegandosi su se stesso, accartocciandosi come se le fiamme stessero bruciando anche lui dall’interno. China il capo e vomita, nascondendosi con entrambe le mani. La bambina sta già piangendo da molti minuti, il viso rigato di lacrime nascosto fra il pelo morbido del collo di Trish. L’uomo sta dritto in piedi a pochi passi da me, il riflesso delle fiamme gli fa brillare le lacrime di rabbia agli angoli degli occhi. Stringe i pugni con tanta forza che quasi tremano.
Mi chino sul ragazzino pochi istanti dopo. Gli passo una mano sulle spalle e lui se la scrolla di dosso in un gesto violento. Io insisto, lui trema sotto le mie dita e mi lascia fare. È scosso dai singhiozzi per minuti interi, poi si passa una mano sugli occhi e solleva una mano in una silenziosa richiesta di aiuto. Lo reggo mentre si rimette in piedi e poi barcolla verso il padre. Si abbracciano brevemente, ma con forza, e poi stringono fra loro anche la bambina, che nasconde il viso contro il petto del padre e piange ancora più rumorosamente.
Dopo qualche secondo, a furia di carezze e sussurri, riescono a calmarla. La appoggiano nuovamente sul dorso di Trish, e lei si stende, stringendo il suo pelo fra le dita e chiudendo gli occhi, esausta.
Il ragazzino e suo padre si scambiano qualche parola e poi cominciano a cercare intorno qualche superstite. Io mi aggiungo a loro, do una mano come posso, ma non è sopravvissuto nessuno. Ovunque ci sono solo cadaveri sfigurati o carbonizzati. Non c’è niente a cui le fiamme non siano arrivate, niente che sia stato risparmiato.
Poi il ragazzino si ferma all’improvviso. Rovescia un carretto di legno di cui non resta quasi altro che mozziconi e prende fra le mani un piccolo uccello simile ad una rondine, ma di colore più chiaro. Porta un messaggio arrotolato e legato ad una delle zampe. È morto anche lui, ma il messaggio è intatto.
L’uomo ed io ci avviciniamo insieme e leggiamo quanto scritto sul foglio da sopra le spalle del ragazzino. Fortunatamente, è tradotto in tutte e quattro le lingue del posto, il che mi permette di mettere insieme tutto quello che so di ognuna di esse e capire che si tratta di una chiamata alle armi. I ribelli si stanno riunendo in un posto chiamato Falhai. È una base, ma è anche un rifugio protetto fra le montagne. L’unico luogo intoccato dalle bombe rimasto in tutto il pianeta.
Il ragazzino e suo padre si guardano, scambiano qualche parola e poi annuiscono. Dopodiché continuano a cercare, entrando in ogni casa, o almeno in tutte quelle rimaste in piedi. Cercano ancora superstiti, sì, ma soprattutto provviste. Ad ogni viaggio tornano portando cibo, coperte, acqua e medicinali. Caricano le borse e poi, a gesti, chiedono il permesso di caricarne qualcuna sulle forti spalle di Trish. Naturalmente io annuisco, dando loro una mano.
Da quando sono qui, ma anche prima di partire, durante l’addestramento, mi sono sempre sentito senza uno scopo. Quando Trish era ammalata, ma ancora viva, la mia ragione per entrare nell’esercito era che, in quanto moglie di un ufficiale, avrebbe usufruito di cure migliori, ma dalla sua morte l’unica ragione ad avermi spinto fin qui è stata la mancanza di alternative. Cosa avrei potuto fare? Restare sulla Terra? Aspettare la morte, inerte? Aspettare l’inverno eterno delle nuvole di smog ormai ammassate a coprire il cielo anche per mesi, ogni volta? Aspettare le piogge acide, e la puntuale distruzione del raccolto su ogni finire di primavera? Aspettare che finisse del tutto il gasolio, la benzina, che non ci fosse più luce, né acqua pulita? Non potevo che seguire tutti gli altri, venire qui, sperare di trovare qualcos’altro per cui combattere.
Ora mi sembra di averlo trovato.
“Voglio venire con voi,” dico al ragazzino, dopo averlo aiutato a caricare l’ultima borsa sul dorso di Trish ed avergliela legata sotto la pancia. Lui si asciuga il sudore dalla fronte e mi guarda. Ha le guance ricoperte di cenere e arrossate dal calore del fuoco, ma i suoi occhi brillano vivi, attenti, pieni di energia. Mi chiedo se anche i miei brillino nello stesso modo. “Io,” dico indicandomi, “Vengo con voi,” e gli punto un dito contro il petto, “Qui,” concludo, picchiettando l’indice un paio di volte sul biglietto che ancora tiene in mano, e che si è tutto stropicciato.
Il ragazzino lo guarda, poi guarda me. Lancia un’occhiata a suo padre, che ha guardato la scena e che ora annuisce, deciso. Io, però, aspetto la sua risposta.
“Eih,” annuisce, e poi aggiunge con un mezzo sorriso: “Tam’eh.”
Sorrido, annuendo a mia volta, e poi gli porgo una mano. “Daniel,” dico, premendomi la mano libera contro il petto. Non mi ero ancora presentato.
Lui osserva la mano con curiosità e poi mi porge la sua. “Inye,” dice, mentre ce la stringiamo a vicenda.
Nuvole nere si addensano sopra le nostre teste, richiamate dal fumo e dal fuoco, dal contrasto fra il calore estremo dell’incendio e il freddo umido della notte. In pochi secondi, comincia a piovere. In meno di mezz’ora, l’incendio è estinto. E noi ripartiamo in direzione opposta rispetto a quella dalla quale siamo venuti.

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