Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Fler/OMC, Fler/Chakuza.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- "Io sono contrario all'utilizzo del mio nome completo. Quando hai un soprannome col quale tutti ti chiamano sempre, finisci sempre a conferire una certa sacralità ai momenti in cui il tuo nome viene detto per intero. Pertanto, è importante che questi momenti siano pochi, e soprattutto che poi siano davvero importanti per davvero, sennò che senso ha?"
Note: A meno tempo del pronosticabile dall'ultima shot postata, il GD torna a parlarvi di cose che avvengono o che comunque sono avvenute nel recente passato XD Sapevamo che Fler era andato a mollare Danny, prima di rimettersi con Chakuza; lo sapevamo perché appunto ce l'aveva detto Chakuza e Danny poi ce l'aveva confermato, ma cosa è successo veramente quel pomeriggio? Danny ce lo racconta, prendendo spunto da una telefonata che gli arriva dall'America un pomeriggio, e durante la quale Fler e il Chaku cercano di spiegargli gli avvenimenti che li hanno coinvolti in Paura e Delirio a Las Vegas. Enjoy!
(La fic partecipa anche alla seconda settimana del COW-T3, su prompt freddo.)
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REGEN

Quando arriva la telefonata, io sto facendo i compiti. Fare i compiti ha smesso di essere una cosa completamente surreale solo da qualche mese, per cui mi sto ancora abituando. E' un po' un casino, quando succedono cose come quella che è successa a me - nel senso che è un po' un casino quando hai una vita di merda, con tutti gli innumerevoli svantaggi della vita di merda, sì, ma anche con quei pochi, sporadici vantaggi tipo il fatto che, se tuo padre ti picchia ogni volta che gli passi sotto gli occhi e se, per tutto il resto del tempo, spacci per le strade del ghetto per tirare su i soldi per campare, di certo fare i compiti non rientra nelle tue priorità, ma in realtà neanche all'ultimo posto di un'ipotetica lista di cose da fare nell'arco della giornata. E' una cosa alla quale neanche pensi, visto che comunque il massimo della prospettiva di vita che hai è aspettare il limite d'età per mollare e dedicarti a tempo pieno alla tua attività principale, che poi probabilmente ti porterà a crepare in un vicolo con un coltello piantato nello stomaco prima di compiere vent'anni.
Quello che intendo dire è sostanzialmente che io, prima di essere rapito ed adottato da questi due pazzi - formalmente, la custodia ce l'ha Fler da solo, ma Chakuza non ha bisogno di firmare su nessun documento per imporsi nella vita degli altri, a lui basta esistere, e già devi ringraziare che, esistendo, non ti scartavetri i coglioni ventiquattro ore al giorno e sette giorni su sette -, i compiti non li facevo. Andavo anche sporadicamente a scuola, il che, suppongo, giustifica il fatto che in effetti sono una capra ignorante, cosa che mi porta, adesso, a fare un sacco di fatica per recuperare.
Nei telefilm, quando succedono cose tipo quella che è successa a me - non nel senso che qualcuno arriva, ammazza il genitore abusivo e adotta il figlio rimasto in vita per donargli una vita migliore; nel senso che qualcuno arriva e sistema la situazione dell'adolescente arrabbiato col mondo, risolvendo i suoi problemi e facendone un ragazzino migliore -, il ragazzino in questione automaticamente comincia a prendere ottimi voti ovunque. Ci avete mai fatto caso? Come se anni e anni passati nell'ignoranza più assoluta potessero essere spazzati via da due settimane di studio.
La realtà non si avvicina neanche lontanamente a questa versione dei fatti, è ovvio. Quando per anni e anni tu non hai studiato, non è che basti stare chino due settimane sui libri per diventare un genio.
Intanto, è già difficile prendere il ritmo. Intendo metterti lì seduto alla tua scrivania - se ne possiedi una; sulla penisola della cucina, nel mio caso -, tirare fuori i libri e cominciare a concentrarti. I primi tempi io non ne avevo mezza, sinceramente. Tutto quello che volevo era godermi la mia nuova libertà in cui potevo svegliarmi ogni mattina senza lividi e costole incrinate e potevo mangiare del cibo per comprare il quale non avevo dovuto spacciare per i tre giorni precedenti. Guardate che non sono mica cambiamenti da niente, eh. Sono robe che ti rivoluzionano l'esistenza. Io per dire volevo tutto meno che mettermi a studiare; volevo uscire, volevo andare al lago, volevo viaggiare - viaggiare, stupido Chakuza. Non restare a Berlino per non aggiungere assenze alle precedenti mentre lui e Fler se ne andavano tranquilli in America col resto della famiglia di beduini di Bushido -, volevo chiudermi in sala d'incisione e fare buon uso dei soldi di Fler per autoprodurmi e diventare il nuovo fenomeno del rap giovanile tedesco. Ecco, volevo fare un sacco di cose, ma di sicuro fra queste mille cose che volevo fare non era compresa l'idea di mettermi lì seduto a leggere riassunti di storia contemporanea e risolvere equazioni trigonometriche di secondo grado. Anche perché la prima mi annoia e le seconde semplicemente non le capisco.
Fossimo stati solo io e Fler, il problema neanche si sarebbe posto. Da uomini adulti, ci saremmo seduti attorno ad un tavolo ed io, molto sinceramente, gli avrei detto "senti, Fler, io ne ho piene le palle", e saremmo arrivati ad un accordo. D'altronde lui la scuola neanche l'ha finita, ed è venuto su benissimo. Non è che il diploma ti serva a tutti i costi per essere qualcuno nella vita.
Ecco, Fler l'avrebbe capito. Chakuza, naturalmente, no. Perché lui non viene dal ghetto, lui viene dalle montagne sulle quali, circondato da mucche e capre e dal verde della natura, oltre a venire su testone e insopportabile ha anche studiato fino al regolare conseguimento del diploma, per darsi al rap solo dopo essersi fatto una cultura. Da cuoco.
Insomma, come si può pretendere di ragionare con uno così? Non si può. E Fler, per qualche motivo che stento ancora a comprendere e che ho dovuto semplicemente accettare, perché così fai con le cose che sono in un determinato modo anche se tu non le capisci, tipo le equazioni trigonometriche di secondo grado, appunto, Fler, dicevo, gli è completamente asservito, per cui quando io mi sono seduto al tavolo con entrambi e, parlando con sincerità, ho detto loro che della scuola non ne potevo più, non me ne fregava niente e volevo mollarla, Chakuza ha fatto come un pazzo. "Ma stai scherzando?!" ha strillato, la pelata che riluceva della luce del lampadario sotto il quale si era strategicamente posto, abbagliandomi, "Ma dove pensi di andare senza un diploma?!"
Al che io ho capito subito che, con uno che ti si presenta con un argomento simile, non si poteva ragionare, e mi sono voltato verso Fler, sperando in un minimo di solidarietà sociale, per lo meno. Ma lui niente: mi ha guardato, lanciandomi un'occhiata come per dire "eh, che ci vuoi fare", mi ha buttato lì un mezzo sorriso e poi mi ha detto "hai sentito il Chaku. Vai a studiare".
No, dico. Che se mi serviva un'altra prova che si fosse trasformato nella madre che per troppi anni non ho avuto, eccola lì.
Insomma, siccome Chakuza è un uomo insopportabile che vive secondo schemi mentali del Millesettecento, io non ho potuto mollare la scuola, e in qualche modo ho dovuto farmela piacere, ma non è stato mica facile. Faccio ancora un sacco di fatica a non distrarmi anche solo gettando un'occhiata fuori dalla finestra, mentre studio, ed i miei voti raggiungono ancora a stento la sufficienza. Durante l'ultimo incontro genitori-insegnanti, di fronte al quale peraltro s'è presentato Fler, il prof di lettere l'ha guardato e gli ha detto "vorrei poterle dire che il ragazzo ha potenziale ma non s'impegna, ma..." e gli ha mostrato i miei voti e tutta la mia striscia positiva di sufficienze scarse.
Questo è il massimo che posso fare per ora, e lo accetto. Non ho mai preteso di essere più intelligente del minimo che mi servisse per sopravvivere al ghetto. Il mio cervello mi ha tirato fuori di lì, e pertanto ha svolto il suo compito più che egregiamente. Bravo, cervello. Non ti meriti di essere torturato e forzatamente costretto ad imparare le cinque declinazioni.
E' per questo che, ogni volta che mi metto a studiare, la prima cosa che spero è che capiti qualcosa di improvviso che mi distragga. E' un pensiero immediato, appena poso il culo sullo sgabello: capita!, penso, rivolto al guaio ideale che vorrei venisse a risolvere il mio problema, qualsiasi cosa tu sia, capita!
Non capita quasi mai niente, per inciso, ma oggi sì. Oggi mi arriva la telefonata.
Sono le cinque circa del pomeriggio, orario intorno al quale mi seggo sempre a studiare dopo essermi sfondato di cartoni animati per bambini e patatine (ho delle giustificazioni: queste cose non me le sono mai potuto godere, da piccolo; è tempo di recuperare), per cui immagino che lì da loro, negli Stati Uniti, dovunque essi si trovino in questo momento (il programma di Kaulitz era incasinato e confuso e sinceramente, non dovendo prendervi parte, non mi interessava nemmeno abbastanza da memorizzarlo), sia un qualche orario indecente tipo l'alba. Okay, magari no. Ma è sicuramente presto comunque.
- Pronto? - faccio, alzandomi immediatamente in piedi. Primo perché è un gesto che mi porta lontano dai compiti, e poi perché non riesco mai a stare fermo, quando sto al telefono. Devo camminare, andare in giro, toccare cose, guardare fuori dalla finestra.
- Daniel. - mi chiama Chakuza, ed usa il mio nome completo, una roba di un inquietante che non ve lo posso neanche descrivere. Io sono contrario all'utilizzo del mio nome completo. Quando hai un soprannome col quale tutti ti chiamano sempre, finisci sempre a conferire una certa sacralità ai momenti in cui il tuo nome viene detto per intero. Pertanto, è importante che questi momenti siano pochi, e soprattutto che poi siano davvero importanti per davvero, sennò che senso ha?
- Che c'è? - domando, già scazzato per il palese utilizzo scorretto del mio nome - perché non c'è niente di realmente importante che Chakuza possa avere bisogno di dirmi, è evidente - ed anche perché non ho per niente voglia di starlo a sentire sapendo che si trova dall'altro lato dell'oceano con Fler. Davvero, io so che lui non dimentica mai, neanche per un minuto, che per svariati meravigliosi mesi della mia vita io sono stato col suo uomo, e so che non lo dimentica perché è geloso e ossessivo come un orango, ma ogni tanto si comporta come se la nozione gli sfuggisse completamente, come se per me non fosse ancora fastidioso, nonostante tutto, sapere che lui, il suo metro e quaranta scarso, le sue gambette tozze e la sua stupida pelata hanno vinto contro il mio metro e novanta, le mie gambe chilometriche e la mia fluente chioma bionda. Come può questa cosa essere giusta, o anche solo reale? In che mondo?!
- Dunque... - comincia lui, e io so che sta già partendo da troppo lontano. Cioè, dai, hai una roba da dirmi? Dimmela. Non mi tenere qua al telefono per sempre, su una chiamata intercontinentale, poi. La sua testa è vuota fuori e dentro. - Senti, è successo qualcosa di importante. - blatera, - Niente di preoccupante, eh! Anzi, direi che è una bella notizia. Credo. - sembra rifletterci su seriamente, - Okay, forse non lo è completamente. Ma potrebbe esserlo, se tu ti preparassi a riceverla nella disposizione d'animo adatta. In che disposizione d'animo sei?
Guardo fuori dalla finestra, appoggiandomi al vetro. Lui mi ha chiamato usando il mio nome per intero, mi sta facendo perdere tempo nell'unico modo che mi fa rimpiangere i compiti, so da come ha introdotto la questione che non può che trattarsi di un'ottima notizia per lui ma una pessima notizia per me - e che quindi non può non riguardare Fler e la sua surreale relazione con lui -, quando avrò finito con questa pietosa telefonata ci saranno comunque le equazioni trigonometriche di secondo grado ad attendermi sulla penisola e, di fuori, sta cominciando a piovere.
- Pessima. - rispondo, scandendo bene le lettere di modo che la mia voce possa oltrepassare le barriere della sua usuale sordità stupidità-indotta e giungere inalterata a quel che resta delle sinapsi del suo cervello ridotto quasi in brandelli da anni e anni e anni di continuativa iperattività sessuale priva di logica e palesemente soddisfatta dal mondo non perché lui sia bello ma perché emette feromoni ai quali io sono immune ma un sacco di altre persone no.
- Oh. - dice lui, apparentemente deluso dalla mia rivelazione. - Oh. Okay. Ehm...
E' lì che sento la voce di Fler provenire come da un mondo lontano. "Chakuza. Che stai facendo. No," dice. Sento un sacco di casino e capisco che stanno lottando per la conquista del telefono. Non so ancora cosa volesse dirmi Chakuza, ma almeno ho capito che è qualcosa che Fler voleva dirmi per primo.
Il che mi dà la certezza definitiva che non possa trattarsi di niente di buono per me.
- Danny. - mi chiama, la voce rauca, pesante di sonno, un po' strascicata, come se stesse male, ma nonostante tutto dolce, come ogni volta che si rivolge a me, anche nelle situazioni peggiori. - Ehi.
Sospiro pesantemente, appoggiandomi al davanzale della finestra, la fronte contro il vetro freddo, gli occhi chiusi.
- Spara. - dico.
Lui non se lo fa ripetere due volte.
- Ieri io e Chakuza ci siamo sposati.
Nonostante il dolore sordo nel petto, non posso fare a meno di sorridere per la stupidità generica della frase.
- Dimmi almeno che hai fatto vestire di bianco lui. - lo prendo in giro, - La sposa più alta dello sposo non si può vedere.
- Sei un cretino. - ride lui, e poi gli sfugge fra le labbra un lamento sofferente, - Dio che mal di testa.
- Post-sbronza? - domando, riaprendo gli occhi e sbirciando di fuori. Comincia a piovere un po' più forte, la strada oltre la finestra si ammanta di un deprimente velo grigio. Appropriato.
- Già. - annuisce lui, con un sorriso stanco che gli sento nella voce e non fatico ad immaginare tendergli appena le labbra sottili, - Ieri è stato un po' un casino.
- Guarda, non avevo dubbi a riguardo. - rido io, scuotendo il capo e sospirando, - Una cosa del genere poteva succedere solo ubriacandovi come tacchini. Dove siete adesso?
- Se te lo dico, non smetterai mai più di prendermi per il culo. - sospira lui, arreso, e io scoppio a ridere.
- Las Vegas! - lo prendo effettivamente in giro io, - Che vergogna. Non ho parole. Oltre ad essere inguardabili, siete anche un cliché vivente. Buuuh.
- Ma stai un po' zitto, sì o no? - ride ancora lui, e poi lo sento sospirare profondamente. - Come stai? - domanda, e so che non mi sta chiedendo come sto in generale, se sono fisicamente a posto, e neanche come sta andando a scuola o nella mia esistenza da quando loro sono partiti, no; so che mi sta chiedendo come sto adesso, dopo aver sentito quello che aveva da dirmi.
Rido un po' tristemente, sospirando a mia volta.
- Non farmi neanche cominciare. - rispondo.
Lui resta in silenzio a lungo, e per la prima volta da quando abbiamo cominciato a parlare mi ritrovo a pensare che avrei preferito averlo qui, di fronte a me, mentre mi diceva questa cosa. Avrei preferito guardarlo in faccia. Adesso almeno saprei come prendere questo silenzio.
- Dai, quando torno ne parliamo meglio. - dice quindi, e la sua voce è di nuovo dolce e calma.
- Quando torni? - chiedo quindi io. Lui ride appena.
- Presto. - risponde, - Promesso.
Mi saluta e mette giù, ed io resto lì col cellulare in mano a guardare fuori dalla finestra per un tempo indefinito. La pioggia è andata aumentando d'intensità, nel corso della telefonata. Il cielo rosso del tramonto si è tinto di una sfumatura giallastra che contribuisce a rendere irreale il paesaggio oltre il vetro, come una vecchia foto virata in seppia.
Tutto sommato direi che avrei potuto prenderla un pelino meglio. Non è che non sapessi che prima o poi una cosa del genere sarebbe successa, cioè, non mi aspettavo il matrimonio a Las Vegas, ma dai, era ovvio che prima o poi quei due avrebbero formalizzato questa relazione assurda che si trascinano dietro ormai da anni. Sarebbe stato ridicolo il contrario. Ciononostante, speravo che sarebbe rimasto uno di quei legami che restano intesi senza diventare legalmente rilevanti, o che ne so. Cioè, insomma, lo so che un matrimonio da ubriachi a Las Vegas non ha alcuna rilevanza legale effettiva, ma lo stesso. Probabilmente mi dava soltanto fastidio l'idea che da qualche parte nel mondo, in qualche modo, Fler potesse dire a Chakuza sì.
Ma, insomma, me l'aspettavo. Prima o poi sarebbe comunque successo, io lo sapevo, ho avuto tutto il tempo di prepararmi all'idea, eppure fa schifo lo stesso, che vi devo dire. E' stupido, ma fa schifo lo stesso.
La pioggia fuori mi ipnotizza, e mentre io continuo a fissarla - e in questo momento delle equazioni trigonometriche non può fregarmi di meno, come dei compiti in generale, della scuola o, per la verità, di qualsiasi altra cosa, ecco -, mi colpisce all'improvviso il pensiero che pioveva anche quando Fler mi ha mollato, quando Chakuza è tornato da lui e lui l'ha magnanimamente riaccettato all'interno della propria vita anche se il nano pelato tutto si sarebbe meritato meno che una simile manifestazione di affetto e benevolenza.
Ero a casa mia, quel giorno. Ero anche abbastanza tranquillo, fra le altre cose, perché era un giorno feriale, uno di quei giorni in cui mio padre neanche si sprecava a tornare a casa. Aveva una routine molto precisa, lui, ci si poteva fidare. Usciva di casa il lunedì mattina e si andava a svaccare nel vecchio bar in fondo alla strada, ufficialmente un ritrovo per pensionati, ufficiosamente un buco di merda che puzzava di sporcizia e sudore e denti marci nel quale tutti gli altri stronzi disperati come lui di tutto il quartiere andavano a sfondarsi di birra dalla mattina alla sera per non doversi per forza guardare in faccia ed odiarsi.
Fino al sabato, non rientrava mai. Dormiva in giro, per strada, con gli altri stronzi ubriaconi come lui, che tanto non è che a casa ci fosse un giaciglio tanto più pulito che lo aspettasse. Poi, il sabato e la domenica il bar chiudeva, e lui era obbligato a rincasare. Lì cominciavano i guai per me, ma di quelli sapete già e io non ho proprio voglia di mettermi a rivangarli adesso che mi gira il culo per altri motivi.
Durante la settimana, però, non avevo problemi, questo va detto. Facevo il cazzo che mi pareva, in fondo, dopotutto. Mi bastava evitarlo per strada, perché quando mi beccava ci teneva proprio a gettarmi le braccia al collo ed alitarmi in faccia mentre, con quella voce piagnucolosa del cazzo, diceva a tutti i suoi compari "guardatelo qui, questo damerino del mio figliolo. Non c'ha la faccia più da stronzetto che abbiate mai visto?", e fingeva di giocare al padre burbero ma affezionato, schiaffeggiandomi leggermente le guance e poi ridendo come un indemoniato quando le vedeva diventare rosse. "Guardate che carina, la mia bambina. Magari un giorno vi ci faccio fare un giro, che tanto a lei piacerebbe, vero?"
Soprassediamo.
Insomma, quel giorno niente del genere stava accadendo, io ero a casa tranquillo per i fatti miei e, non dovendo uscire fino a sera per cercare di guadagnarmi il McDonald's del giorno dopo, mi ero messo in testa di risistemare casa, una roba che ogni tanto mi piaceva mettermi lì a fare, specie quando ero solo. Non tanto per dare un ordine alle cose che mi circondavano, quanto più per, be', semplicemente avere qualcosa da fare, per staccare la testa e non dover necessariamente pensare che ero felice di stare a casa mia solo come un cane, quando la maggior parte dei ragazzi della mia età avrebbero pagato oro per il contrario, solo perché l'alternativa era ancora peggio.
Insomma, stavo lì, e fuori sentivo il temporale infuriare, e già mi prendeva male al pensiero di quanto sarebbe stato freddo quella sera quando sarei dovuto uscire per forza, sperando peraltro che non piovesse ancora, quando sento suonare il campanello.
Nessuno mai suonava il campanello di casa mia. I vicini semplicemente ci ignoravano così come noi ignoravamo loro, e mio padre, naturalmente, aveva le chiavi. Ho sollevato il capo dal secchio pieno di acqua nera dopo la prima passata di straccio e, incuriosito dallo strano avvenimento, sono andato a sbirciare dallo spioncino.
Che lì dietro la porta ci fosse Fler era una cosa talmente assurda che sulle prime mi sono congelato sul posto. Stavamo insieme, se così si può dire, ormai da qualche mese, ma non era mai venuto a casa mia. Ci eravamo sempre incontrati da qualche parte, o ero andato io da lui. Questa era una cosa imprevista, ed io non lavoro bene con le cose impreviste - nel ghetto impari a temerle, le cose impreviste, a scappare più veloce che puoi nella direzione opposta quando una ti si presenta di fronte -, per cui non poteva portare niente di buono. E ancora non sapevo che cosa fosse venuto lì a dirmi.
"Danny?" mi ha chiamato lui, "Sei in casa?"
Scuotendo il capo per risvegliarmi dalla trance in cui vederlo mi aveva gettato, ho aperto la porta, fissandolo con occhi persi mentre stava fermo lì sul pianerottolo, con l'aria di uno che non ha la minima idea di cosa fare di se stesso, che sa di stare per combinare una cazzata epocale e che sostanzialmente resta in attesa di uno tsunami improvviso che cancelli completamente la città dalla faccia della terra per impedirgli di portare a compimento i propri propositi.
"Ma che cazzo ci fai qui?" l'ho apostrofato con grazia, scostandomi dalla soglia per farlo passare, "Sei fortunato che non c'è mio padre."
Lui mi ha lanciato un'occhiata vagamente risentita, come si sentisse offeso dal fatto che io potessi mettere in dubbio le sue capacità di sopravvivenza in una lotta ad armi pari con mio padre. Sfido chiunque ad ingaggiare una lotta ad armi pari con un ubriacone, dico io.
"Stavi pulendo?" mi ha chiesto, per nulla sorpreso dal fatto, come se per lui fosse assolutamente normale entrare e trovarmi lì con una fascia a tenere indietro i capelli e le maniche della maglietta arrotolate fin sotto alla spalla mentre stringevo fra le mani il bastone del mocio.
Ho annuito lentamente, ancora troppo stupito dalla sua presenza lì per articolare un qualsiasi pensiero coerente.
"Be', che c'è?" ho chiesto alla fine, dopo aver passato cinque minuti a fissarlo mentre lui fissava me, entrambi in piedi, ritti come due idioti in mezzo alla stanza col pavimento ancora umido.
Lui ha sospirato, passandosi una mano sugli occhi, poi sulla testa e dietro, fino alla nuca.
"Possiamo parlare?" ha chiesto. Io ho annuito fingendo indifferenza, mentre lo accompagnavo verso il divano e mi sedevo sulla parte sfondata per lasciare a lui la metà integra, ma in realtà ero nervoso. Come avrei potuto non esserlo? C'erano già troppi particolari che stonavano - lui era a casa mia, sembrava nervoso, non sorrideva. Non mi aveva nemmeno baciato.
Per la verità non è che, anche allora, la notizia mi sia arrivata così all'improvviso, senza darmi il tempo di prepararmi. Voglio dire, io e Fler avevamo cominciato a vederci molto meno già da un po', e inoltre sapevo che lui e Chakuza avevano ripreso a frequentarsi. Quella storia poteva finire solo con un omicidio, o con un matrimonio. E' consolante che sia finita con un matrimonio, ma non per me.
Insomma, dopo essersi seduto, Fler mi ha guardato intensamente negli occhi e, come prima cosa, mi ha detto che gli dispiaceva. Credetemi, fosse stato chiunque altro l'avrei preso a pugni sul muso e poi l'avrei scaraventato nel cassonetto dell'immondizia dall'altro lato della strada assieme ai sacchi di bottiglie vuote e confezioni di cibo da asporto unte che avevo raccolto per il soggiorno prima di spazzare e spolverare, ma era Fler, e i suoi occhi dicevano che gli dispiaceva davvero.
Ho sospirato, guardando in basso, alle mani che tenevo intrecciate mollemente in grembo.
"Sta succedendo, vero?" gli ho chiesto. Non è che volessi dargli una mano, in realtà non mi andava proprio di dargli una mano a lasciarmi, è che comunque la giornata - una delle rare giornate decenti della mia esistenza - era già stata rovinata, per cui tanto valeva uscirne in fretta.
"Danny," ha cominciato lui dopo l'ennesimo sospiro, facendo per spostarsi più vicino a me sul divano. Io gli ho piantato le mani sul petto, tenendolo dov'era.
"No, resta lì," ho detto, "Il divano. Da questa parte è sfondato. Se facciamo troppo peso cadiamo col culo per terra," ho aggiunto con un breve sorriso di scuse, per spiegarmi. Mentivo, naturalmente. Cioè, non è che mentissi proprio, era vero che se si fosse seduto anche lui da quella parte saremmo finiti col culo per terra, ma il punto è che se l'avessi voluto vicino non me ne sarebbe fregato un accidenti. Invece preferivo che restasse lì. Stavo morendo per un abbraccio, ma dentro di me sapevo di non volerlo. Non saprei spiegarlo meglio, era come dover combattere contro due dolori devastanti nello stesso momento, quella fitta di dolore acuta e profonda che mi dava il fatto che mi stesse lasciando - per Chakuza, poi - e quel dolore più intimo e sordo che con un abbraccio si sarebbe placato, ma che sarebbe tornato a pulsare con più forza una volta che inevitabilmente il momento fosse passato, perché quando lui fosse uscito da quella porta qualsiasi cosa avessimo costruito nel corso dei mesi precedenti sarebbe morta, rasa al suolo da due parole, dalle mani di un austriaco di merda che non sono in grado di fare altro che combinare danni e provocare devastazione nelle vite altrui, e forse fra me e Fler avrebbe potuto continuare ad esistere qualcosa, una sorta di qualche rapporto, ma non sarebbe più stato lo stesso, non sarebbe più stato perfetto, e quella cosa perfetta che c'era prima io l'avrei persa per sempre, perché non ero stato abbastanza furbo da assaporarla sapendo che prima o poi sarebbe finita quando ancora ce l'avevo.
Lui mi ha guardato, e tutto questo l'ha capito senza che io avessi bisogno di dirglielo. E' rimasto lì fermo, senza neanche toccarmi. Davvero, se qualcuno dovesse mai lasciarvi, nella vostra esistenza, vi auguro che sia una persona simile a Fler. Non ce ne sono tanti, nel mondo, che riescano a fare quasi ogni cosa tenendo sempre presente che le azioni hanno conseguenze, e che pertanto, in mezzo alla gente, bisogna muoversi con delicatezza.
"Mi dispiace davvero," mi ha detto, "E' che Chakuza..."
E io lì l'ho fermato, perché non avevo alcuna voglia di sentirmelo dire, ma d'altronde lui se lo aspettava, per cui non è che avesse davvero preparato qualcosa da dirmi a proposito di cosa Chakuza fosse o cosa rappresentasse all'interno della sua vita. Gli bastava dirmi "è che Chakuza...", ed a me bastava sentirmelo dire per capire che era tutto finito.
Quella sera non ci siamo detti niente di particolare quando poi l'ho riaccompagnato alla porta. Se avessimo smesso completamente di vederci, devo dire che sarebbe stato un addio davvero poco entusiasmante. Lui mi ha detto "allora vado", io ho risposto "ciao" e poi sono rimasto sulla porta ad osservarlo allontanarsi dopo aver tirato su sia il cappuccio della felpa che quello della giacca. Ancora pioveva, e lì per strada faceva un freddo della madonna mentre io pensavo che in effetti aveva senso, per una storia che era nata senza un nome, finire senza che quel nome venisse mai pronunciato, finire senza che venisse pronunciato neanche il nome di ciò che l'aveva uccisa.
Sono tornato in casa, e sapevo che prima di uscire avrei dovuto almeno dare una seconda passata di straccio, e magari portare fuori i quattro giganteschi sacchetti neri di plastica pieni di immondizia che avevo messo in fila in corridoio perché non mi fossero d'impaccio, ma poi guardandoli ho pensato che non m'importava veramente. Che anche pulire in giro in realtà era solo stato un modo come un altro per passare il tempo, che nessuno l'avrebbe notato, che mio padre non mi avrebbe fatto i complimenti per avergli fatto trovare casa pulita quando fosse tornato, che io stesso, quando fossi tornato all'alba dopo aver spacciato tutta la notte in giro fra strade e discoteche, non avrei notato le stanze per una volta non invase di sporcizia e ciarpame, non avrei notato l'odore di pulito, non mi sarei sentito meglio per averlo fatto, e questo perché non me ne fregava niente. Non era stato che un modo per riempire il vuoto fra un evento e l'altro, come farsi un solitario, come aprire l'armadio e fare il cambio stagione - a chi cazzo serve poi davvero il cambio stagione, dai -, come prepararsi un panino e mangiarlo guardando TRL e sputando merda su tutti gli artisti in classifica.
Insomma, ho tolto la fascia, ho srotolato le maniche della maglietta, mi sono infilato la felpa e la giacca e sono uscito fuori nella pioggia e nel freddo anch'io, sperando che mi risvegliasse da quello strano torpore che mi aveva preso dopo aver visto Fler, sperando che le strade del ghetto dessero un senso al mio vagare fra gli attimi nella sola attesa che prima o poi succedesse qualcosa che potesse cambiarmi definitivamente la vita.
A ripensarci adesso è divertente aver capito che, in effetti, nel momento esatto in cui Fler mi ha lasciato per Chakuza il meccanismo che si stava preparando a cambiarmi la vita per davvero si stava giusto mettendo in moto, ed avrebbe continuato a lavorare in sottofondo, senza fare rumore, fino a portarmi qui, in questa casa, di fronte a questa finestra, con la pioggia fuori e i compiti di trigonometria sulla penisola della cucina.
Sorrido nel chiudere il libro e il quaderno, mentre mi avvio verso l'ingresso per recuperare la giacca ed uscire, stavolta portando con me anche un ombrello. La distrazione è arrivata, e tutto sommato io potevo prenderla meglio, ma potevo anche prenderla peggio, quindi in fondo non mi lamento.
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