Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: Fler/Bill (accennato), Fler/Bushido (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, fandom!AU (Doctor Who), Underage.
- Fler ha sette anni quando un uomo misterioso atterra nel cortile sul retro di casa sua con una cabina telefonica blu tutta rotta che ripara con del nastro biadesivo ed un po' di colla.
Ne ha trentuno quando l'uomo, del tutto all'improvviso, si rifà vivo.
Note: Yeee *O*/ Evviva il COW-T perché mi permette di rimettere mano a robe cominciate millenni fa e dimenticate sotto le sabbie del tempo XD Per la precisione, l'idea di questo rip-off è nata mentre recuperavo il Doctor Who. Perdutamente innamorata della dinamica Dottore/Companion, ho deciso di scrivere un DW!rip-off per ogni singola OTP della mia vita, il Mollamy, il Jobra, il Dersecest, il Bleo, e poi volevo scrivere qualcosa anche in ambito german rap/TH, e questo è, sostanzialmente, quello che ne è venuto fuori. Yay? XD
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THE BOY WHO WAITED
PART ONE

Non aveva mai creduto che si fosse trattato di un sogno. Era un bambino incasinato, lo era sempre stato, non riusciva a ricordare un momento della propria infanzia in cui per un motivo o per l’altro non si fosse ritrovato immerso in problemi e guai di ogni tipo, ma era assolutamente certo di non essere mai stato fuori di sé abbastanza da perdere la cognizione di cosa fosse reale e cosa invece non lo fosse.
Nonostante la realtà alla quale era abituato non fosse in alcun modo piacevole – suo padre non c’era praticamente mai stato (di lui conservava il ricordo di un’ombra, di una voce sommessa e stanca, di una mano grande e callosa e di una ruga orizzontale proprio in mezzo alla fronte, immagini sbiadite che assumevano una consistenza vaga solo quando chiudeva gli occhi prima di addormentarsi, e che invariabilmente erano già sparite quando li riapriva il mattino dopo), sua madre lavorava tutto il giorno per cercare di tirare avanti come meglio poteva, il quartiere, be’, era Tempelhof, nascendoci dentro imparavi a conoscerlo per la giungla che era senza aspettarti niente di diverso dal fatto che mostrasse artigli e zanne ogni volta che provavi a fingere di poterti dimenticare di lei – si era sempre rifiutato, fin da piccolo, di vivere in un mondo di fantasia. La fantasia era un privilegio dei bambini con due genitori (due posti di lavoro, due stipendi). Era un privilegio di chi non doveva svegliarsi all’alba per andare a scuola a piedi. Un privilegio di chi poteva permettersi di tornare a casa ed accendere la televisione e passare le successive sei ore a stordirsi di cartoni animati prima che la mamma lo chiamasse perché era pronta la cena. Un privilegio di chi aveva una mamma che lo avrebbe chiamato nel momento in cui la cena sarebbe stata pronta.
Un privilegio che lui non aveva.
La fantasia era una bugia comoda che lui si era rifiutato di lasciarsi raccontare. Preferiva vivere nella realtà – spigolosa, dura, dolorosa ma sincera. Gli piaceva pensare di poterla conoscere, anche se ciò non significava avere anche solo il minimo potere di cambiarla. Ma era lì, tangibile, sicura. Non era un’illusione, era tutto ciò a cui dovevi abituarti, perché era tutto ciò che ti avrebbe accompagnato per il resto della tua vita. L’unica cosa davvero tua. Il tuo mondo.
Per questo motivo era sempre stato sicuro di non aver sognato, quella notte. Perché era vigile, perché i suoi occhi erano bene aperti e attenti, perché quell'uomo era apparso davvero, nel cortile di casa sua, lui e quella strana cabina telefonica. Non c'erano cabine telefoniche nel suo quartiere - c'era solo ciò che ne rimaneva dopo anni di vandalismo e tag di artisti di strada e vagabondi che le scambiavano per un comodo rifugio caldo in cui passare la notte - e di sicuro non ce n'erano mai state nel suo cortile, o in quel quadrato di ghiaia polverose e biancastra che sua madre chiamava cortile -, e così com'era vero che non ce n'era mai stata una era anche vero che non ce n'era più stata una dopo quella notte, e così come entrambe queste cose erano vere, Fler era sicuro di averla vista, lei e quell'uomo, e che non si fosse trattato di un sogno, né di un'illusione, né della fantasia di un bambino solo e triste e frustrato e spaventato dalla realtà.
Era accaduto veramente. Era accaduto veramente e non era stato un attimo, era stato delle ore. Era stato lo schianto - di cui nessuno sembrava essersi accorto -, era stato uscire in cortile e trovare quella cabina telefonica lì, ferma in mezzo al niente, avvolta dal fumo e dalla nebbia nel silenzio assoluto della notte. Era stato avvicinarsi e sfiorare con la punta delle dita la vernice blu con cui era dipinta, era stato sentirne lo smalto graffiato e sbiadito sotto i polpastrelli, era stato indietreggiare di qualche passo e trattenere il fiato mentre la porta si apriva con uno scricchiolio sinistro e quell'uomo altissimo dalla pelle scura e dal sorriso abbagliante ne veniva fuori con tutti i vestiti stropicciati ed un'espressione di scuse ad addolcire i tratti del viso.
Fler c'era, era lì. L'aveva visto. L'aveva sentito.
- Mi dispiace, - aveva detto l'uomo, allontanandosi dalla cabina telefonica ed osservandola con aria preoccupata, - ho combinato un disastro. Avresti mica del biadesivo e un po' di colla?
Fler l'aveva fissato a lungo in silenzio, le labbra dischiuse e gli occhi spalancati mentre cercava di fare mente locale chiedendosi se in casa ci fosse niente di quello che quell'uomo stava domandando. Alla fine aveva risposto di sì, era scappato di corsa dentro casa ed era salito al piano di sopra, infilandosi di corsa nello sgabuzzino all'interno del quale suo padre teneva tutti gli attrezzi del suo mestiere - qualunque fosse - prima di andare via di casa. Odiava lo sgabuzzino, non perché la lampadina si fosse fulminata anni prima e non fosse mai stata cambiata, condannando quella stanza minuscola ad un'eternità di buio - Fler non aveva alcuna paura del buio; non c'era niente, nel buio, a parte il buio, e il buio non poteva toccarti, né farti del male -, ma perché si trattava di una stanza chiusa, senza finestre, e puzzava dell'odore di papà invecchiato di mille anni, come se, nonostante lui fosse andato via, fosse rimasto un pezzo del suo corpo nascosto là dentro, e non riuscisse a nessuno di trovarlo per gettarlo via.
Aveva afferrato la cassetta degli attrezzi di papà e l'aveva trascinata fuori, in corridoio. Era di metallo, mezza arrugginita, ed i manici lasciavano sulle mani una traccia marroncina che puzzava incredibilmente. L'aveva aperta ed aveva rovistato all'interno, trovando ciò che gli serviva, ed era corso subito di sotto, senza riporre la cassetta degli attrezzi al proprio posto. Ci avrebbe pensato più tardi, o forse l'avrebbe lasciata lì, spostandola in un angolo del corridoio in modo che mamma non la notasse.
- Ho trovato questi... - aveva detto all'uomo, una volta tornato in cortile. Aveva teso la mano, mostrandogli il piccolo tesoro risultato della sua avventura, e l'uomo aveva sorriso, ringraziandolo con un cenno del capo.
- Vivi qui tutto da solo? - gli aveva chiesto, mentre si avvicinava alla cabina telefonica e cominciava a rattopparla. Fler si era mosso in avanti per guardarlo muoversi più da vicino.
- No. - aveva risposto, scuotendo il capo, - C'è mia mamma con me.
- Capisco. - aveva annuito l'uomo, sempre sorridendo, - E allora perché sei solo adesso?
Fler aveva abbassato lo sguardo. Era solo sempre, non soltanto in quel momento. Conosceva l'amore di sua madre come una certezza istintuale, ne era consapevole come era consapevole di tutte le altre cose reali che lo circondavano, le cose ovvie, il sole, la luna, il cielo, il letto, lo zucchero, lo zaino per andare a scuola, i lividi per le botte dei bulli, il sangue dal naso, la fame, la sete, il sonno, il bisogno di andare in bagno. Fra tutte queste cose c'era l'affetto di mamma, vero, eterno, tangibile, più tangibile perfino di mamma in sé.
Fler si sentiva amato. Sapeva di essere amato.
Ma si sentiva anche solo. E sapeva di essere solo.
Aveva scrollato le spalle, come se non gliene importasse poi tanto, continuando ad osservarlo lavorare.
- Tu da dove vieni? - gli aveva chiesto quindi, quando il peso del silenzio aveva cominciato a farsi insopportabile.
L'uomo aveva riso, incollando la porta scardinata al proprio posto.
- Un po' da tutte le parti. - aveva risposto. Fler l'aveva guardato con diffidenza, scrutando il suo profilo nel buio. Anche senza nemmeno una luce accesa se non quelle dei lampioni sulla strada dall'altro lato della casa, il tatuaggio che gli copriva un lato del collo era talmente grande e scuro da risultare perfettamente visibile.
Quello era sicuramente un tipo pericoloso. Solo un tipo pericoloso risponde così a domande talmente dirette.
- Non è un posto. - gli aveva fatto notare con aria imbronciata, ma l'uomo non aveva dato segno di averlo sentito, allontanandosi dalla cabina telefonica per osservarla da ogni parte con aria soddisfatta.
- Bene, - aveva detto quindi, - è a posto. - Poi si era voltato a guardarlo, sorridendo incoraggiante. - Vieni a fare un giro con me? - gli aveva chiesto.
Fler aveva aggrottato le sopracciglia, incrociando le braccia sul petto ed indietreggiando ancora, sulla difensiva.
- Nemmeno ti conosco. - aveva protestato diffidente.
- Ma io sono il Dottore. - aveva risposto l'uomo con quel sorriso incrollabile ed un'aria di ovvietà che aveva costretto Fler a distendere i lineamenti del volto mentre si domandava distrattamente e curiosamente "ma il Dottore chi?".
L'uomo aveva socchiuso la porta della cabina telefonica, invitandolo ad avvicinarsi.
- Vieni con me. - gli aveva detto, - E' solo un giretto.
- Ma è troppo piccola quella. - aveva protestato Fler, indicandola e restando fermo dove si trovava.
L'uomo aveva sorriso ancora.
- È più grande dentro. - lo aveva rassicurato.
Fler aveva deglutito, voltandosi verso la porta sul retro, intenzionato a correre dentro senza più voltarsi indietro. Casa sua giaceva immobile e addormentata a pochi passi da lui. Era buia, troppo grande, vuota, e lui era tornato a guardare il Dottore senza nessun ripensamento.
Lui lo aveva portato in alto, lontano da casa sua, lontano dal quartiere, lontano da quel mondo al quale Fler aveva deciso di attaccarsi in maniera così disperata perché era l'unica cosa che conoscesse. Aveva aperto la porta della cabina telefonica, spalancandola sul blu intenso dell'universo, e gli aveva detto "guardati intorno, guarda com'è bello", e con le lacrime agli occhi Fler aveva guardato nella profondità di un abisso grande in maniera incalcolabile, e si era sentito minuscolo ed enorme, insignificante ed assoluto, e completamente senza fiato.
In orbita assieme alle stelle, aveva scoperto un nuovo tipo di realtà, una realtà sconosciuta, ma non per questo meno vera, non per questo meno sua. C'era altro oltre alla casa vuota, oltre alle strade sporche di Tempelhof, oltre alla verità dolorosa di Berlino, c'era altro oltre alle cose vere e brutte che erano state la sua unica possibilità fino al giorno prima.
Era fantastico, ma non era una fantasia, e Fler lo voleva. Lo voleva tutto, lo voleva per sé.
- So che cosa significa. - aveva detto il Dottore, sedendosi accanto a lui sul bordo della cabina telefonica, i piedi penzoloni sul vuoto assoluto, - Sentirsi soli, intendo. - aveva spiegato con un mezzo sorriso, - Sono l'ultimo rimasto della mia specie.
- E tutti gli altri che fine hanno fatto? - aveva chiesto Fler, voltandosi a guardarlo. Il riflesso dell'universo contenuto nei suoi occhi lo riempiva di sgomento.
- Li ho uccisi. - aveva risposto il Dottore, senza guardarlo. Per qualche motivo, Fler non ne aveva avuto paura.
Erano atterrati senza danni qualche istante dopo. Il cortile e la casa erano sempre uguali, vuoti e silenziosi anche se adesso i primi raggi di sole del mattino li accarezzavano incerti, donando loro un po' di colore.
- Adesso te ne andrai. - aveva detto Fler, guardando in basso le proprie scarpe da tennis sporche e impolverate. Non aveva avuto il coraggio di guardarlo ancora.
- Ma torno subito. - lo aveva rassicurato il Dottore con un sorriso, stringendogli con calore una spalla, - Starò via solo cinque minuti.
Fler aveva sollevato lo sguardo, ed aveva deciso di credere al suo sorriso.
Il Dottore non era più tornato, ma per anni Fler non aveva mai smesso di aspettarlo.
*
Bill si solleva sulle braccia e prende fiato, prima di lasciarsi ricadere su un fianco accanto a lui e pulirsi la bocca col dorso della mano. Fler, ancora intontito dall’orgasmo, steso sulla schiena e con braccia e gambe finalmente libere di rilassarsi dopo la tensione degli ultimi minuti, cerca di ricondurre il proprio respiro ad un ritmo meno affannoso, e intanto si volta a guardare il ragazzino, tutto intento a lisciarsi i capelli lungo le spalle, osservandone meccanicamente le punte con aria professionale per controllare che non siano rovinate.
- Come mai? – domanda distrattamente, afferrando un lembo del lenzuolo fra le dita ed usandolo per ripulirsi l’uccello.
- Mh? – cinguetta Bill, voltandosi a guardarlo, - Come mai cosa?
- Come mai il regalo. – spiega Fler con un sorriso, - Non lo fai mai.
- Non è un regalo e ommioddio che cosa orrenda da dire. – ride Bill, tirandogli uno schiaffo su una spalla e poi rotolando sullo stomaco, avvicinandosi un po’ di più. – Mi andava di farlo e basta. Cos’è, non si può?
- Ma sì, figurati. – ride anche lui, - Ti pare che mi stia lamentando? – commenta, schiaffeggiandogli piano il sedere. Bill si lascia sfuggire un urletto tanto carino quanto palesemente finto, e Fler ride ancora, alzandosi dal letto e stiracchiandosi davanti alla finestra.
- Tira le tende. – si lamenta Bill, appoggiando la testa sul cuscino, - Il Chaku è sempre lì di guardia e se scopre che ti ho fatto entrare senza pagare un’altra volta va a dire tutto a Tomi. Non voglio essere rimproverato di nuovo.
- Tuo fratello dovrebbe cominciare a farsi i fatti suoi. – sbuffa Fler, - Non aveva detto che i soldi che facevi tu erano solo tuoi e potevi tenerteli?
- Sì… - sospira Bill, - Ma poi ho fatto un casino.
Fler si volta a guardarlo, incuriosito.
- Un casino tipo?
Bill scrolla le spalle, come fosse una cosa di infima importanza.
- C’era questa borsa…
- Non dire altro. – ride ad alta voce Fler, chinandosi a recuperare i jeans da terra per indossarli, - Milledue? Millecinque?
- Tremila e nove. – sospira Bill.
Fler ride ancora.
- Ti vedo. – sghignazza, - Che entri tutto contento da Louis Vuitton—
- Era Prada.
- Irrilevante. – ride lui, - Ti vedo entrare tutto felice con tutte le tue banconote spiegazzate e strappate, mentre le commesse fuggono come impazzite di fronte alla tua maglia a rete e ai tuoi shorts.
- Non indossavo niente del genere. – borbotta Bill, sollevandosi in ginocchio sul letto ed incrociando le braccia sul petto magro, le belle sopracciglia dal disegno perfettamente simmetrico corrucciate in un’espressione offesa, - E non mi piace quando mi prendi in giro.
- Scusa, ma non posso farne a meno. – ride ancora Fler, avvicinandosi per stampargli un bacio innocente sulle labbra e poi piegandosi per recuperare la maglietta stropicciata dal pavimento, - Immagino che quando l’ha scoperto ti abbia cazziato per bene.
- Per giorni e giorni! – sbuffa Bill, scivolando giù dal letto e chiudendo le tende alla finestra, lasciandone aperto solo uno spiraglio per guardare fuori, alla strada tranquilla e silenziosa che dà sul retro del palazzo fatiscente in cui vive e lavora, - Mi ha detto che se tutto quello che devo fare coi soldi è comprare idiozie, allora è meglio che li tenga lui e mi passi qualcosa mensilmente. “Le borse non si mangiano, Bill,” mi fa, “Il cibo si mangia”. Ma sai cosa? A me di mangiare non frega proprio niente. Anche perché se ingrasso posso anche dimenticarmi di continuare a lavorare. Ma una borsa serve sempre!
- Certo, soprattutto se costa quasi quattromila euro. – ride Fler, raccogliendo la cintura da terra e stringendosela in vita, - Tuo fratello fa bene a tenerti al guinzaglio, - ammette poi, avvicinandosi ed appoggiandogli una mano sulla testa per lasciargli un bacio sulla tempia, - Lasciato a te stesso, appassiresti e moriresti come un fiore. Uno di quei fiori scemi, però. Tipo le margherite.
- Se morissi e rinascessi fiore, come minimo sarei una rosa centifolia. – ribatte Bill, offeso, voltandosi a guardarlo.
- Ed il fatto che tu abbia passato del tempo a pensare che tipo di fiore saresti se morissi e rinascessi vegetale è solo un’altra prova in più che tuo fratello fa bene a toglierti la patria potestà su te stesso. – commenta Fler, divertito. – Hai da mangiare, piuttosto? Ho un appuntamento importante alle quattro e mezza e non ho tempo di fermarmi da qualche parte.
- Devono esserci dei biscotti, di là. – risponde Bill distrattamente, indicandogli il cucinino nell’angolo, - Sulla mensola.
- Biscotti? – ride Fler, - Vivi di questo, adesso?
- Sono buoni e mi fanno sentire felice. – sbuffa Bill, facendogli una linguaccia, - Lasciami in pace.
- Va bene, va bene. – Fler ride ancora e si allunga a recuperare il pacchetto colorato, tirandone fuori un biscotto rotondo e spesso, farcito al cioccolato. – Mmh, i miei preferiti.
- Anche i miei. – sorride Bill. Poi torna a voltarsi verso la finestra, guardando fuori, e il suo sguardo si fa subito più scuro, quasi confuso.
- Cos’è? – sorride Fler, ingoiando mezzo biscotto in un solo morso ed avvicinandosi nuovamente alla finestra, avvolgendo un braccio attorno alla vita sottile di Bill e spiando fuori da sopra la sua spalla, - La tua guardia del corpo mi aspetta per prendermi a pugni?
- Eh? – mugugna Bill, così concentrato nella propria riflessione da realizzare con un secondo di ritardo quello che gli ha chiesto, - No, il Chaku non c’è, stranamente. Però… che strano, vivo qui da tanti anni ma non mi ero mai accorto che ci fosse una cabina telefonica su questa strada.
Le parole risvegliano in Fler il ricordo più prezioso della sua infanzia, quello di cui non ha mai parlato a nessuno. La notte in casa da solo, il botto, i rottami della cabina e il fumo che ne veniva fuori, e quell’uomo, l’uomo che gli aveva chiesto del nastro biadesivo e un po’ di colla e poi l’aveva portato a spasso per l’universo, riconducendolo a casa non più tardi di cinque minuti dopo, come se il tempo passato a fissare le stelle così da vicino da poterle quasi sentire bruciare sulla pelle non fosse mai nemmeno trascorso.
- Che cabina telefonica? – domanda, l’emozione che gli trema nella voce.
- Quella. – risponde Bill, indicandola oltre il vetro, - La vedi? Che poi, di quel colore lì non mi pare di averne mai viste in giro. Eppure sembra vecchissima. Le cose di cui uno non si accorge quando sta chiuso in casa a spalancare le gambe per gli estranei. Vedi? Se avessi una borsa potrei uscire, anche solo per vantarmene in giro, e allora potrei accorgermi… dove vai?
- Devo andare. – Fler si affretta a recuperare portafogli e cellulare dallo spoglio tavolo quadrato sul quale li ha lasciati entrando, e infilarli velocemente in tasca.
- Ma dove? – domanda Bill, aggrottando le sopracciglia con evidente preoccupazione, - Al tuo appuntamento?
- No. – borbotta confusamente lui, lanciando un’ultima occhiata fuori dalla finestra per assicurarsi che la cabina telefonica sia ancora lì, - Cioè… sì. Dopo. Prima devo controllare una cosa. Ci sentiamo. – conclude, prima di lanciarsi fuori dall’appartamento e giù per le scale.
Prega che la cabina sia ancora lì quando esce per strada, e quella c’è, e quando Fler se la ritrova di fronte non può fare a meno di fermarsi ad osservarla, per un secondo. È esattamente come la ricorda, il blu antico, un po’ rovinato delle assi di legno, quella targa, l’aria misteriosa. Si avvicina un passo dopo l’altro, senza rendersi conto che, man mano che avanza, comincia a correre sempre più velocemente, finché la cabina non prende ad avvicinarsi con una velocità pericolosa, e lui finisce per schiantarvisi sopra, tempestando la porta di pugni.
- Apri! – grida, - Lo so che sei là dentro! Vieni fuori!
Non smette di bussare e urlare finché non sente il suono inconfondibile della serratura che scatta, e solo allora, rendendosi conto di non essersi mai davvero aspettato che la porta si aprisse, salta indietro, allontanandosi repentinamente. La porta si apre con un cigolio sinistro, lasciando vedere solo buio per un po’, almeno fino a quando, dallo spiraglio, non fa capolino la testa di quell’uomo.
- Tu! – strilla Fler, puntandogli contro un dito.
- Io! – grida a propria volta l’uomo. Poi corruga le sopracciglia, fissandolo con gli occhi ridotti a due fessure, come quelli di un gatto, - Non sei la persona che mi aspettavo di vedere.
- Ah, no?! – insiste Fler, - Che strano! Forse perché quando sei andato via mi hai detto che saresti tornato in cinque minuti!
- Come, prego?
- Ed io avevo sette anni, allora!
- …oh. – il lume dell’intelletto sembra accendere improvvisamente lo sguardo scuro dell’uomo, che apre definitivamente la porta, senza però convincersi ad uscire dalla cabina e restando lì, sulla soglia, una mano sulla porta e l’altra sullo stipite, a guardarlo stupito, - Oh. Aspetta. Che ore sono.
- Forse ti interesserebbe sapere più che altro che anno è. – borbotta Fler, incrociando le braccia sul petto.
- Sì, anche. – annuisce il Dottore, - Ma soprattutto che ore sono.
Fler sospira, sollevando la manica della giacca per controllare l’orario sull’orologio da polso.
- Dieci alle quattro, perché?
- Ah! Bene. – risponde il Dottore, illuminandosi in volto, - Ho ancora tempo.
- No che non hai ancora tempo! – sbraita Fler, sbattendo una mano contro la porta blu, - Sei in ritardo di cinque minuti e ventiquattro anni!
- … sì, è vero, per quell’appuntamento sì. – annuisce il Dottore, - Non per l’altro, però.
- Non avevamo nessun altro appuntamento!
- Non io e te, è vero! – annuisce ancora il Dottore, con convinzione.
Fler lascia ricadere il braccio lungo il fianco, spiazzato.
- Vuoi dire che non sei qui per me? – domanda con un filo di voce.
- Come, prego? – ripete il Dottore, inarcando un sopracciglio.
- Non sei tornato qui per me! – sbotta Fler, sconvolto, - Avevi promesso di tornare, ed ora sei qui e mi vieni a dire che ci sei capitato per caso?!
- Tecnicamente no, non è un caso. – scuote il capo il Dottore, - Sono capitato qui perché, come ti dicevo, ho un altro appuntamento. Precisamente alle quattro e mezza.
- Non me ne frega niente! – ribatte Fler, gesticolando animatamente a mezz’aria, - Ti ho aspettato per più di vent’anni e tu hai la faccia tosta di ripresentarti adesso e dirmi che non mi stavi nemmeno cercando! Perché l’hai fatto?! Perché mi hai detto che saresti tornato se non ne avevi la benché minima intenzione?! Ero solo un bambino, mi hai preso in giro!
- Ma io avevo intenzione di tornare. – risponde il Dottore, placido, - Non pensavo onestamente di fare così tardi. Devo aver perso il senso del tempo.
- Sì? – domanda Fler, inarcando un sopracciglio, - Facendo cosa, esattamente?
Il Dottore scrolla le spalle.
- Un po’ di questo, - risponde, - Un po’ di quello.
Fler si passa una mano sul viso, sospirando stancamente.
- Certo.
È in quell’istante che la voce di Chakuza lo raggiunge, modulata nel classico grido cavernoso per il quale ormai ha imparato a conoscerlo e, in una certa misura – piccola, considerate le sue dimensioni –, anche a temerlo.
- Fler! – urla il nano pelato, correndogli incontro, - Ti ho visto!
- Merda. – sibila Fler, osservandolo avvicinarsi velocemente dall’angolo opposto della strada. Si volta verso il Dottore, piantandogli entrambe le mani sulle spalle e spingendolo verso l’interno della cabina, - Presto, fammi entrare!
- Intraprendente. – annuisce il Dottore, - Mi piace. Autoinvitarsi in casa altrui. Lo faccio spesso anch’io.
- Sta’ un po’ zitto! – sbotta Fler, irritato, spingendolo dentro e poi chiudendosi la porta alle spalle. Anche l’interno della cabina è uguale a come lo ricordava, immenso e un po’ freddo e stranissimo, con quella plancia di comando circolare proprio al centro e tutto il resto dell’arredamento bizzarro, scale che non si sa dove conducano, porte che non si ha idea su che stanza si aprano. Si volta a guardare fuori dallo spioncino e, per un secondo, vede solo il cranio rasato di Chakuza che prende tutto lo spazio, come un’enorme luna bianca e lucida. Poco dopo, lo sente picchiare contro la porta.
- Apri! – dice da fuori, - Ti ho visto! Apri! Ti avevo promesso che ti avrei spezzato le dita una ad una, se ti avessi rivisto da queste parti! Quindi ora apri!
- Oh. – considera il Dottore, apparentemente molto divertito dalle sue parole, - Fidanzato?
- Cosa?! – sbotta Fler, - No!
- Ex-Fidanzato, allora?
- Ma assolutamente no!
- Fidanzato del fidanzato, dunque.
- Ma cosa— smettila! – lo zittisce lui, premendogli entrambe le mani sulla bocca, - Dobbiamo andare via. Fai muovere questa cosa.
Il Dottore si allontana da lui, aggrottando lievemente le sopracciglia.
- Spazio personale, prego. – borbotta, sistemandosi addosso i vestiti. Fler li nota solo adesso per la prima volta. L’uomo indossa una tuta grigia palesemente nuova e palesemente costosa che però gli dà l’aria di essere qualcuno che si vesta con immensa modestia. Una specie di accattone di lusso, un povero dentro ricco fuori, uno di quelli che li guardi e sembra non vogliano farti pesare addosso tutti i loro soldi, ma in realtà vogliono mostrarti esattamente quanti ne hanno dandoti però l’impressione di non contarli nemmeno.
- Sei ricco? – gli chiede così, a bruciapelo.
- Mi sento una persona ricca, sì. – annuisce il Dottore, - Ho tanti amici, l’immensità dello spazio-tempo tutta per me, una bellissima astronave e—
- Tanti soldi? – suggerisce Fler.
Il Dottore inclina il capo e lo guarda come avesse appena detto l’idiozia del secolo.
- No. – risponde candidamente, - Non saprei che farmene.
- Beato te. – ribatte Fler, scrollando le spalle, - Ora, per favore, possiamo andarcene? Questa cosa può muoversi, no?
- È la seconda volta che la chiami cosa. – nota il Dottore, offendendosi quasi avesse chiamato “cosa” lui, - E ti sconsiglio vivamente di perseverare. È molto permalosa.
- Chi è permalosa? – domanda Fler, guardandolo con confusione evidente negli occhi.
- La TARDIS. – risponde il Dottore, allargando entrambe le braccia come a presentargli qualcuno che non può essere indicato direttamente. E questo perché si trova tutto intorno a loro. – Tempo e Relativa Dimensione Interna allo Spazio. È la mia astronave.
- Va bene, okay, ma può muoversi? – sospira Fler in tono lamentoso, - Quel gorilla là fuori vuole il mio sangue, e se non ce ne andiamo da qui prima o poi finirà per abbattere la porta ed entrare, e ti assicuro che non vuoi vedere di cosa è capace in tutto il suo imponente metro e mezzo di altezza.
- Non sembra granché imponente. – considera il Dottore, sollevando una mano a circa un metro e mezzo dal suolo, - Dici che è alto più o meno così? Sono sicuro che riuscirei a tenerlo lontano anche solo stendendo il braccio.
- Oh Dio mio, - ringhia Fler, frustrato, aggirandolo e muovendosi deciso verso la plancia, - Era così per dire! Non è altissimo, ma è più alto di un metro e mezzo, e comunque quello che non ha in altezza lo compensa in larghezza, per cui leviamoci dalle palle.
- Ma si può sapere almeno cos’è che gli hai fatto? – domanda il Dottore.
- A lui? – sbotta Fler, osservando la plancia con curiosità, cercando di ricordare come gliel’ha vista manovrare venti anni prima, - Niente. È la guardia del corpo di un mio amico. Non vuole che gli vada vicino.
- E perché non vuole che tu gli vada vicino?
- Perché poi finiamo sempre a letto insieme senza che io possa permettermi di pagarlo. – risponde Fler in un ringhio frustrato, - Come si pilota questa cosa?!
- … quasi tutto quello che hai detto mi confonde. – annuisce il Dottore, - Ma, in ogni caso, se fossi in te, non tirerei quella leva. – aggiunge, indicando una lunga leva grigia pochi centimetri alla sua sinistra con un cenno del capo.
Fler non ha nemmeno un ripensamento, mentre la afferra e la tira energicamente verso di sé.
Quello che accade dopo non è semplice da spiegare, e Fler non è neanche tanto sicuro di capirlo. Quello che sa è che il battere imperterrito dei pugni di Chakuza contro la porta della cabina blu si interrompe bruscamente, o forse è semplicemente nascosto dal rumore sempre più alto che l’astronave emette sollevandosi – o almeno così sembra dal tremito che la scuote e dall’improvvisa mancanza di equilibrio che manda Fler quasi disteso per terra – e poi cominciando a viaggiare.
Si fermano un paio di minuti dopo, e mentre ancora la TARDIS trema, cercando di stabilizzarsi, Fler si aggrappa alla plancia di comando e poi accetta l’aiuto del Dottore per riuscire ad alzarsi in piedi.
- Che… Che cosa è successo? – domanda confusamente, guardandosi intorno come non riuscisse più a riconoscere il luogo in cui si trova, anche se l’interno dell’astronave non è cambiato nemmeno di una virgola.
- Eh. – risponde il Dottore con un sospiro quasi paterno, - Te l’avevo detto, io, di non tirare la leva. Spero che tu non abbia impegni per il resto del pomeriggio. Anche se potrebbe essere un problema di relativa importanza. – aggiunge con una mezza risata.
Fler lo guarda per un paio di secondi con occhio bovino, e poi si lancia contro la porta, spalancandola.
Capisce di avere un problema quando, di fronte a lui, si apre un mondo sconosciuto di fronte al quale perfino la visione dell’immensità dell’universo di ventiquattro anni prima sembra impallidire.

continua
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