Fandom: Originali
Genere: Introspettivo, Romantico, Fantasy.
Rating: R
AVVISI: Angst, (kinda) Slash, tematiche religiose (credetemi, sono più triste io di voi).
- William è un vampiro. Dall'amore è sempre fuggito. Anaël è l'angelo dell'Amore di Dio, ma l'amore non sa nemmeno cos'è. Forse il loro incontro è del tutto casuale. Forse, invece, no.
Note: Questa storia è una maledizione e chiunque di voi la aprirà al termine della lettura riceverà una telefonata in cui una voce anonima, con tono sibilante, gli dirà che dovrà morire entro una settimana. *piange* No, ok. Dunque. Scritta perché con la Tab ci siamo fatte prendere un sacco la mano con questa storia degli angeli e dei vampiri, e l'idea si adattava bene al prompt Pioggia per la seconda missione della prima settimana del COW-T. Poi il resto non saprei dire, non so perché sia diventato un harmony pseudogay (pseudo solo perché tecnicamente uno dei due protagonisti è asessuato, quindi, capite, NON E' NEANCHE PORNO, una vergogna, in pratica) con strambe disgressioni pseudo-teologico-filosofiche. E' stata colpa di Sadako. Il pozzo, lo specchio, i lunghi capelli ecc ecc. *lacrime*
(Avevo pensato che per questa storia avrei magari potuto fare una qualche intro decente, visto che le voglio un bene particolare, e invece! Che bello. *piange*)
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A HEART THAT HURTS IS A HEART THAT WORKS

L’angelo scese dal cielo in una notte di pioggia. Un temporale estivo, oscuro e violento. Il cielo, coperto da nuvole enormi e immobili, non si lasciava sfuggire un lampo, come se già il solo fatto di nascondere luna e stelle non fosse ancora sufficiente. Il buio doveva essere totale.
William stava ascoltando gli sporadici battiti del cuore della donna, quando il cono di luce squarciò le nubi e si proiettò fino a terra, sull’asfalto bagnato, asciugandolo immediatamente. Quella doveva essere una luce davvero incandescente. Quella doveva essere una luce dalla quale stare lontano.
La donna morì fra le sue braccia senza un lamento. William lanciò un’occhiata al suo cadavere pallido e magro e improvvisamente persero ogni attrattiva perfino quelle ultime due gocce di sangue gemelle che si affacciavano ai minuscoli fori sul suo collo teso. Lasciò ricadere il corpo sulla strada, sollevando il capo verso l’alto perché le gocce di pioggia gli lavassero il viso, e poi tornò a fissare il cono di luce sulla strada desolatamente vuota.
L’angelo avanzava lentamente, la figura appena intuibile nella dorata incandescenza di quel bagliore. William si concesse una smorfia infastidita: quando avrebbero smesso, dai piani alti, con tutta quella inutile quanto fuori moda pomposità? Il problema del grande capo lassù era che ragionava ancora in termini letterari. Era un poeta, per così dire. Non era abbastanza pratico per avere davvero a che fare con la gente. O per tenerla sotto controllo. Il che poi spiegava l’esistenza di anomalie come lui, ad esempio.
Uscì dal proprio nascondiglio nel vicolo solo quando la luce si fu estinta, e al centro della strada fu rimasto solo l’angelo. Indossava una lunga tunica bianca che dall’aspetto impalpabile, che divenne immediatamente pesante, appiccicandoglisi addosso, quando la luce, scomparendo, lo privò della propria protezione. Stessa sorte subì il caschetto biondo di capelli che gli adornava il viso, scivolando sulle guance in un taglio dritto, da educanda. L’acqua schiacciò sotto il proprio peso anche quello.
L’angelo – aveva i piedi nudi – mosse un paio di passi fra una pozzanghera e l’altra, guardandosi intorno. Le lunghissime ali aperte stavano cominciando a bagnarsi e appesantirsi. Le ripiegò sulla schiena, passandosi una mano fra i capelli per scostarli dal viso.
- Brutto giorno per una visita nei piani bassi. – disse con un sorriso sarcastico, avvicinandosi senza timore. Le manovre di sua maestà l’avevano sempre incuriosito molto, non riusciva mai a tenere il naso lontano dai suoi affari, quando gliene capitava uno proprio davanti agli occhi.
L’angelo si voltò a guardarlo senza cambiare espressione. La sua pelle dorata risplendeva nonostante il buio.
- Tu mi vedi. – disse atono. Non era nemmeno una domanda. William sorrise, mostrando i canini. Spiegazione sufficiente, suppose, perché gli occhi dell’angelo smisero immediatamente di brillare di curiosità, tornando opachi e privi di espressione. Aveva compreso. – Hai appena ucciso una donna. – proseguì. William si strinse nelle spalle, ridendo.
- Non vi si può proprio nascondere niente. – disse con un sorriso di scherno. – E comunque, non parlarne come se fosse stato un comune assassinio. Io mi sono nutrito. Non avete problemi con i leoni che sterminano branchi interi di gazzelle, giù in Africa, o con gli orsi polari che divorano le foche su al Polo. Quindi perché dovrebbe essere un problema per un vampiro nutrirsi di un essere umano?
L’angelo lo squadrò a lungo, i capelli sempre più appiccicati al volto e al collo.
- Parli molto. – considerò, - E sei molto arrabbiato.
William si strinse nelle spalle.
- Fa parte della mia natura. – rispose, - Come immagino faccia parte della tua inorridire di fronte a un omicidio, di qualsiasi tipo esso sia.
L’angelo lo fissò ancora per qualche secondo, prima di volgere lo sguardo alla strada, di fronte a sé.
- Non saprei dirlo. – disse quindi, passandosi una mano sulla fronte per scostare ancora una volta i capelli dal viso. – Sono qui per scoprirlo. La pioggia è fastidiosa. – aggiunse in un borbottio colmo di disappunto.
- Già. – rise William, prendendo a passeggiare lentamente al centro della via. L’angelo lo seguì senza nemmeno chiedergli dove stesse andando. – Immagino che non si veda spesso, ai piani alti.
- Mai. – rispose l’angelo, - Sopra le nuvole è sempre sereno.
- E non solo in senso letterale, immagino. – ridacchiò ancora il vampiro. L’angelo si voltò verso di lui, stizzito.
- La tua risata non mi piace. – disse schiettamente, - Suona sarcastica.
- È nella mia natura anche il sarcasmo. – rispose William, - Sulla terra, - spiegò, - anche quando splende il sole non è mai sereno. Uno può combattere questa consapevolezza con poche armi. Il sarcasmo è fra queste.
- La terra dovrebbe essere un bel posto. – disse l’angelo, tornando a guardare la strada buia.
- Forse dovresti ridiscutere la materia con sua maestà. – rispose lui, tirando un sorriso sghembo sui canini affilati, - Quando buttò Adamo ed Eva fuori dal Paradiso Terrestre non disse esattamente “vi mando a vivere in un bel posto”.
L’angelo rimase in silenzio per molti secondi, le braccia candide lungo i fianchi, le gocce di pioggia che scivolavano sulla sua pelle esitando un attimo sulla punta delle sue dita prima di lanciarsi nel vuoto, verso l’asfalto.
- Perché dovremmo proteggerlo, allora? – chiese l’angelo a mezza voce. William guardò il suo viso privo di espressione e si ritrovò rapito dai suoi occhi. Brillavano di nuovo, dorati, lucidi. C’era incertezza in quegli occhi, angoscia, paura. Non poteva essere solo colpa della pioggia.
- Come ti chiami? – gli chiese, la voce soffice.
- Anaël. – rispose lui, - Il tuo nome?
- Non è bello quanto il tuo. – gli sorrise. – William. – rispose infine.
L’angelo continuò a camminare al suo fianco, scrutandolo curiosamente.
- Non ti piace il tuo nome? – gli chiese, - Perché?
- Non ho detto questo. – rise William. Per certi versi, era un po’ come avere a che fare con un bambino. – Ho detto solo che il tuo nome è più bello del mio.
- Cosa rende un nome più bello di un altro? – insistette l’angelo, poco convinto. William si strinse nelle spalle.
- La musicalità. – spiegò, - Certi nomi, poi, sono più belli anche graficamente. Senza bisogno di scriverli, quando qualcuno si presenta puoi provare a disegnare il suo nome con l’immaginazione. Alcuni nomi sono molto belli, così. Il tuo lo è. È particolare. Non si sente spesso parlare di un Anaël caduto dal cielo in un giorno di pioggia.
Anaël sorrise, divertito.
- Il tuo nome a me piace. – disse quindi, - Ha un suono dolce.
William sorrise, tirando su solo un angolo della bocca.
- Grazie. – rispose. – Hai già dove andare?
L’angelo si strinse nelle spalle.
- Non ci ho ancora pensato. Non sarà un problema restare per strada, suppongo. Forse è ciò di cui ho bisogno.
William, svoltò a destra, portandolo sul lungomare.
- Perché sei qui? – gli chiese, - Sempre che sua maestà non ti abbia mandato sulla terra con l’obbligo di tenere la bocca chiusa, s’intende.
Anaël ignorò la sua battuta, fissando il mare crivellato dalle gocce di pioggia come proiettili.
- Per capire. – disse, - Perché esisto.
- Temo che tu sia venuto nel posto sbagliato. – sorrise William, intenerito. – Qui tutti si arrabattano per cercare di capire perché sono venuti al mondo, qual è il loro scopo, qual è il senso della vita. Gli esseri umani passano l’intero arco della loro esistenza a chiederselo. Ed è una domanda che resta senza risposta.
Anaël corrugò le sopracciglia, voltandosi a guardarlo.
- A cosa serve nascere, vivere e poi morire, se quando arrivi alla morte non hai ancora capito perché hai vissuto? – chiese incerto. William rise forte, gettando indietro il capo.
- Voi angeli non siete molto diversi dagli esseri umani, pare. – commentò, - Avete solo più potere, ma per il resto vi ponete le stesse domande, e andate alla ricerca delle stesse risposte.
Anaël abbassò lo sguardo.
- Io sono diverso dai miei fratelli. – esalò, in un sussurro appena percettibile sotto il suono scrosciante della pioggia. – E tu? – chiese quindi, voltandosi verso di lui, - Tu non ti poni nessuna domanda? Non cerchi nessuna risposta?
William si strinse nelle spalle, riprendendo a camminare ed allontanandosi dal mare, verso casa propria. Anaël continuò a seguirlo.
- Quando ero ancora un essere umano, anch’io ero come tutti gli altri. Morire e rinascere mi ha tolto ogni dubbio, invece. È sciocco cercare risposte plausibili per domande ridicole. I perché dell’esistenza non esistono. La casualità e il disordine governano l’universo. Questo, che a sua maestà piaccia o meno. – disse con un sorriso di scherno. – L’eternità pone tutto sotto una luce differente, più chiara. Anche per chi vive solo di notte.
Anaël lo ascoltò parlare senza interromperlo, anche se dall’espressione del suo viso non si sarebbe potuto dire se fosse convinto o meno delle sue argomentazioni.
- Anche io sono eterno, - disse dopo un po’. La pioggia cominciava a scemare, - ma questo non mi ha aiutato a vedere le cose più chiaramente.
- Perché tu eterno ci sei nato. – precisò William, guardandolo quasi con fastidio. Sciocchi angeli e la loro incapacità di distinguere le sfumature. Come il loro creatore, al quale più di tutte le altre creature assomigliavano, vedevano ogni cosa solo su due tinte. Bianco e nero, giusto e sbagliato, vita e morte, luce e buio. Ignorando deliberatamente gli stadi intermedi, come allocchi si lasciavano sfuggire il magico segreto della vita. I suoi mezzitoni. – Per noi è differente. – concluse, cercando di non lasciar scivolare sulla lingua tutto l’astio che in quel momento sentiva di provare.
Anaël dovette cogliere qualcosa nella sua voce, perché esitò più di qualche secondo prima di ricominciare a fargli domande.
- In che modo è diverso? – chiese, - Io non conosco la morte. Non so come possa cambiare le prospettive delle persone.
William rise, scuotendo con una mano i capelli carichi di pioggia e rifugiandosi nello spicchio di marciapiedi riparato offerto da un balcone.
- In che modo pensi che cambi le prospettive di qualcuno, la morte? È una cosa definitiva. La più definitiva che c’è. Quando muori, è tutto finito.
- Ma non per te. – disse Anaël, restando in piedi accanto a lui senza potersi appoggiare alla parete come lui stava facendo.
- No, per me no. – annuì William, - Per me e per quelli come me la morte è una questione un po’ particolare. Ma voi angeli non proteggete certo quelli come noi, quelli senz’anima. Quindi perché dovrebbe interessarti sapere cos’è stato morire per me?
- Non lo so. – rispose Anaël, senza mai abbassare lo sguardo, - Ma perché non dovrebbe?
- Perché la mia razza non è affar tuo. – ribatté William a muso duro.
Anaël aggrottò le sopracciglia.
- Qualsiasi creatura calpesti il suolo della terra è affar mio. – sentenziò stizzito, - È affare di Dio.
- Dio ha guardato altrove così spesso, durante il corso della mia vita… - sbuffò William, - Perché non continua? Stavo bene, senza il suo ingombrante interesse alle calcagna.
- Non è possibile. – scosse il capo Anaël.
- Come sarebbe a dire? – scattò lui, avanzando a fronteggiarlo da pochi centimetri di distanza con piglio fiero nonostante l’angelo fosse di almeno una quindicina di centimetri più alto di lui, - Che vuol dire che non è possibile?
- Che io ti ho visto. – disse semplicemente Anaël, senza un fremito né un’incertezza, - E non mi è possibile smettere di interessarmi a te.
William aggrottò le sopracciglia, scrutandolo attentamente.
- Che razza di angelo saresti tu? – gli chiese. Anaël distolse lo sguardo. A William sembrò di percepire un certo disagio nei suoi occhi ambrati.
- Questo non ti riguarda. – disse cupamente. William incrociò le braccia sul petto.
- Quindi sono fatti tuoi quelli che riguardano me, ma non sono fatti miei quelli che riguardano te. – considero. – Comoda la vita nell’alto dei cieli.
- Io sono un angelo! – ribatté Anaël, nel primo scoppio di vero fastidio che aveva da quando avevano cominciato a parlare, - Io non sono una creatura sullo stesso piano dei comuni mortali.
- Be’, se non te ne sei accorto, - ritorse William, a bassa voce, - nemmeno io.
L’espressione di Anaël si fece per un secondo più cattiva, prima che i suoi lineamenti tornassero a spiegarsi nell’usuale smorfia piatta.
- Ho fatto male a seguirti. – disse.
- Sì, credo di sì. – sospirò William, - Ma ormai, l’hai detto tu stesso, non è possibile tornare indietro. Perciò facciamola breve. Dimmi cosa vuoi.
- Voglio risposte. – disse Anaël, le sopracciglia corrugate in un fremito nervoso. La pioggia riprese a cadere scrosciante attorno a loro. Un suono lugubre, ma allo stesso tempo perfino allegro. I capelli di Anaël, aiutati dal calore che si irradiava dal suo stesso corpo, molto più alto rispetto a quello degli umani, si stavano già asciugando, ripiegandosi in piccole onde spettinate e un po’ crespe. Erano bastati pochi minuti sulla terra a renderlo già decisamente più imperfetto di quanto non fosse quando era arrivato. William ne aveva conosciuti altri. Non tanti, ma qualcuno. Scesi in un cono di luce, splendidi, caldi, meravigliosi. Ingrigiti e spenti dopo un anno. Le ali ormai ridotte a scheletri rinsecchiti dopo cinque. Al decimo o giù di lì cadevano, appendici ormai inutili. Forse Anaël non lo sapeva ancora, ma anche gli angeli potevano morire senza morire davvero, esattamente come i vampiri.
- Ho risposto a tutte le domande che mi hai fatto. – chiese William, cercando di sorridergli conciliante.
- Non all’ultima. – insistette Anaël, aggrottando le sopracciglia. – Com’è stato morire?
William gli lanciò un’occhiata di fuoco, stringendo i pugni lungo i fianchi. Un lampo squarciò il buio della notte, seguito da un tuono talmente potente da costringere le finestre delle case, e i lampioni, e perfino la terra, a tremare come in preda alle scosse di un terremoto. Cercò di placare la propria rabbia, e per frenare il desiderio di avventarsi sul suo collo e mordere fino a spezzarglielo dovette ricorrere a tutto il proprio autocontrollo, e ricordarsi che il vecchio li guardava, dall’alto, oltre le coltri pesanti dietro le quali, vigliacco, si nascondeva. Facesse pure tremare la terra, gli rovesciasse addosso l’ira di Dio. Un giorno sarebbe stato pronto ad affrontarla, e se ne avesse avuto l’occasione il sangue di Dio sarebbe stato l’ultimo che avrebbe bevuto.
- È stato doloroso, Anaël. – rispose all’angelo. Cosa poteva saperne lui? Della vita, della terra, della morte, anche di Dio. Era solo un angelo. Una creatura semplice. Un volatile al servizio di una mente più complessa. Non riusciva nemmeno ad odiarlo come avrebbe voluto, tanto era evidente e quasi intimamente fastidiosa quella sua innocenza così palese. – È stato molto doloroso, incredibilmente doloroso. La cosa più dolorosa che abbia mai provato nella mia vita. Ed il dolore non è durato un lampo, non sono stati pochi istanti di agonia. Ci ho messo delle ore, a morire. Colui che mi ha generato non aveva fretta di finirmi. O di rendermi uno dei suoi figli. Quando muori e diventi vampiro, il valore del tempo è il secondo insegnamento che ti viene impartito. Ma il primo resta quello del dolore.
Anaël non distolse mai lo sguardo, ascoltandolo attentamente.
- Io non so cos’è il dolore. – rispose candido, avvicinandosi di un passo e poggiandogli una mano sul petto, all’altezza del cuore. Il calore era insopportabile. William non aveva mai sentito la mancanza del sangue nelle vene come in quel momento. – Tu ne sembri pieno. – considerò a bassa voce, una piccola smorfia ad increspare le labbra sottili.
- Io non soffro. – negò William, quasi offeso.
- Eppure qualcosa dentro di te trema. – disse Anaël, tornando a guardarlo negli occhi.
- È rabbia. – rispose lui.
Anaël sembrò illuminarsi d’improvviso. I suoi occhi mandarono un bagliore quasi accecante, solo per un secondo. La sua mano si poggiò con maggiore decisione sul suo petto, le dita bene aperte.
- Tu odi. – disse, tornando a guardarlo in viso. – Perché odi?
- Perché sono stato ferito. – rispose lui, con ovvietà.
- E tu non ami? – insistette Anaël, avvicinandosi ancora. Il suo respiro era profumato, la sua pelle emanava un calore paradisiaco. Tutto in lui si stava risvegliando. Le ali candide fremevano dal desiderio di spiegarsi. – Perché si ama? Se hai amato, dimmelo.
William spalancò gli occhi, scrutandolo con sconcerto. Schiuse le labbra ma gli ci volle del coraggio per parlare.
- Perché vuoi saperlo? – chiese in un fiato, - È questo che t’interessa? L’amore?
Anaël si ritrasse d’improvviso, come scottato dalle sue parole.
- Rispondi alla domanda. – ordinò, tenendosi la mano fra le dita, - Parlami dell’amore.
- Tu sei una creatura di Dio. – ribatté lui, sconvolto, - Sei un suo messaggero. Dovresti esserne pieno.
- Ebbene, non lo sono! – strillò l’angelo, e per un secondo il suo urlo divenne l’urlo dei cieli interi. William si sentì come gli stessero aprendo la testa in due. Si appoggiò alla parete, il capo fra le mani e sulle labbra un gemito carico di dolore. Anaël non si avvicinò, terrorizzato dalla propria stessa potenza. Ansante e splendente di rabbia, strinse i pugni, continuando a fissarlo. – Non so cos’è l’amore. Non so cos’è il dolore. Non so cos’è la vita. Quello che vedo sbirciando dal Paradiso non ha alcun senso, per me. La gente muore, piange, sorride, nasce, e io non capisco perché. – i suoi occhi si riempirono di lacrime così pure da brillare come cristallo. Il dolore di un angelo poteva essere penetrante e sconfinato. William se ne sentì pieno fino a sentirsi male, e quella sensazione, o meglio, la possibilità di provare ancora una sensazione simile, lo atterrì. – Dovrei essere l’angelo dell’amore di Dio. E non so provarlo. Io non provo niente.
William si avvicinò titubante, sollevando una mano ed accarezzandogli una guancia con due dita. Era incandescente, ma le sue lacrime non evaporavano. Profondo fino a quel punto era il suo dolore. Avrebbe continuato a piangere pure se fosse caduto all’inferno.
- Tu soffri. – gli disse, mostrandogli le lacrime. – Il dolore è importante.
- Io non sono l’angelo del dolore. – singhiozzò appena Anaël, distogliendo lo sguardo. – Non è del dolore che voglio parlare.
William sorrise appena, sfidando quel calore così intenso per accarezzargli nuovamente il viso. Le sue dita avrebbero potuto abituarsi a quel contatto così facilmente. Oh, sarebbe bastato così poco.
- Allora non è nemmeno dell’amore che vuoi parlare. – gli disse dolcemente. – Il più delle volte, le due cose sono legate al punto da non potere essere distinte.
Anaël tirò su col naso, appoggiandosi appena contro il palmo della sua mano. Il calore ed il bagliore della sua pelle si fecero più soffusi, decisamente più sopportabili.
- Voglio imparare. – disse con un filo di voce. – Ho bisogno di capire.
William annuì, incapace di allontanarsi da lui.
- Non so perché tu sia caduto proprio davanti a me, - disse, - penso si sia trattato di uno scherzo davvero poco divertente, considerato quello che penso di sua maestà. Ma vieni con me.
- Perché? – chiese Anaël, gli occhi d’oro liquido. – Perché mi vuoi con te?
William lo guardò con dolcezza, rassegnandosi a tirare giù la mano.
- Questa è una domanda a cui non posso rispondere, ancora. – ammise sinceramente. – Scopriamolo insieme. – disse con un ultimo sorriso, prima di voltarsi e riprendere la via di casa. Anaël rimase immobile sotto il balcone ancora per qualche secondo. Poi l’intensità della pioggia sembrò diminuire e, deglutendo, lo seguì.
*
Non doveva aver dormito affatto, quella notte. Quando William riemerse dal proprio nascondiglio protetto nel sotterraneo dell’appartamento disabitato che aveva occupato ormai da quasi sei mesi, lo trovò intento a fissare fuori dalla finestra. Il sole, sul mare lontano, era già tramontato del tutto. Del disco di fuoco non restava altra traccia che la luce rosata tipica di quell’ora del giorno. Ricopriva tutta la città come un manto. Piovigginava ancora, ma il cielo non era più ingombro di nubi. Eppure, in qualche modo, non sembrava che dovesse smettere tanto presto.
- Lassù qualcuno piange per la tua assenza, mi sa. – accennò a sorridere, avvicinandosi a lui. Anaël non sembrò sorpreso di trovarlo lì. William vide il suo sorriso amaro e un po’ disilluso riflesso sul vetro della finestra. Non aveva mai visto un angelo sorridere in quel modo. Di tutti quelli che aveva conosciuto – fossero caduti di loro spontanea iniziativa o fossero stati cacciati o fossero stati semplicemente inviati sulla terra per qualche tempo – non ce n’era uno il cui sorriso non riflettesse l’enormità della loro fede. Potevano perdere tutte le loro certezze, l’aureola, le ali, ma non avrebbero mai perso la fede. – Non hai l’aureola. – disse, visto che Anaël non sembrava in vena di chiacchiere spontanee, - Me ne accorgo solo adesso.
- Mi è stata tolta. – rispose lui, atono.
William inarcò un sopracciglio.
- Sei stato cacciato? – domandò curioso. Anaël continuò a scrutare il tramonto, affascinato.
- No. – rispose, senza fornire ulteriori spiegazioni. – Senti, cos’è questo? – chiese, indicando con un cenno il cielo che si andava facendo più scuro, assieme alla pioggia che tornava a farsi più forte.
- Questo cosa? – chiese lui, appoggiandosi alla parete ed incrociando le braccia sul petto, - Il tramonto?
- Noi non l’abbiamo. – annuì Anaël. – Non abbiamo neanche il sole, non come lo intendete voi, almeno. La luce di Dio ci illumina. Ed è eterna.
- Sì, be’, sulla terra il suo bagliore non arriva. – rispose William, sarcastico, accogliendo con divertimento la smorfia infastidita che già molto spesso, nonostante il poco tempo che avevano passato insieme, Anël si era lasciato sfuggire di fronte alle sue battute. – Qui sulla terra, lo scorrere del tempo è scandito dal sole che sorge, attraversa la volta celeste da est ad ovest e poi tramonta.
- Questo lo so anch’io. – sbuffò Anaël, offeso dal suo tono, - Quello che intendo è perché accade questo. – insistette, premendo un dito contro il vetro ad indicare fuori.
William si affacciò appena, scrutando la strada. Non sembrava ci fosse niente di strano, a parte la luce che ora s’era fatta violacea.
- Non ti seguo, Anaël. – ammise, scuotendo il capo.
L’angelo si lasciò sfuggire uno sbuffo esasperato, arruffando le penne come un piccione. William si trattenne a stento dal ridere.
- Questo. – insistette, pigiando con più forza il dito contro il vetro, - I colori, il rosa, l’arancione, il violetto. Perché c’è ancora luce quando il sole è calato? Non ha senso. Se non c’è sole, non dovrebbe esserci luce. Perché c’è?
- Intanto, calmati. – rise appena William, prendendo delicatamente il dito ormai quasi bianco per lo sforzo di premere contro il vetro, ed allontanandolo dalla finestra. – Così rischi di spaccarlo e ferirti, - lo ammonì, - e credimi, non vuoi cominciare a sanguinare di fronte a me. – Anaël si sottrasse di scatto al suo tocco, aggrottando le sopracciglia. William decise di passare sopra alla sua scontrosità. – Secondo poi, il fatto che tu non veda più il sole non vuol dire che lui abbia smesso di esistere. Sai, è questo che mi ha sempre sconcertato di voi esseri divini. Siete grandi e potenti e immensamente buoni e tutto il resto, ma la vostra visione delle cose è così limitata. Vi insegnano le basi e poi vi riempiono la testa di teologia. La terra vi distrugge perché è troppo complessa, per voi.
- Io voglio capire. – disse Anaël, sicuro.
- Certo, tu vuoi. – annuì William, - Ma forse non puoi. Il sole, l’hai visto per caso scomparire? – chiese con tono quasi paterno. Anaël ci rifletté per qualche secondo.
- No, - rispose poi, - l’ho visto nascondersi.
William annuì ancora, compiaciuto come di fronte ad un bambino durante i primi giorni di scuola, la testa ancora vuota e pronta per essere riempita con tutte le nozioni del mondo.
- E che cosa implica il fatto che si sia nascosto? – chiese.
Gli occhi di Anaël si illuminarono.
- Che c’è anche se io non posso più vederlo. – disse. William sorrise ancora.
- È per questo che continua a illuminare il cielo. Non è scomparso, è ancora lì. È così evidente.
Anaël scosse il capo, ma sorrideva.
- Credimi, - disse piano, - non lo è.
William faticò a togliergli gli occhi di dosso. C’era nel suo sguardo una bellezza così sconfinatamente triste da lasciare senza fiato.
- Io devo uscire. – disse quando gli riuscì di riprendere il controllo del proprio corpo, - Vuoi venire con me?
- Vuoi nutrirti ancora? – chiese Anaël. William fece un passo indietro, sulla difensiva.
- È quello che faccio. Lo faccio ogni notte. Se non bevo, sono debole. Se sono debole, sono facile preda degli umani. Ci cercano ovunque, giorno e notte. Ci prendono mentre siamo chiusi nelle nostre bare. Dobbiamo sempre rifugiarci sotto terra, nei sottoscala, nei sotterranei, per scampare il pericolo che vedano i nostri giacigli entrando nelle case che occupiamo. Devo essere vigile e lesto, e per esserlo devo nutrirmi.
Anaël sbatté le ciglia un paio di volte, stupito.
- Stavo solo chiedendo. – disse.
- E giudicando. – aggiunse William.
- Io non giudico. – protestò Anaël, accigliato, - Quello è compito di Dio.
- E non è compito degli angeli allinearsi al giudizio divino? – ribatté lui, con un ghigno cattivo sul volto, - Sua maestà ha già espresso tempo fa il suo giudizio sulla nostra razza. Per mano di Santa Madre Chiesa.
- La Chiesa non è Dio.
- Lo rappresenta.
- Rappresenta gli uomini che credono in lui. – precisò Anaël, - Non c’è niente di divino nella Chiesa. Non c’è niente di divino in niente che non sia Dio. E gli angeli non sono giustizieri. La giustizia di Dio non si esprime per nessuna mano che non sia quella di Dio stesso.
- Gli angeli sono le mani di Dio, Anaël. – sospirò stancamente William, - Sono i suoi messaggeri, e tanto basta.
- La punizione arriva solo con la morte. – insistette lui, perfino più accigliato di prima.
- Allora per me non verrà mai. – rise William.
- O forse è già venuta. – disse Anaël, tagliente. William non rispose. L’angelo trasse un sospiro profondo. – Sono stanco. – disse. Mentiva. Non poteva essere già stanco dopo un solo giorno passato sulla terra. La stanchezza non era cosa da angeli, era cosa da umani. Era un’abitudine che avrebbe preso, ma non così presto. Era impossibile. – Non verrò a caccia con te, stanotte. Preferisco restare qui.
William scrollò le spalle.
- Fa’ come vuoi. – sbottò, intimamente deluso. Si fermò sulla soglia della porta, voltandosi verso Anaël che, dalla finestra, s’era spostato verso l’interno della stanza. – Non credo che questa cosa possa funzionare. – disse. – Forse è meglio lasciar perdere.
Non si voltò indietro, uscendo. Sperò solo di non ritrovarlo ancora lì al suo ritorno.
*
Rientrò tardi. Durante la notte, le nuvole s’erano gonfiate ed il temporale era aumentato d’intensità. La pioggia aveva ricominciato ad abbattersi su di lui e sulle strade e su tutte le cose con una ferocia che sapeva di rimprovero. William non era riuscito a togliersi dalla testa il pensiero del Paradiso che piange, neanche per un momento. Era consapevole di quanto sciocco e melenso potesse suonare quel pensiero, e d’altronde sembrava ridicolo anche a lui che l’aveva formulato, ma era lì, piantato nel cervello e, quel ch’era peggio, piantato in mezzo al petto, in un punto che già da troppo tempo avrebbe dovuto smettere di fare male a quel modo, e che invece sembrava essersi risvegliato d’improvviso quando il calore delle dita di Anaël gli si era posato addosso, investendolo molto più profondamente di quanto non riuscisse a confessare perfino a se stesso.
Verso le cinque, le nuvole avevano cominciato a farsi livide. Sembravano smagrite, ma continuava a piovere. Pareva dovesse essercene per giorni. Era un fenomeno davvero incredibile. Non aveva piovuto quasi mai prima dell’arrivo di Anaël, negli ultimi mesi. Sarebbe stato molto più comodo e semplice – nonché razionale – stabilire che l’improvvisa scarica d’acqua pressoché continua fosse motivata proprio dal fatto che in quella regione si sfiorava la siccità da almeno tre o quattro settimane, ma per qualche motivo il pensiero che la causa fosse Anaël assumeva nella sua testa una sorta di ridicola tenerezza alla quale William non si sentiva in grado di rinunciare.
Era un po’ sciocco continuare a pensare a lui anche sapendo che non sarebbe più stato a casa, quando William fosse tornato, eppure semplicemente non riusciva a levarselo dalla testa. Poco prima di spalancare la porta ed entrare in casa, William sollevò lo sguardo e sfidò il cielo con un’occhiata torva. Sperò che sua maestà si stesse almeno divertendo, a vederlo ridotto in quelle condizioni.
Aprì la porta ed entrò in casa. L’appartamento era vuoto. Anaël non si vedeva né si sentiva da nessuna parte. Era tutto ancora così buio. Lo sarebbe stato ancora per un bel pezzo.
- Ti diverti, vecchio? – mormorò fra sé, sfilandosi di dosso la giacca fradicia ed appoggiandola allo schienale di una sedia. La osservò gocciolare sul pavimento per molti secondi, prima di perdere interesse. Le cose lo annoiavano molto più lentamente, da quando era diventato un vampiro. Naturalmente ricordava ormai molto poco della sua vita da mortale, ma di una cosa era certo: quand’era ragazzo c’era molta fretta in lui. Tutto ciò che pensava, tutto ciò che faceva, tutto ciò che diceva era frenetico. Inconsapevole del trascorrere del tempo, in qualche modo sapeva comunque di non poterne sprecare neanche una goccia. E perciò tutto era una corsa, nei grandi prati dietro la fattoria di suo padre, in mezzo ai campi coltivati oltre il fiume, fra i pascoli in collina e i ruscelli ghiacciati sulle sponde dei quali sostava sdraiato a godersi le carezze del sole a valle. Dopo la sua rinascita era diventato molto più consapevole del trascorrere del tempo, una nozione che avrebbe preferito avere quando il suo scorrere aveva ancora un significato pratico per lui. Adesso sapeva di poter osservare gocce di pioggia scivolare lungo il tessuto impermeabile di una giacca fino a schiantarsi in una pozzanghera per terra, senza che questi minuti fossero persi. Perché nessun minuto poteva più andare perso.
Sospirò pesantemente, sedendosi di fronte alla finestra e scrutando la strada all’esterno. Così com’era tramontato la sera prima nel mare, dal mare il sole ricominciò a sorgere. Il disco di fuoco era ancora nascosto sott’acqua, ma i primi segni della sua rinascita cominciavano già a vedersi. Presto la stanchezza l’avrebbe vinto, e allora William avrebbe dovuto abbandonare quel posto e scivolare silenziosamente nel proprio nascondiglio sotterraneo, per dormire fino al calar della sera. Ma in quel preciso istante quel momento sembrava così lontano. Il cielo, oltre le nuvole che sembravano volersi diradare, nonostante la pioggia continuasse a cadere, era rosa e celeste. Colori così tenui da dare una certa impressione di trasparenza. Non avesse saputo che una cosa del genere era impossibile, avrebbe continuato a scrutare la volta celeste per delle ore nel tentativo di osservare gli angeli, minuscoli a causa della grande distanza, che l’attraversavano in volo. Gli sarebbe piaciuto osservarli muoversi e vivere la loro vita come attraverso un vetro.
William odiava l’esistenza di Dio. Non aveva avuto il tempo di farsi un’idea della religione, quando era ancora un essere umano, ma quello che aveva imparato successivamente, viaggiando e crescendo pur rimanendo sempre identico a se stesso, l’aveva definitivamente convinto dell’intrinseca malvagità di un essere che fonda le basi del proprio potere sulla bontà e sull’amore, e che però non è mai disposto a donarne un po’. Non si era mai lasciato irretire dalle sciocche cantilene di preti e credenti di ogni tipo, secondo i quali ogni dolore nella vita non era altro che una prova mandata da Dio al credente per testare la sua fede. L’idea che s’era fatto lui era che Dio non c’entrasse proprio niente con quello che succedeva agli uomini. Ogni dolore che gli uomini pativano era lì solo perché la razza umana era fondamentalmente nata per soffrire. Così deboli e così sciocchi, tutti quanti, così convinti della propria superiorità da non riuscire a vedere ad un palmo dal proprio naso, da non riuscire a riconoscere la miriade di creature incredibilmente più perfette che tutti i giorni vagavano per le loro stesse strade, nascoste ma forti.
E Dio permetteva loro di credere a quella favola ridicola, permetteva loro di riempirsi la bocca d’amore, rispetto e comprensione, quando tutto ciò che i loro miseri, limitati cervelli potevano concepire era solo la paura. Non era per amore che pregavano Dio. Era per paura della sua giustizia. Il Dio dell’amore non era mai stato il Dio dell’amore. Era sempre stato il Dio della vendetta, delle piaghe, delle prove, degli assassinii e del dolore. Ma l’amore era più rassicurante, una storia più dolce da raccontarsi. Dio osservava dall’alto, divertito, e lasciava fare, eternamente annoiato dalla sua eterna esistenza.
William non poteva immaginare cosa potesse significare esistere da sempre con la consapevolezza di dover esistere ancora per sempre. La sua vita, per quanto lunga, non era che un pallido riflesso dell’infinita lunghezza della vita di Dio. Ciononostante, era abbastanza convinto che Dio, dell’eternità, non avesse capito l’incredibile potenziale, ma forse dipendeva dal suo trovarsi incatenato in un mondo che non era quello concreto. Era ironico come, con tutto il suo potere, Dio fosse la creatura più prigioniera che fosse mai esistita. Troppo per la piccola mente degli uomini, troppo anche per quella dei vampiri, troppo perfino per gli occhi dorati dei suoi diletti figli. Nascosto e solo, non poteva che guardare dall’alto.
Per questo William, ogni tanto, avrebbe voluto poter essere lui, a guardarlo. Forse l’avrebbe preso in giro per questa sua ridicola condizione, o forse gli avrebbe fatto semplicemente l’unica domanda che tutti, quando sono consapevoli della sua esistenza – e non quando si limitano a crederci; i fedeli non domandano, d’altronde, la fede non si basa su domande, ma su assurde e inconsistenti certezze – sognano di fargli. Dov’eri, gli avrebbe chiesto, dov’eri quando, legato a quel palo, venivo torturato? Quando solo per miracolo sono riuscito a sfuggire al graffio del sole sulla mia pelle? Ero un vampiro così giovane, allora, così inesperto. Dov’era la tua pietà, dov’era il tuo amore per tutte le creature del mondo in quel momento? O in un qualsiasi altro momento?
Il cielo si colorò appena, spruzzi di un arancione più vivo che ricordava il rossore imbarazzato sulle guance di una ragazza. Aveva una sorella, un tempo. L’aveva vista arrossire in quello stesso modo il giorno del suo matrimonio. Un matrimonio semplice. Spighe di grano intrecciate sul capo. Fiori di campo per bouquet. Lui stesso, nella chiesa del paese, sorridente in mezzo a tutti gli altri invitati, non indossava che un paio di pantaloni corti ricavati da un vecchio sacco di iuta. Gli prudeva il sedere, ma era felice. E sua sorella era così bella, così incredibilmente felice. I colori dell’alba gliel’avevano sempre ricordata. Non quando ancora era in vita, ma dopo morto. Prima a stento faceva caso anche alla sola presenza di quei colori, ma dopo, dopo erano diventati un particolare impossibile da ignorare.
Soffriva nel rendersi conto che, adesso, da quei colori era scomparso il ricordo dell’ovale morbido e liscio del viso di sua sorella. Al suo posto c’era il disegno di quello di Anaël, per il quale quei colori erano così incomprensibili fin solo al giorno prima.
Portò una mano al petto, concedendosi una smorfia di dolore. Il suo cuore immobile non batteva, eppure faceva così male. Così male.
Fu quando pensò di dover cominciare a ritirarsi – pochi minuti ed il sole avrebbe cominciato a fare capolino dal suo nascondiglio in fondo al mare – che sentì un tonfo contro la vecchia porta dell’appartamento. Non era come se qualcuno stesse bussando, piuttosto come se qualcuno al quale la nozione del bussare sfuggiva stesse cercando di farsi notare. William si drizzò in piedi, in allerta. Sentiva il calore nonostante la pioggia, nonostante la distanza, nonostante le pareti.
Si precipitò ad aprire e fu felice di non avere un cuore vivo, in quel momento, perché alla sola vista di Anaël avrebbe potuto esplodere. Stava lì, bagnato fradicio e un po’ tremante nell’aria gelata dell’alba. Sentiva evidentemente freddo. Un altro pezzo di umanità si andava insinuando sotto la sua pelle dorata. William avrebbe dovuto trovarlo pietoso, ed invece lo trovava solo tenero.
Si allungò ad abbracciarlo, inspiegabilmente sollevato. Anaël rimase immobile, profondamente stupito. Non aveva la minima idea di come rispondere ad un abbraccio così come non aveva idea di come bussare, o del perché il cielo diventasse rosa al tramonto. Era una creatura con un potere infinito, eppure così indifesa. William non riusciva a immaginare come fosse possibile privarsene, eppure in qualche modo vedeva il motivo per cui Dio l’aveva mandato sulla terra. Era evidente ed inconcepibile allo stesso tempo. Contraddizioni che non avrebbero dovuto neanche sfiorarlo, eppure in presenza di Anaël sembrava tutto così spaventosamente possibile.
- Il cielo continua a piangere per te. – disse a bassa voce, godendo del tepore del suo corpo. Anaël si concesse uno sbuffo amaramente divertito.
- Ti assicuro che là sopra nessuno sente la mia mancanza. – rispose in un soffio.
William si allontanò appena da lui, guardandolo negli occhi per un lungo istante.
- Mi sembra impossibile. – disse infine, prima di trascinarlo dentro. Anaël non oppose la minima resistenza. Per quel momento, poteva bastare così.
*
Anaël non gli parlò per due giorni. Non sembrava arrabbiato o deluso, piuttosto pareva che non riuscisse a trovare le parole per cominciare il discorso. William faticava parecchio a star dietro alla sua generica impreparazione ad affrontare l’esistenza: in qualche modo, vedere Anaël in quelle condizioni riusciva a farlo sentire in colpa nei confronti dell’unico altro essere che in condizioni molto simili aveva visto lui, e che lui, dopo essere stato istruito a sufficienza, non aveva esitato ad abbandonare per andare alla ricerca di qualcos’altro. In quei giorni, osservando Anaël interessarsi di tutto senza mai trovare il coraggio di esporre i dubbi che gli solleticavano la lingua, s’era ritrovato spesso a chiedersi come si sarebbe sentito se lui avesse deciso di abbandonarlo. Anche muta, la sua presenza era così preziosa, irrinunciabile. Ogni volta che pensava al momento in cui si sarebbe ritenuto soddisfatto delle cose imparate e sarebbe tornato in Paradiso per assolvere al proprio compito, William non poteva evitare di provare dolore.
Entro pochi giorni avrebbe incontrato nuovamente Donovan. Sarebbe stato difficile rivederlo dopo avere imparato tanto – in così poco tempo – sull’importanza di una presenza amata al proprio fianco.
Fu solo al terzo giorno che Anaël si decise a rivolgergli la parola. William era sveglio da meno di mezz’ora, e già si preparava alla caccia notturna. Anaël era bagnato fradicio, come ormai sempre gli accadeva, per avere passato tutta la giornata per le strade, ad osservare gli abitanti di quella città il cui cielo non era mai terso. Avrebbe potuto tranquillamente viaggiare per tutto il mondo in un battito d’ali, ma non si sentiva sicuro ad abbandonare il rifugio protetto della casa di William, perciò, al tramonto, era sempre lì che tornava.
Si avvicinò in silenzio, la pelle ambrata brillava di un certo chiarore soffuso e tiepido. Aumentava la temperatura del proprio corpo per asciugarsi, e il suo calore accarezzava in lunghe ondate anche la pelle gelida di William. Era il risveglio migliore che si potesse immaginare.
- Ho sofferto. – disse l’angelo. William stava per indossare la propria giacca, ma si fermò.
- Quando? – domandò.
- Quando mi hai mandato via. – rispose Anaël, stringendosi nelle spalle. Le sue ali gocciolavano. – Che cosa significa questo?
- Probabilmente, che non volevi andartene. – sorrise ironico William, inclinando lievemente il capo.
- È vero. – assentì Anaël, quasi soprapensiero, - Non volevo andare via. Perché?
- Ah, non saprei. – ridacchiò William, - Evidentemente casa mia è così accogliente che ti ci sei affezionato subito.
Anaël gli scoccò un’occhiata infastidita.
- Sono stufo delle tue prese in giro. – disse acido, e poi tornò a farsi più pensieroso. – E ciononostante non vorrei andare via. Sarebbe più semplice per me non averti intorno. Non dover chiudere gli occhi quando esci per la tua caccia e non dover sopportare le tue ridicole battute.
- Le mie battute non sono ridicole! – sbuffò William. Anaël lo ignorò.
- Eppure voglio restare. E se dovessi andarmene, - continuò, perso nel proprio ragionamento, - non sarebbero i mobili o le travi di legno, a mancarmi. Che cos’è questo?
William sorrise appena, indossando la giacca.
- Un legame. – rispose. Anaël si concesse una smorfia.
- Io non ho legami, se non con Dio. – disse contrariato. William sorrise ancora, dirigendosi verso la porta.
- Sarà così. – annuì uscendo e chiudendosi la porta alle spalle.
*
Quando rientrò, Anaël era di cattivo umore. A braccia conserte, era rimasto col naso appiccicato alla finestra per tutto il tempo, aspettando il suo ritorno. Avrebbe potuto uscire quando voleva, vagare per le strade per tutta la notte. Difficilmente avrebbe sentito la stanchezza e sicuramente nessuno l’avrebbe visto. Eppure, aveva scelto di restare lì, teso come una corda di violino, le sopracciglia aggrottate e le labbra sottili immobili in una smorfia contrariata. Era, in qualche modo, perfino divertente osservarlo mentre provava a contrastare ciò che provava, senza naturalmente riuscirci. Sarebbe stato uno splendido angelo dell’amore, quando Dio avrebbe deciso di richiamarlo a sé. Sarebbe stato assoluto e implacabile, serio e testardo, sordo e cieco a qualsiasi consiglio della ragione. L’amore era tutto ciò che gli mancava, ma sarebbe arrivato anche quello.
- Non lo voglio. – scattò non appena lo vide rientrare in casa. William gli lanciò un’occhiata di sbieco. Era sazio ma stanco, l’uomo aveva corso per quartieri interi prima di lasciarsi prendere, e lui aveva deciso di non ricorrere alle proprie abilità per un po’, giusto per ingannare il tempo, per provare sulla pelle l’ebbrezza della caccia. Aveva pensato molto a Donovan mentre, come un comune borseggiatore, correva affannosamente dietro alla propria vittima. Donovan non amava i giochetti. Cacciava piombando all’improvviso alle spalle della preda e mordendola all’istante. La dissanguava immediatamente. Non era uno al quale piacesse incutere timore o provocare sofferenza. Non giocava col cibo, in poche parole.
Neanche William amava farlo, ma aveva preso il gusto ad intrattenersi. Quella sera, aveva lasciato l’uomo libero di correre fino a sfiancarsi, per almeno un paio d’ore, prima di osservarlo accasciarsi in un angolo, stremato. Solo allora si era avvicinato, fresco come una rosa. L’aveva tirato su e l’aveva azzannato al collo con violenza.
Non l’aveva ucciso. Non sapeva perché. Semplicemente non ne aveva avuto voglia. D’altronde, era molto probabile che fosse comunque morto dissanguato nel giro di pochi minuti, con quella brutta ferita alla gola. O che qualche altro vampiro l’avesse annusato e si fosse fatto avanti per fare piazza pulita degli avanzi. Donovan disprezzava i vampiri parassiti. William li comprendeva, ne comprendeva la paura, la solitudine, la tristezza. Donovan veniva da epoche troppo lontane per poter tenere il passo con la realtà. Era già vecchio quando aveva creato lui, e sarebbe rimasto vecchio per sempre.
Era stanco, comunque, e pensare così tanto al suo creatore non lo aiutava a tenere gli occhi aperti. Sentiva già la sua voce cominciare a chiamarlo dalle profondità della sua testa. Era così che Donovan si metteva in contatto con lui, chiamandolo dapprima a bassa voce, poi aumentando il proprio richiamo d’intensità fino ad urlargli nelle orecchie la voglia matta che aveva di rivederlo. Presto sarebbe arrivato a quel punto, ma William non aveva voglia di pensarci, in quel momento.
- Non vuoi cosa? – chiese ad Anaël, massaggiandosi stancamente gli occhi.
- Questo legame. – rispose lui, così velocemente da dare l’impressione di aver tenuto quella risposta sulla punta della lingua per ore. – Non lo voglio. È ingombrante.
- I legami sono quelli che sono, non sempre li puoi governare, alle volte ti vengono imposti. – rispose lui con fare annoiato, sfilando la giacca fradicia di pioggia ed appendendola allo schienale della sedia. Si stava consumando in fretta, con tutta l’acqua che stava prendendo. Il vecchio avrebbe dovuto darsi una regolata, se non voleva ripetere quanto già accaduto con Noè quei millenni prima. Il tempo aveva dimostrato che quella del diluvio universale non era poi stata una grande idea, dopotutto. Il marcio era sopravvissuto. Il marcio sopravvive sempre.
- Come sarebbe a dire imposti? – borbottò Anaël, contrariato. William scrollò le spalle.
- Pensa ai legami di parentela. – spiegò, - Madri, padri, nonni, fratelli. Non li scegli certo prima di venire al mondo, in qualche modo ti vengono assegnati. E sono legami con cui devi avere a che fare per tutta la vita.
- Puoi sempre decidere di smettere di vedere i tuoi familiari, se non ti piacciono. – obbiettò Anaël, soddisfatto della propria presa di posizione. Strano angelo dell’amore senza amore in petto. E poi non era come se gli mancasse l’amore e basta, no, era come se gli mancassero addirittura le basi per comprenderlo. Un tempo, quando Dio creava un angelo messaggero lo faceva con ali grandi e potenti, perché volasse in fretta. Quando creava un angelo della morte lo faceva implacabile e sanguinario, perché mai mancasse il suo obbiettivo. Il vecchio stava decisamente perdendo la mano con gli stampi in creta.
- Puoi scegliere di ignorare i legami, ma quelli restano. – ribatté William, sempre più stanco. Sentiva le membra così pesanti che se non avesse raggiunto immediatamente il proprio giaciglio si sarebbe addormentato lì, sul pavimento.
- D’accordo, - concesse Anaël, risentito, - ma tu non sei mio padre, né mia madre, né un mio fratello. Posso scegliere di non volere alcun legame con te perché tu non mi sei stato imposto. – considerò.
William lo sferzò con un’occhiataccia infastidita. Era per questo che lo stava tenendo sveglio? Che si ostinava a rigirargli la vita sottosopra da giorni? Che se ne andasse. Non voleva più vederlo.
- Che problema hai con questo legame, Anaël? – domandò in un ringhio basso. Anaël mosse un passo repentino verso di lui e, senza alcun preavviso, lo schiaffeggiò.
- Che fa male! – strillò istericamente, stringendo i pugni lungo i fianchi. William lo fissò a lungo, incredulo. Poi ringhiò più forte, come una bestia ferita, e lo arpionò al collo, sbattendolo senza la minima delicatezza contro la parete dietro le sue spalle. Strinse le dita artigliate attorno a quella gola così morbida e calda e sentì il flusso velocissimo del sangue di Anaël scorrere sotto i suoi polpastrelli gelati. L’odore della sua rabbia e della sua paura era inebriante, il battito del suo cuore tumultuoso e assordante.
- Tu non sai nemmeno cosa sia il dolore. – sibilò ad un centimetro dalla sua pelle, scivolando con la punta del naso lungo il profilo deciso della sua mascella.
- No. – boccheggiò Anaël, senza perdere la propria compostezza e quell’aria apatica che riusciva a renderlo al contempo così odioso e così desiderabile, - Ma lo sto imparando.
William strinse la presa attorno al suo collo. Il petto di Anaël si gonfiava e si sgonfiava velocemente, come quello di un uccellino fra le grinfie di un gatto.
- Posso insegnarti meglio di così. – sussurrò a pochi centimetri dalla curva dolcissima che si trasformava nella sua spalla, - Il dolore, e anche l’amore.
Anaël gemette disperatamente, a corto di fiato. Forse fu per debolezza, forse per istinto, ma piegò il capo e chiuse gli occhi. Le sue dita sottili splendevano come l’oro, strette attorno alla sua maglia ancora un po’ umida di pioggia, quando William chiuse la bocca su di lui, affondando i denti nella sua carne tenerissima. Spinto dal battito frenetico del suo cuore, il sapore del sangue di Anaël gli esplose in bocca con la potenza di una bomba. Ah, Donovan non avrebbe mai assaggiato un sangue così buono, non avrebbe mai colto la bontà del sapore particolare che prendeva quando la vittima moriva di paura. Quel sangue era caldo e dolce, e William seppe fin dal primo assaggio che non avrebbe più potuto farne a meno. Lo dissanguerò, si disse, perché dopo quello non avrebbe potuto sopportare di non poterlo più vedere. Meglio morto. Dubitava che il vecchio gliel’avrebbe lasciato fare, ma doveva provarci. Non c’era alternativa.
Anaël spalancò gli occhi e si tese all’improvviso, stringendo convulsamente i pugni attorno alla sua maglietta. Spalancò le labbra in un grido muto mentre nella sua mente si spalancavano voragini di ricordi non suoi, distese di campi dorati sotto cieli di un azzurro impossibile, il caldo e la fatica e il sudore e le risate dei bambini, l’acqua di un pozzo profondissimo, gli animali della fattoria, ragazze splendide chine a lavare i panni sulla riva di un lago. E poi la frescura della notte, un uomo dagli occhi verdi e intensi e dai lunghi capelli corvini, un uomo che aveva la stessa espressione di William, ma addolcita dal tempo. Abiti e profumi dal sapore antico, parole di zucchero, denti appuntiti. L’odore e il sapore metallico di sangue sconosciuto. Risentimento. Dolore. Un villaggio. Uomini e donne dai volti deformati dall’odio. Un palco, delle corde, corde strette attorno al collo e ai polsi e ai piedi, dolore indistinto in ogni punto del corpo. esplosioni repentine di sangue, morte e zanne a squarciare gole, gole crudeli e colpevoli ma anche gole innocenti. Piazza pulita. L’alba in arrivo. Una fuga, sgomento, rabbia, altro dolore. Lunghi viaggi. Uno più lungo, per mare. L’arrivo in una città triste. La stessa città che cresceva, si animava, diventava più conosciuta. Strade di notte, la pioggia e altro sangue. Sapore di morte, sapore di vita.
Si accasciò sul pavimento, tremante di paura. William non riuscì a dissanguarlo. Cadde accanto a lui, stringendolo fra le braccia. Ansimavano entrambi. William pianse in silenzio, lacrime rosse acquose, come sangue diluito, mentre la ferita sul collo di Anaël si rimarginava velocissima, senza lasciare nemmeno una cicatrice.
- Non voglio amare. – ansimò Anaël, la voce rotta in singhiozzi che non sapeva come piangere, - Se l’amore è questo, io lo rifiuto.
*
Non riuscì nemmeno ad avvicinarglisi per molti giorni dopo il morso. Anaël non uscì nemmeno di casa. Anche William se lo risparmiò. Non sentiva il bisogno di mangiare, e poi era preoccupato. Gli occhi dell’angelo erano vivi e svegli, ma colmi di una tristezza che stringeva il cuore anche a lui che il cuore l’aveva ormai perso, morto e sepolto per inattività prolungata.
Gli si avvicinò, prendendo il coraggio a quattro mani, quando seppe di non avere altra scelta.
- Anaël, - lo chiamò piano, accarezzandogli i capelli ed osservandolo chinarsi con un sospiro addolorato per seguire col capo il suo gesto, cercando le sue carezze come un gattino spaventato, - Anaël, io devo partire per qualche giorno.
L’angelo si voltò a guardarlo. Sembrava minuscolo, appollaiato su quello sgabello. L’avrebbe invitato a sedersi sul divano, dov’era più caldo, se non avesse saputo che in realtà Anaël non aveva alcun bisogno di riscaldarsi e che comunque, se solo avesse provato a sedersi lì, l’ingombro delle ali gliel’avrebbe impedito.
- Dove vai? – chiese debolmente. William continuò ad accarezzarlo, scivolando lungo una sua guancia.
- Devo incontrare una persona. – rispose incerto.
- Chi? – insisté lui. William si morse un labbro.
- Te lo dirò. – rispose, cercando di rassicurarlo con un sorriso. Anaël abbassò lo sguardo e sembrò rovistare nei propri ricordi per qualche secondo.
- È quell’uomo, vero? – chiese piano, - Quell’uomo che ho visto quando mi hai morso.
William ristette, interrompendo la propria carezza per riprenderla ancora più dolce poco dopo. Sapeva cosa volesse dire essere morsi. Anaël doveva aver visto Donovan.
- Sì. – ammise, - Sì, è lui.
L’angelo si passò una mano sulla tempia, fra i capelli, come reggendosi la testa.
- Chi è? – chiese, - Era tutto confuso, non l’ho capito. Raccontami di lui.
- Non adesso. – sorrise William in un sospiro stanco, chinandosi a baciarlo lievemente sulla fronte. L’idea di separarsi da lui lo devastava. Il morso non aveva fatto che peggiorare la situazione. – Te lo racconterò al mio ritorno. Te lo prometto.
Uscì di casa pochi minuti dopo, cercando di non voltarsi mai indietro e fallendo almeno un paio di volte lungo quella manciata di metri che lo separavano dalla porta. Imprecò quando, una volta per strada, l’urlo lamentoso che Donovan gli stava riversando nella testa dal suo risveglio cessò all’improvviso. Libero da quel fragore frastornante, si concesse un altro pensiero ad Anaël, e quando la voglia di tornare sui propri passi e rientrare si fece più pressante Donovan riprese a urlare.
- Va bene, va bene! – concesse in un sospiro stremato, - Arrivo, vecchio pazzo.
Giunse nel luogo dell’incontro meno di mezz’ora dopo. L’albergo era elegante, in una parte della città che lui non amava frequentare. Donovan lo aspettava in una suite all’ultimo piano. Aveva incantato uno dei facchini perché lo conducesse direttamente da lui senza domande. Gli occhi del ragazzo erano vuoti. Era stato chiaramente morso, il colletto alto e rigido della sua divisa non era abbastanza per coprire le ferite ancora fresche.
- Oh, Dio! – disse immediatamente il vampiro più anziano, quasi correndogli incontro quando se lo vide spuntare sulla soglia fradicio dalla testa ai piedi, - Sei bagnato come un pulcino. – considerò, disinteressandosi comunque del suo stato per slanciarsi verso di lui, stringendolo fra le braccia con tenerezza paterna. – Anche se forse dovrei evitare di pronunciare il nome di Dio invano, di fronte a te. – rise piano.
William si allontanò, lanciandogli un’occhiata infastidita.
- Le voci corrono. – sibilò.
Donovan sorrise dolcemente, accarezzandogli una guancia.
- Sono i miei occhi che non ti abbandonano mai. – disse intenerito. William distolse lo sguardo, sentendosi irrazionalmente in colpa.
- Se sai di Anaël, sai anche di quello che provo per lui. – sospirò. Donovan annuì mesto. – E non ti infastidisce?
Donovan si concesse una risata vagamente disillusa.
- Will, ho smesso da tempo di provare ad addomesticare il tuo cuore. Speravo che fermarlo mi avrebbe aiutato, ma è servito solo a farti scappare via da me. Più di tutto, - sorrise ancora, prendendogli il viso fra le mani e guardandolo negli occhi con infinita tristezza, - ciò che voglio è vederti felice. Se è un angelo, quello che vuoi, pregherò perché Dio non riesca mai a togliertelo.
- Non sapevo che i tuoi rapporti col vecchio fossero tanto buoni. – disse lui, ironico, passandogli oltre e guardandosi intorno mentre con un sorriso Donovan si disfaceva del facchino terminando il proprio pasto in maniera silenziosa e pulita. – Se l’avessi immaginato, ti avrei chiesto di intercedere.
- Ho detto che pregherò, Will, non che Dio mi ascolterà. – precisò Donovan in una mezza risata, trascinando il cadavere all’interno della suite e chiudendo la porta. – Figliolo, sii gentile, dammi una mano.
William si voltò a guardarlo e vide che stava portando il cadavere in bagno.
- Perché finiamo sempre a smembrare cadaveri e nasconderli sotto le assi del pavimento delle stanze degli alberghi che scegli per incontrarci, quando siamo insieme? – chiese con aria annoiata, seguendo il proprio creatore e raggiungendolo quando lui ormai aveva già issato da solo il corpo esangue, posandolo all’interno della vasca da bagno.
- Se c’incontrassimo per strada, gli avanzi della cena non sarebbero un problema. – rispose Donovan, alzandosi in piedi e sparendo nell’altra stanza per tornare subito dopo con due coltellacci da macellaio, uno dei quali porse a William, - Ma visto che siamo in un posto chiuso, non possiamo certo permetterci di lasciare un cadavere in un angolo di corridoio. E non pretenderai certo da me, che sono così vecchio e stanco, che incanti tutto l’albergo per permetterti di portare fuori il corpo senza che nessuno ti chieda perché passeggi con un morto in spalla come un sacco di patate, ti pare?
- Va bene, va bene… - mormorò William, rassegnandosi a mettersi al lavoro col proprio coltello. Non era un lavoro particolarmente sporco, Donovan era bravo a non lasciare neanche una goccia di sangue in corpo alle proprie vittime, ma ciò non rendeva il tutto meno squallido. L’appartenenza di Donovan alla vecchia guardia – William poteva vantare ben più di un paio di centinaia d’anni alle spalle, ma l’età di Donovan si perdeva in periodi troppo oscuri e lontani per poter essere identificata – era evidente soprattutto in quei dettagli. Nel rigido attenersi ad un codice deciso in tempi morti ormai da secoli, protocolli non scritti che non sempre si rifacevano all’idea canonica di eleganza che le sue vesti sempre impeccabili ispiravano ad una prima occhiata. Era l’eleganza del sangue, un’eleganza particolare che esigeva che, per disfarti dei cadaveri, tu ricorressi alle tue mani così come eri ricorso alle tue zanne per ucciderli.
- Peraltro, - disse Donovan in un pigolio allegro, - così avremo il tempo di farci una bella chiacchierata. È quasi un anno che non ci vediamo. Potevi prendere un ombrello, prima di venire.
- Sei così involontariamente comico che non mi viene neanche da ridere. – sospirò William, lanciando un arto mozzato ai piedi della vasca, - Prima mi fai sentire in colpa perché non ci vediamo da quasi un anno e poi mi dici che avrei anche potuto attardarmi per prendere un ombrello. Sai cosa? L’avrei anche preso, un ombrello, se qualcuno a caso non avesse deciso di mettersi a strillare come un’aquila dal momento in cui ho aperto gli occhi al tramonto.
Donovan ridacchiò, coprendosi la bocca col dorso di una mano.
- Mi mancavi, ti volevo qui subito. – si giustificò, - Ma ciò non vuol dire che io non mi possa preoccupare per te.
- Non posso prendere raffreddori, perciò evita pure. – rispose lui, burbero. Donovan si chinò sulla sua spalla, appoggiandovisi col languore di un innamorato sotto la luce della luna.
- Eppure non riesco a impedirmelo. – sospirò. – Il mio pensiero è sempre rivolto a te.
William distolse lo sguardo, vagamente in imbarazzo.
- Forse dovresti trovarti un hobby.
Donovan sospirò teatralmente, rimettendosi dritto e riprendendo a lavorare.
- Alla mia età, un vampiro non ha bisogno di hobby, ma di un compagno fedele che possa amare e rispettare per tutto il resto della sua esistenza. – sbuffò.
- Appunto, un hobby. – ghignò William, ricevendo in cambio un’occhiataccia colma di paterna disapprovazione che però si trasformò subito in un sorriso più dolce.
- Ah, William. – rise lieve Donovan, allungandosi a sfiorargli la guancia con le labbra in un bacio più leggero di una piuma, - Sei scappato via dall’amore per dei secoli ed ora giochi col sarcasmo perché è l’amore che scappa via da te.
William abbassò lo sguardo, aggrottando le sopracciglia.
- Anaël non sta scappando.
- Ma non vuole amarti.
- Ciò non vuol dire che non mi ami comunque. – sbottò in un mezzo ringhio che gli si spense subito in gola quando, voltandosi a cercare Donovan, lo trovò perfettamente sorridente, ancora intento a smembrare il cadavere. Sospirò arreso, avvicinandosi a lui in modo da poterlo sfiorare. La sua presenza non gli era mai mancata come negli ultimi giorni. Non si era mai sentito tanto in colpa nei suoi confronti. Non gli si era neanche mai sentito tanto vicino. – Come farò se non accetta di amarmi? – chiese in un mormorio impaurito.
Donovan lasciò andare il coltello e la gamba che stava segando all’altezza del ginocchio, allungando la mano pulita a scompigliargli i capelli.
- Lo lascerai andare. – rispose con un sorriso, - È quello che fai quando ami qualcuno che non può ricambiarti.
William considerò la sua risposta per qualche secondo e poi annuì brevemente, riprendendo il lavoro. In qualche modo, quelle parole lo rincuoravano: se Donovan era sopravvissuto, lui non avrebbe potuto tradire il suo sangue. Non sarebbe stato da meno.
*
Quando tornò a casa, un paio di giorni dopo, Anaël stava piangendo. Grossi goccioloni brillanti come pietre preziose scivolavano lungo le sue guance tonde e bianche come porcellana. Piangeva in silenzio, ma sorrideva.
- Ho imparato. – sussurrò in un mezzo singhiozzo senza fiato, - Guarda, ho imparato. – ripeté, indicandosi gli occhi. Erano arrossati come quelli di un qualunque essere umano. I suoi capelli scomposti e la sua veste stropicciata. Alcune piume s’erano staccate dalle sue ali e ora giacevano sul pavimento, sparse attorno allo sgabello. Somigliavano a quelle piume vecchie e spennacchiate che ogni tanto i piccioni lasciavano sull’asfalto dopo essersi librati in volo. La sua bellezza era ancora ultraterrena, ma la sua essenza si stava macchiando di mortalità umana. Nel vederlo così vulnerabile, William si sentì investire dall’amore una volta di più e non poté fare a meno di pensare che il vecchio l’avesse mandato lì apposta per sporcarsi. L’amore non è mai puro. Pertanto, neanche un angelo dell’amore può esserlo.
Gli si avvicinò un passo dopo l’altro e lo strinse fra le braccia, premendoselo contro. Anaël nascose il viso contro la sua giacca bagnata, e William se la sfilò velocemente, tornando subito ad abbracciarlo.
- Mi sei mancato. – gli sussurrò fra i capelli.
- Anche tu. – rispose Anaël, - Se questa è mancanza. Non sapevo cosa guardare e qualunque cosa vedessi mi infastidiva, perché non eri tu. È mancanza?
William rise, stringendolo più forte.
- Credo di sì. – rispose annuendo. Poi sospirò, ravviandogli una ciocca di capelli dietro un orecchio ed allontanandosi appena per poterlo guardare negli occhi. Quelle lacrime stupende continuavano a rotolare lungo le sue guance. Sembrava un quadro. – Ti racconterò tutto. – promise, - Anche questo è importante, in amore.
- Raccontare…? – chiese Anaël, incerto. William sorrise e scosse il capo.
- Non raccontare. Condividere.
*
Era nato in una famiglia già fin troppo numerosa, e i suoi genitori non avrebbero deciso di fermarsi neanche dopo di lui. Si amavano, d’altronde, e per gli standard dell’epoca erano giovani e in forze. Sua madre, sospettava William, se avesse potuto avrebbe sfornato figli per suo padre fino alla morte.
La fattoria non era molto grande e ci si nutriva principalmente di ciò che si produceva. La vita era dura, ma semplice, e in quanto tale felice. William passava le sue giornate fra i campi, il bosco e il lago. Gli avvenimenti più emozionanti erano i parti nelle fattorie vicine, fossero d’uomo o di animale. Quando una mucca o una giumenta si preparava a partorire, la mobilitazione dei ragazzini era totale. Si organizzavano grandi feste e le donne preparavano torte e tiravano fuori dalle credenze barattoli di conserva dal sapore paradisiaco.
William si annoiava. I suoi fratelli e le sue sorelle, fossero più grandi o più piccoli di lui, trovavano sempre qualcosa da fare per ingannare il tempo quando non c’era da lavorare, ma per lui non era così semplice. C’era, dentro di lui, una noia di fondo che non l’abbandonava mai. In capo a sedici anni, William l’aveva già accettata come una parte profonda di sé che sarebbe rimasta immutata nel tempo.
E poi aveva conosciuto Donovan.
Era successo una notte, per caso. Faceva troppo caldo per continuare a dormire assieme a tutti gli altri suoi fratelli ammassato sulla paglia. S’era alzato scrollandosi di dosso il pagliericcio rimasto attaccato alla pelle sudata e poi era uscito nella pallida luce della luna che rischiarava il buio azzurrognolo di quella notte estiva. Aveva lanciato un’occhiata al lago ed aveva pensato ad un bagno, ma giunto in riva aveva notato la quantità enorme di zanzare che volavano pigramente a pelo d’acqua e, preoccupato anche dall’impossibilità di vedere il fondo, con tutto quel buio, aveva lasciato perdere. S’era perciò diretto verso il bosco, decidendo di concedersi una passeggiata. C’era la possibilità di incontrare qualche creatura selvatica, ma avrebbe corso il rischio.
La creatura selvatica che aveva incontrato aveva forma d’uomo. Aveva trovato Donovan intento a dissanguare una ragazza nel folto del bosco, in mezzo agli alberi secolari che, con le loro enormi radici attorcigliate in superficie, offrivano il riparo migliore. I raggi di luce che filtravano tra le fronte gli avevano restituito l’immagine del viso della giovane. Conosceva quelle labbra scarlatte, quegli occhi azzurri, quegli splendidi capelli rossi. Era la figlia del mugnaio, passava ogni due settimane sul carretto guidato dai suoi fratelli e vendeva il pane di suo padre in cambio di altri prodotti. Sua madre lo scambiava sempre per il latte della loro vacca più matura. Uno dei suoi fratelli, un suo coetaneo, era innamorato di lei. Da qualche giorno stava pensando di chiederla in sposa.
Donovan aveva lasciato andare il cadavere e gli era andato incontro. I suoi occhi erano verdi e brillanti nonostante il buio, sembravano quelli di un gatto. Aveva sollevato una mano e gli aveva sfiorato una guancia. Le sue dita erano gelide. William, pietrificato, non era stato in grado di sottrarsi a quel tocco.
- Sei splendido. – aveva sussurrato Donovan.
William era corso via, ma la notte successiva, quando il caldo era tornato a farsi insopportabile, era tornato nel bosco. E quando aveva visto che Donovan lo stava attendendo – stavolta senza cadaveri per le mani – aveva capito che non era stato solo per le difficoltà ad addormentarsi che l’aveva raggiunto.
Gli aveva chiesto chi fosse. Donovan aveva risposto. William non aveva potuto credere alle sue orecchie ed era fuggito ancora, ma notte dopo notte era sempre tornato, e Donovan s’era sempre fatto trovare ad attenderlo, con quell’incrollabile sorriso a piegare le labbra sottili e violacee e quegli occhi sempre ardenti di desiderio inespresso. Aveva visto tutto il mondo conosciuto, Donovan. Gliene aveva descritto una parte, ma le cose di cui parlava a William erano sembrate tutte impossibili, come vecchie leggende. Per lui, che nella sua vita non aveva visto altro che campi di grano fino alla linea dell’orizzonte, l’idea che esistessero delle città, che la gente solcasse i mari e costruisse abitazioni in pietra era semplicemente inaccettabile.
Nel frattempo, il lutto per la figlia del mugnaio era calato pesante su tutto il circondario, e ad esso erano seguite altre decine di lutti. Donne e ragazzini, principalmente. William aveva chiesto a Donovan il perché di questa scelta. Lui aveva risposto che non gli piaceva combattere con le sue prede. Ne cercava sempre di deboli, così da poter offrire loro una morte immediata e priva di dolore. Gli uomini erano sempre più forti e attenti, con loro rischiava sempre di non riuscire ad affondare i canini abbastanza in profondità, o abbastanza velocemente per impedirgli di accorgersene. Odiava che le sue vittime si dibattessero e gemessero, odiava anche solo l’idea che si accorgessero di essere diventate il suo pasto. Non c’era niente di onorevole, diceva, nell’infliggere sofferenza a creature così manifestamente più deboli di loro. Perfino il leone, diceva, uccide la gazzella spezzandole il collo. Perché un vampiro avrebbe dovuto mostrare meno pietà?
Alla fine, durante una notte in cui la luna piena era un disco così grande e luminoso da incombere sulla terra con aria quasi minacciosa, Donovan gli aveva detto che sarebbe partito il giorno dopo. La gente stava cominciando a chiacchierare troppo. Troppi padri e troppi fratelli piangevano la scomparsa di troppe mogli, figlie, madri e sorelle. C’era chi, in paese, già progettava di girare per il bosco a torce e forconi spianati per trovare la bestia che divorava i loro familiari. Restare non era più sicuro.
- Vieni con me. – l’aveva implorato. I suoi grandi occhi verdi erano ansiosi e colmi di paura. William aveva mosso qualche passo indietro, per allontanarsi da lui, ed aveva scosso vigorosamente il capo. Donovan s’era morso un labbro, e poi s’era avventato su di lui. – Scusami, - gli aveva sussurrato, prima di affondare i canini nel suo collo e succhiare all’istante abbastanza sangue da rendergli le gambe molli e cedevoli, impedendogli di fuggire, - non posso essere veloce, non stavolta. – aveva continuato, separandosi da lui per guardarlo negli occhi mentre quelli, lentamente, perdevano la loro luce, - Ho paura che allontanarti da me sarà la prima cosa che farai, quando sarai rinato. – aveva concluso, sorridendo tristemente, prima di tornare a dissanguarlo.
William aveva riaperto gli occhi sul mondo poco dopo, la testa confusa, piena di nozioni e luoghi e date e facce e storie di mondi antichi. Non sentiva fatica, però, mentre osservava il proprio cervello mettere ordine fra tutte le nuove informazioni acquisite, quasi come uno spettatore esterno. Era incuriosito dalla velocità con la quale la sua mente sembrava funzionare.
Ma era indiscutibilmente morto. E affamato.
Si era voltato a cercare Donovan. Lui sorrideva, una traccia di colpa negli occhi.
- Non voglio stare con te. – gli aveva detto senza alcun timore. Aveva tanta fame che non avrebbe esitato a mordere perfino il suo creatore, se non avesse saputo che non sarebbe servito a saziarsi. Donovan aveva guardato altrove, gli occhi gonfi di lacrime rossastre. L’aveva lasciato andare senza un lamento, conscio del proprio fallimento.
William aveva vagato a lungo, allontanandosi dalla propria famiglia e da tutto ciò che conosceva. Ogni luogo in cui andava sembrava familiare, ormai. Erano le immagini dell’enorme conoscenza di Donovan che si proiettavano nella sua mente, dandogli modo di conoscere anche cose di cui non avrebbe dovuto sapere niente. La voce di Donovan gli rimbombava nelle orecchie, con tono paterno gli spiegava ogni cosa. Come cacciare, come nutrirsi, dove fermarsi. Ogni tanto, quella stessa voce assumeva sfumature più dolci, implorandolo di tornare a lui. William la ignorava. Poco dopo, quella scompariva.
Si era fermato in un villaggio molto distante dal suo. Memore degli insegnamenti di Donovan, aveva pensato di fermarsi per un paio di settimane e poi ripartire nell’ombra, esattamente com’era arrivato. Ma qualcosa era andato storto. Affamato oltremisura, indebolito dal lungo cammino e digiuno da giorni, aveva agito sconsideratamente, piombando sul collo della prima persona che aveva visto, il giovane figlio di un contadino. Il ragazzo era riuscito a sottrarsi al suo morso dopo essere stato ferito al collo, ed adocchiate le sue zanne aveva preso ad urlare. Nel giro di un paio di minuti, William s’era ritrovato circondato. Poi catturato. Enormi torce erano state accese lungo il perimetro del piazzale più grande del villaggio. Era stato issato un palco a tempo di record, i falegnami del paese avevano lavorato ininterrottamente per tre ore. William, chiuso in una minuscola gabbia, spaventato come una bestia catturata durante una battuta di caccia, provava ad allargarne le sbarre, ma era troppo debole.
Il cielo stava cominciando a rischiararsi, quando l’avevano tirato fuori da lì. L’avevano issato sul palco e legato mani e piedi ad un palo. Aveva ringhiato, provando a liberarsi, ma non era riuscito a combinare niente. Di ciò che era successo dopo ricordava quasi esclusivamente il dolore, le urla della gente e la sensazione tremenda degli attizzatoi arroventati che gli trapassavano la pelle e la carne. Aveva cercato di sopportare il più possibile senza urlare, rifiutandosi di dare soddisfazione ai suoi carnefici, alla folla che lo chiamava demonio e al gruppetto di vecchie megere defilato tutto intento a sgranare rosari per difendere gli uomini che lo stavano torturando da sue eventuali ritorsioni. Pensando a Dio non udiva che la voce di Donovan che gli consigliava di starne alla larga. Ma se quella che vedeva era una manifestazione di Dio sulla terra, allora William era pronto a giurare a se stesso che, se fosse sopravvissuto, prima o poi l’avrebbe divorato.
Aveva urlato solo quando il sole aveva cominciato ad approssimarsi all’orizzonte. La pelle bruciava per le ferite e per i raggi, ed il dolore era troppo forte per tollerarlo ancora.
Donovan era apparso meno di un minuto dopo. Con occhi annebbiati, William l’aveva osservato sterminare tutto il villaggio azzannando gole, spezzando colli e strappando arti in preda ad una furia mai vista. I suoi occhi iniettati di sangue brillavano del riflesso del sole nascente. Alla fine, aveva tramortito una delle grasse matrone che fino al secondo prima era impegnata a pregare per la buona riuscita dell’esecuzione. Adesso, accucciata su quell’enorme sedere e sporca di sangue e terra, la donna continuava a pregare, ma solo per la salvezza della propria vita. Non le era servito. Con un potente ceffone, Donovan l’aveva mandata a stendersi per terra. Poi l’aveva liberato dalle corde e se li era caricati entrambi in spalla, trovando rifugio nella cantina di una delle abitazioni ormai vuote un attimo prima che il sole diventasse troppo pericoloso.
- Mangia. – gli aveva detto, porgendogli il collo della donna. William aveva chiuso gli occhi e affondato i denti. Si sentiva grato, ma mentre le sue ferite cominciavano a guarire e la forza tornava ad invadergli le membra, tutto ciò che riusciva a pensare era che voleva rimettersi quanto prima per poter partire quella notte stessa.
- Non voglio stare con te. – aveva ripetuto a Donovan dopo aver finito di mangiare. Donovan aveva abbassato lo sguardo. L’aveva lasciato andare senza una parola anche quella volta.
*
Anaël continuava a piangere, stretto al suo petto. L’aveva ascoltato senza fare domande, senza dire una parola.
- Hai paura di me? – gli chiese William, guardando un punto a caso oltre la sua spalla. Anaël scosse il capo. Le sue ali fremettero. Sorrideva.
- Non ho paura. – rispose, sollevando gli occhi nei suoi. – Ti amo.
William aveva abbassato le palpebre, perdendosi nel confortante abbraccio del buio riscaldato dal suo tepore. Il profumo di Anaël si fece più intenso, così come più alta si fece la temperatura della sua pelle. Quando William riaprì gli occhi, Anaël splendeva. Le sue ali bianche emanavano bagliori accecanti. I suoi occhi, oro liquido, erano diventati incandescenti. Il suo sorriso di uno splendido rosso vivo era carezzevole e aperto su una chiostra di denti bianchissimi. L’espressione più bella che gli avesse mai visto addosso.
Il cono di luce che si aprì attorno a loro non bruciava. Il pensiero di poter sentire il calore del sole sulla pelle, dopo tanti anni, gli strappò un gemito di commozione dal fondo della gola.
Anaël spalancò le ali e William strinse le mani attorno alle sue.
- È destino. – sussurrò in un ansito spezzato, - Come il mio creatore, ho finito per innamorarmi dell’unica creatura che non posso avere.
Anaël sorrise, un sorriso pieno di comprensione. Il suo volto era trasfigurato. Liberò una mano dalla stretta delle sue solo per potergli accarezzare una guancia. S’era già sollevato in volo per almeno mezzo metro, quando si chinò a baciarlo. Il contatto delle sue labbra gli offrì un assaggio di paradiso, un amore quasi troppo forte per poter essere sopportato ancora.
- Ma io tornerò. – sussurrò Anaël. La sua voce era irriconoscibile. – Tu devi solo aspettare.
Osservandolo scomparire mentre risaliva il cono di luce fino ad oltrepassare le nubi alte nel cielo, un attimo prima che quel momento miracoloso passasse, restituendogli il soffitto del suo tetro appartamento, William riuscì a vedere oltre. Gli angeli danzanti in festa. Grandi mani calde pronte ad accogliere Anaël. Sorrise pensando che lui e il vecchio non sarebbero mai, proprio mai andati d’accordo. Da bravi suocero e genero.
Doveva solo aspettare, sì. Era una fortuna che di tempo ne avesse a iosa.
Sospirò pesantemente, lanciando un’occhiata fuori dalla finestra. La notte era scura e stranamente silenziosa. Non aveva una gran fame, ma decise comunque di concedersi un giro. Giunto sulla soglia, fece per recuperare l’ombrello mentre la voce di Donovan, persa da qualche parte dentro la sua testa, ridacchiava divertita.
Scoprì di non averne bisogno. Aveva smesso di piovere.
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  1. CA-VO-LO.
    La mia faccia è tipo così—> O______________________o in questo momento =O
    Ho impiegato un tempo immane per leggerlo, e suppongo che se fosse stata qualunque altra cosa il mio cervello non avrebbe retto oltre la cinquemilesima parole e invece.. wow! Cavolo, ho sete da circa un’ora, forse di più, ma ogni volta che dicevo stacco al punto e vado a bere, arrivata al punto dovevo per forza andare avanti… è andata così per circa una cinquantina di punti, poi temo di essermi arresa all’evidenza che se non avessi finito questa storia potevo scordarmi che il mio cervello desse l’ordine al mio corpo di alzare le mie chiappe dalla sedia e andare a bere xD
    mi dispiace solo che questa storia non sia nella vampiresca squadra dei succhiasangue
    Ma credimi, ho amato tutto. TUTTO. Dalla caratterizzazione dei personaggi ai contenuti veicolati. E il finale! Cavolo, il finale era un bel rischio con una storia del genere, ho temuto fino all’ultimo a)che scadessi nella mortale banalità di un lietofine zuccherosissimo (come ho potuto pensare anche solo per un secondo che se eri così abile a gestire una storia del genere avresti mai potuto scadere nel banale?! Come?! si fustiga per autopunirsi) b) un finale eccessivamente tragico che mi avrebbe rovinato l’umore per giorni e giorni a venire… e invece no! Non so come hai fatto esattamente ma ti sei mantenuta esattamente nel mezzo e per di più hai fatto tutto con quell’ironia meravigliosa di cui peraltro è pervasa tutta la storia (sì, sto fangirlando senza ritegno)…
    Ah, e per inciso… divento così schifosamente logorroica solo per le storie che amo senza ritegno (tipo questa u.u)
    comincia a sventolare le bandierine
    La cosa ironica è che a dire scrivi di più remo contro la mia stessa squadra bwahahahahhaha ma in questo momento voglio solo leggere altro bwahahahhahahahah xD

    minnow90
    20/02/2011 00:55

  2. Ma che bella storia. Ma è proprio bella. La tipologia dei vampiri è fatta bene bene, Donovan e William (che mi ricorda un po’ Spike – ma forse è perché una volta che hai visto “Buffy”, ce l’hai sempre in testa) sono bellissimi e bwah, puccitudine all over the place.
    Mi è dispiaciuto finirla, avrei voluto andasse avanti forever ;_; gnikki <3

    beesp
    26/02/2013 21:03

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